La guerra è sogno. Herzog e l’ultimo giapponese

Non c’è fra gli estimatori di Werner Herzog chi non conosca una vicenda di cui il regista bavarese è stato protagonista e dalla quale avrebbe potuto coerentemente trarre un film, non fosse appunto che l’eroe della storia era lui stesso. Tra il novembre e il dicembre del 1974, trentaduenne e già piuttosto noto tra i cinéphiles europei (Fata Morgana e Anche i nani hanno cominciato da piccoli risalgono al 1970 e Aguirre, furore di Dio, che lo avrebbe fatto conoscere a un pubblico più vasto, al ’72), Herzog camminò da Monaco di Baviera a Parigi, convinto che così avrebbe salvato Lotte Eisner, celebre critica cinematografica tedesca, sua sostenitrice e amica, in quel momento ricoverata in fin di vita in un ospedale della capitale francese.

In questi termini l’impresa sembrerebbe il frutto di un inquietante delirio di onnipotenza, come deliranti possono forse apparire molti dei film di Herzog. Vale però la pena ricordare che quel “voto laico”, come lo definisce misuratamente Wikipedia, venne esaudito, e che nove anni dopo fu la stessa Eisner – malata, cieca, pressoché incapace di muoversi – a chiedere al regista di permetterle infine di morire. Ma soprattutto, chi ha letto il diario di quella solitaria marcia invernale, uscito in italiano nel 1980 per Guanda con il titolo Sentieri nel ghiaccio (in originale Vom Gehen im Eis, “Del camminare nel ghiaccio”), sa che se di delirio si può e forse si deve parlare, è nel senso etimologico della parola, in quell’uscire dal solco (“de lira”) che spaventa i più e che per Herzog è l’unica modalità possibile di una esistenza degna di questo nome. Nel suo percorso verso Parigi, esposto a “tormente furibonde” e a “bufere spaventose”, lo vediamo procedere evitando le strade battute, tagliando per “campi pieni d’acqua”, intrufolandosi in capanni vuoti dove trascorre notti gelide, popolate di incubi. Nessun masochismo, soltanto la “assoluta fiducia che lei [Eisner] sarebbe rimasta in vita, se io fossi arrivato a piedi. A parte questo, volevo essere solo con me stesso”, come scrive nella nota introduttiva al libro.

Hiroo-Onoda

L’esposizione alla fatica e al rischio, la solitudine come necessità primaria, una sorta di rabdomantica sicurezza delle proprie risorse e delle proprie scelte anche quando sembrano, appunto, deliranti, sono tratti che ricorrono nella vita e nell’opera di Herzog. Già si delineano negli anni dell’adolescenza e della prima giovinezza, costellati di viaggi sempre più temerari, e prima ancora, durante l’infanzia in una Germania postbellica dove – ricorda il regista nel bel libro-intervista curato da Paul Cronin Incontri alla fine del mondo (minimum fax 2009, edizione italiana a cura di Francesco Cattaneo) – i bambini “occupavano interi quartieri distrutti dalle bombe e si appropriavano dei resti degli edifici, andandoci a giocare e trasformandoli in teatri di grandi avventure”.

Certo il mondo è per Herzog un inesauribile teatro di grandi avventure, e il conflitto – nel senso più immediato della guerra, ma anche di scontro con una società indifferente e crudele o con una natura stupenda nella sua potenza ma mai benevola – è il filo che tiene unita gran parte della sua produzione. Più avanti nello stesso libro, a Cronin che gli chiede quali siano le connessioni tra i suoi lavori, il regista risponde: “Ho sempre pensato ai miei film come a un’unica grande opera portata avanti per quarant’anni. I personaggi di questo immenso racconto sono tutti ribelli disperati e solitari privi di una lingua che gli permetta di comunicare. A causa di ciò, finiscono inevitabilmente per soffrire. Sanno che la loro rivolta è condannata al fallimento, ma continuano senza tregua, anche se feriti, e lottano contando solo sulle loro forze”.

Di questa lunga ed eterogenea galleria di ribelli solitari che è arrivata a comprendere in anni recenti Gorbacëv, oltre all’amico e quasi alter ego Bruce Chatwin, e che include figure non umane come il pinguino che si allontana dal gruppo in Incontri alla fine del mondo, l’esponente più celebre è Fitzcarraldo, protagonista del film che da lui prende il nome, dalla cui lavorazione Herzog ha tratto un diario – anzi, “un paesaggio interiore partorito dal delirio della giungla”, La conquista dell’inutile (Oscar Mondadori 2007). Ma sicuramente vi si inserisce a pieno titolo anche la figura centrale dell’ultimo libro del regista, Il crepuscolo del mondo: anzi, se non sapessimo che Hiroo Onoda è realmente esistito, e per quasi trent’anni, isolato e tenacemente inconsapevole, ha continuato a combattere una guerra ormai conclusa per il mondo, si sarebbe tentati di credere a un’invenzione di Herzog, a un fratello, lontano nel tempo e nello spazio, di Aguirre o di Grizzly Man – loro stessi, del resto, personaggi realmente vissuti, ma dal regista concentrati in emblemi della loro ossessione.

È stato un incontro voluto e ineludibile, quello tra il vecchio soldato giapponese e Herzog che, trovandosi a Tokyo alla fine degli anni Novanta, ha rifiutato senza pensarci due volte l’onore di una udienza privata con l’imperatore, chiedendo invece di poter conoscere Onoda. E tuttavia il regista stesso avverte, in una singolare premessa anteposta al titolo del libro, che non era l’uomo a interessargli: “Ciò che stava a cuore all’autore, infatti, come dovette riconoscere durante il suo incontro con il protagonista, era altro: l’essenza della storia”.

Intorno all’essenza, al nucleo di una storia da raccontare, da tradurre in immagini nuove, non usurate dalla consuetudine, in cerca di una verità che trascende la distinzione fra fatto e finzione, ruota tutta l’opera di Herzog. Né sfugge a questa ricerca di verità Il crepuscolo del mondo, scritto nel 2020, quando il regista è stato – come tutti noi – costretto a una imprevista clausura: un esercizio di cinema e sul cinema, anche in assenza di uno schermo dove proiettare le immagini.

La consegna della spada

In principio, forse anche prima di Onoda o comunque inseparabile da lui, c’è un paesaggio, l’isola di Lubang, nelle Filippine, dove “l’ultimo giapponese” conduce la sua guerra solitaria. (“Il punto di partenza per molti dei miei film è un paesaggio, sia che si tratti di una località reale, sia che si tratti di una località immaginaria o allucinatoria, ricavata da un sogno… Dovrei forse dire che i paesaggi non sono tanto lo stimolo iniziale di un film, bensì ne diventano l’anima”, ancora in Incontri alla fine del mondo). Le descrizioni sono rapide, precise: il piccolo campo d’aviazione dove “da anni l’asfalto slavato e pieno di crepe non viene riparato”; il Monte Cinquecento simile “a una testa grassoccia, calva”; le risaie che “si estendono fin quasi al confine con la giungla”; e dominante su tutto, la foresta vergine che “non conosce il tempo”.

Ma il tempo, cui la giungla può essere indifferente, tiene in ostaggio gli umani, perlomeno noi umani che viviamo nell’era della vera o presunta conoscenza (lo aveva detto lo stesso Herzog nel 2010 in Cave of forgotten dreams, commentando un ciclo di pitture rupestri realizzato nell’arco di cinquemila anni: “Loro non erano, come noi, prigionieri del tempo”). E dunque, nel libro – come nel cinema, in tutto il cinema – il tempo è il perno intorno a cui Herzog costruisce l’azione: ognuno dei brevi capitoli che scandiscono Il crepuscolo del mondo, è segnato, oltre che dall’indicazione del luogo, da una data, con un andamento circolare. In apertura il 20 e il 21 febbraio 1974, quando Onoda avvista e poi incontra lo studente Norio Suzuki, un altro ribelle herzoghiano, ex studente dell’università di Tokyo, che ha abbandonato gli studi per raggiungere le tre mete che si è prefisso – l’ultimo soldato giapponese, il panda nel suo ambiente naturale, lo yeti (morirà nella sua ultima spedizione, travolto da una valanga sull’Himalaya, e Onoda andrà a rendergli omaggio); in chiusura di nuovo il 1974, il 9 marzo, il giorno in cui “l’ultimo giapponese” si arrende e consegna a un generale dell’esercito filippino le sue armi – il fucile ancora funzionante e la spada di famiglia, conservata nei decenni con cura meticolosa, che gli viene immediatamente restituita perché, dice il generale, “il vero samurai conserva la propria spada”. Tra l’una e l’altra data Herzog inserisce una serie di momenti, in alcuni casi ravvicinati tra loro, altre volte separati da decenni: un tempo che si slabbra e si ripete, le necessità della sopravvivenza quotidiana, le rapide razzie nei poveri villaggi dell’isola in cerca di provviste, i ricordi e le conversazioni con i due o tre compagni di questa guerriglia interminabile, che muoiono a uno a uno, lasciando solo Onoda, costretto a chiedersi se il suo non sia solo un sogno: “L’isola di Lubang esiste veramente o è soltanto frutto dell’immaginazione, un semplice punto sulle carte nautiche inventate dai primi esploratori, dove i mari sono abitati dai mostri e gli uomini hanno teste di cani e di draghi?”.

Al sogno dell’ultimo soldato giapponese Herzog dà voce, fa proprie le sue parole. Non cerca di capire, ma raccoglie e fa risuonare la canzone che Onoda si ripeteva nei lunghi anni a Lubang per farsi coraggio: “Posso sembrare un vagabondo o un mendicante / ma tu, luna silente, sei testimone dello splendore della mia anima”. Come ha giustamente osservato Daniele Dottorini sulla rivista online Fata Morgana, “Herzog ama i suoi personaggi […] non importa quanto siano lontani dal suo modo di vedere il mondo”. Un amore, il suo, privo di condiscendenza e di falsa pietà, capace di fissare l’altro senza distogliere lo sguardo, senza negare la sua mostruosità, in cui la nostra non fa che specchiarsi. E se – ricordando quello che ha detto il regista a proposito di uno dei suoi primi e più controversi film, Anche i nani hanno cominciato da piccoli – “abbiamo tutti un nano dentro di noi […] che sta urlando perché vuole uscire”, non possiamo non chiederci quanto sia lontano da noi, in questo crepuscolo del mondo, il sogno dell’ultimo soldato giapponese. Del resto, “anche un passo a ritroso era un passo nel futuro”.

Werner Herzog
Il crepuscolo del mondo
traduzione di Nicoletta Giacon
Feltrinelli, 2021, pp. 128, € 14

In copertina: Albarrán Cabrera, The Mouth of Krishna, #600, Japan, 2016 Pigments, gampi paper and gold leaf. 10 1/10 × 6 7/10 in 25.6 × 17 cm Edition of 20 + 2AP (detail) ©Albarrán Cabrera

Maria Teresa Carbone

Giornalista, autrice e traduttrice, ha coordinato la redazione della rivista online «alfabeta2» dal 2014 fino alla sua chiusura, nel settembre 2019. In precedenza ha diretto la sezione Arti del settimanale «pagina99», ha lavorato alle pagine culturali del quotidiano «il manifesto» e ha curato alcune edizioni del festival romapoesia. Da diversi anni si occupa di promozione della lettura in Italia e all’estero. Il suo libro più recente, “111 cani e le loro strane storie”, è uscito nel 2017 per Emons e l'anno successivo è stato tradotto in tedesco.

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