L’imperatore si è rivestito. Cattelan all’Hangar Bicocca

Attraversi i lembi sovrapposti di un sipario nero ed entri in un vasto ambiente vuoto immerso nella penombra: lo spazio è gigantesco e silenzioso, attraversato da echi lontani; le ombre dei pilastri  sembrano perdersi verso l’alto; le pareti sono solo punti e linee di luce in lontananza. La tua attenzione, però, va subito davanti a te, a qualche decina di metri dall’ingresso: due forme bianche appoggiate sul pavimento, illuminate con discrezione da un proiettore nascosto.

Ti avvicini e scopri che le forme sono due corpi distesi: un uomo e un cane, uno di fronte all’altro, di un materiale candido, probabilmente marmo, che la luce rende quasi opalescente. Dormono. L’uomo è in posizione fetale, la testa appoggiata sulle mani, berretto di lana da pescatore, maglietta e pantaloncini, piedi nudi. Il cane è adagiato sul fianco, con le zampe allungate e il muso rivolto alla faccia dell’uomo. Una scena di tenerezza e innocenza. Verrebbe voglia di accarezzarli.

Visti così, assopiti sul pavimento in un luogo pubblico, sembrano un barbone e il suo cane; o meglio, i loro fantasmi, perché quel biancore affascinante e innaturale li rende corpi eterei, ectoplasmi solidi. Poi ti guardi in giro e ti rendi conto che in quell’edificio smisurato non c’è nient’altro. Le pareti e il soffitto, così lontani e immersi nel buio, è come non esistessero. I due sono soli e senza un vero riparo, in un limbo nero sospeso nel nulla, dove l’unica cosa solida è il pavimento sotto i piedi.

Perché sono lì, quei due fantasmi? I fantasmi – e per qualcuno anche i barboni – infestano i luoghi. Eppure quell’innocuo barbone e il suo cane sembrano piuttosto “infestati” dal luogo, da quell’enorme vuoto nero che incombe minaccioso su di loro, addormentati e indifesi.


Maurizio Cattelan, veduta della mostra, Breath Ghosts Blind, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2021 Courtesy l’artista e Pirelli HangarBicocca, Milano Foto: Agostino Osio

Cominci a esplorare la penombra camminando verso i punti e le linee di luce sulle pareti. Vuoto e silenzio ovunque. Solo quando arrivi vicino a una parete ti accorgi che i punti hanno delle forme famigliari: sono piccioni. Centinaia di piccioni, appollaiati in ordine sparso sui travetti orizzontali; piccioni veri, immobili ma vigili. Non hanno l’aria minacciosa che avrebbe voluto Hitchcock (sono evidentemente tassidermizzati); eppure la loro presenza, così numerosa e imprevista, nella penombra di quella cattedrale industriale abbandonata, ti trasmette un vago senso di inquietudine. Sono loro a infestare questo non-luogo e a incombere da lontano sugli ectoplasmi addormentati del barbone e del cane? Benché la loro presenza sia quasi impercettibile, non puoi fare a meno di sentire che il buio ha ora gli occhi: migliaia di occhi che ti osservano furtivi da ogni cornice di quel vuoto immenso, e ne sottolineano l’ampiezza e lo stato di abbandono. Respiri un’atmosfera inquieta, come di attesa. Ma attesa di cosa?

Maurizio Cattelan, Ghosts, 2021, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2021. Courtesy l’artista e Pirelli HangarBicocca, Milano ph. Agostino Osio

Seguendo le linee di fuga abitate dai piccioni, anche il tuo sguardo converge verso il fondo lontano dove un ampio portone si affaccia in un altro spazio completamente illuminato. Al centro del portone si vede un rettangolo nero. Camminare verso la luce è la tipica esperienza di premorte che ricorre nei racconti dei sopravvissuti, ma avanzando sotto tutti quegli sguardi morti, non senti alcuna sensazione liberatoria. Presto ti rendi conto che il rettangolo nero è un parallelipedo di cui non si vede la sommità, eretto al centro di un capannone che si sviluppa in verticale. È l’esatto contrario di quanto hai visto all’inizio: là c’erano figure naturali bianche, come incandescenti, perdute nel buio; qui ti appare una figura artificiale nera eretta maestosamente in una luce incandescente. E se là minaccioso era lo sfondo indefinito che circondava le figure, nello spazio che si apre oltre il portone la minaccia sembra invece emanare da quell’artefatto cupo.

Maurizio Cattelan, Blind, 2021, veduta dell’installazione, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2021 Courtesy l’artista, Marian Goodman Gallery e Pirelli HangarBicocca, Milano – ph: Agostino Osio

Ti viene da pensare al monolite di Odissea nello spazio e ti immagini che da un momento all’altro il Requiem di Ligeti rompa il silenzio e accompagni col suo crescendo il tuo avvicinamento. Ma il silenzio persiste; e invece di scimmioni rabbiosi, ad aggirarsi attorno al totem nero vedi persone un po’ smarrite che guardano in alto. Ora che sei quasi sulla soglia del portone guardi anche tu. E lo vedi.

In alto, incastrato nel totem nero immerso nella luce, c’è un aereo: un aereo nero come il totem e fuso assieme ad esso, col muso, la coda e le ali che spuntato dalla sommità del parallelepipedo. Gli giri intorno, ipnotizzato dalla forza evocativa di quell’oggetto ibrido e paradossale: così evidente e così misterioso, così glamour e così ostile, celebrativo come un monumento e malefico come un feticcio. Una calamita irresistibile per lo sguardo e gli obiettivi fotografici. E una calamita per la mente: da vent’anni esatti, per tutto il mondo occidentale, quello è il simbolo del terrore diventato spettacolo.

Dopo aver attraversato un grande buio vuoto, appena intaccato dalla luce opalescente di due sparuti fantasmi e infestato da presenze occulte, il tuo percorso si conclude nella piena luce, fagocitata però da un monumentale feticcio che sembra il buio concentrato e solidificato.

Esperienza e interpretazione

La tua visita alla mostra di Maurizio Cattelan ospitata all’Hangar Bicocca di Milano si conclude con un epilogo che avrebbe potuto essere un prologo, se la tua attenzione si fosse accesa prima di entrare: sopra la facciata di mattoni dell’ingresso, dove campeggia il logo della fondazione, c’è un’altra fila di piccioni, avanguardia e vedetta dell’esercito acquattato all’interno.

Il titolo, Breath Ghosts Blind, sottolinea il carattere tripartito della mostra e suggerisce possibili interpretazioni di ognuno dei tre atti.  Respiro è una trasparente metonimia per “vita”: i due corpi bianchi non sono dunque cadaveri o spettri, ma la vita vista nel suo atto più semplice e universale. Spettri sono invece i piccioni che infestano l’hangar, confermando l’aura di inquietutine che la loro presenza incombente nel grande buio vuoto ti ha trasmesso. Infine Cieco è il totem nero: come l’oscurità totale di un edificio senza finestre o di un vicolo senza uscite? O come la violenza del terrorismo e la morte che non guarda in faccia nessuno? O  come dovrebbe forse sentirsi lo spettatore mentre fissa impotente quel buio solidificato nella forma dell’enigma finale che ci riguarda tutti?

Potresti giocare a costruire parafrasi che leghino assieme i tre atti in maniera sensata, come possibili soluzioni di un rebus. Ma un’opera d’arte non è un rebus da decifrare. E, soprattutto, sei venuto qui per fare un esperimento e rispondere a una domanda.

Ti sei ripromesso di non lasciare che la tua esperienza sia influenzata da quanto già sai del luogo, dell’artista e dell’arte in genere, cercando di indossare i panni di una persona mediamente colta che tuttavia conosca poco o nulla di arte contemporanea. L’hai fatto per verificare l’idea che un’opera deve bastare a se stessa, che i discorsi che le vengono cuciti addosso e il prestigio dell’autore non devono condizionare l’esperienza del fruitore. Ma cosa sei riuscito a mettere veramente tra parentesi? E quanto di artificioso c’è nella tua ricostruzione depurata da pre-giudizi?

Ovviamente, l’esperienza raccontata è sempre una finzione, un distillato a posteriori, una lenta rielaborazione del ricordo filtrata dalla scrittura. Anzi, a ben vedere, la stessa esperienza vissuta, se vissuta come “estetica”, assume già uno status analogo al ricordo: una sorta di ricordo anticipato, come uno sguardo ulteriore che si va ad aggiungere a quello normale, velandolo (o intensificandolo, direbbe John Dewey). È come se tu prefigurassi, quasi subliminalmente, il racconto di ciò che stai vivendo.

Anche se ti sei sforzato di non tenerne conto, in quel luogo tutto è stato pensato e realizzato per creare o suscitare un’esperienza “estetica”: gli oggetti, la loro posizione, il percorso, il vuoto e il silenzio, l’ombra e la luce. E tutto ciò ha rafforzato un’attenzione di tipo estetico. Perciò, se l’esperimento della visita “naif” aveva lo scopo di arrivare a un giudizio imparziale sulle opere, il tuo coinvolgimento e il lavoro di ricostruzione a posteriori dell’esperienza hanno già sottilmente minato l’imparzialità, deponendo a loro favore.

Nondimeno, tu insisti nel porre la domanda: quanto merita attenzione quest’arte? Quanto è legittima l’autorità di una grande istituzione – privata, ma con una funzione pubblica esplicita – che ne certifica il valore? Se l’Hangar Bicocca di Milano organizza una grande mostra di Maurizio Cattelan, l’artista italiano vivente più famoso al mondo, è perché lo considera un artista importante, oltre che famoso, e ritiene doveroso offrire la sua arte alla gente (“Art to the People” è lo slogan di HB, le cui mostre sono gratuite). Tuttavia, per una parte consistente di quel pubblico potenziale, Cattelan non è l’artista più famoso, ma il più famigerato, prova vivente della nudità del regime attuale dell’arte. Tutti ricordano l’enorme successo di scandalo che aveva suscitato, due anni fa, la sua banana attaccata a una parete col nastro da imballaggio.[1] La mostra attuale segna però una drastica inversione di rotta. E la questione critica rimane interessante e in certo senso doverosa, a cominciare dal modo con cui avvicinarsi all’opera.

Il resoconto della tua visita coincide con una strategia espositiva oggi molto diffusa, che tende a puntare fin troppo sull’immersione emotiva, come se questo fosse l’obiettivo fondamentale dell’arte. La tua è infatti una descrizione basata su sensazioni ed emozioni. Ma è già anche un’interpretazione, un discorso che hai cucito addosso alla mostra. L’idea che l’opera deve bastare a se stessa, e che bisogna mettere tra parentesi i “discorsi” è in fondo un’astrazione un po’ ingenua, soprattutto quando ci si confronta con l’arte contemporanea. Per vivere, l’opera ha bisogno della collaborazione dello spettatore, del suo impegno interpretativo, che alla fine è fatto di “discorsi”, più o meno espliciti, più o meno competenti. Ovviamente sarà il tuo discorso, intriso delle tue sensazioni e delle tue emozioni. Ma cercare di separare una visione “vergine” e “imparziale” da ogni cornice discorsiva non solo è utopistico, ma alla fine è controproducente: la tua “enciclopedia” personale, cioè la tua cultura e la conoscenza dell’arte contemporanea e dell’artista, non falsano l’esperienza: sono anzi il liquido di reazione nel quale devi immergere l’opera se vuoi una sua fruizione più piena e un giudizio motivato e argomentato.

Potresti obiettare che, anche ammesso tutto ciò, quando entri in contatto con l’opera hai comunque una prima impressione, e hai tutto il diritto di affidarti ad essa per esprimere un giudizio. È vero. Ma cosa c’è in quella prima impressione? Non c’è, inconsapevolmente compressa in una manciata di secondi, tutta la tua esperienza passata, la tua enciclopedia, le tue pulsioni inconsce? Certo, esistono anche reazioni emotive del tutto instintive, quasi riflessi condizionati, ma non avrebbe molto senso affidare ad esse il giudizio su oggetti complessi ad alta densita metaforica, come sono le opere d’arte.

Alcuni ritengono indispensabile, per ridare vigore al giudizio critico sull’arte contemporanea, il senso di meraviglia.[2] Ma anche la meraviglia a bocca aperta, come pure lo choc, dipende dall’esperienza e dalla storia personale, ed è fin da subito “contaminata” da un principio di interpretazione.

Ipertrofia auratica

Questo ci riporta alla mostra di Cattelan e al tuo ingenuo tentativo di un’esperienza “vergine”. Non puoi negare il fatto che, prima della tua visita reale, avevi già fatto molte piccole visite virtuali attraverso le immagini e i discorsi di un evento così appetito dai media; e che questa esposizione mediatica ha in buona parte anestetizzato la meraviglia. Quello che ti mancava erano le dimensioni e il senso di immersione fisica.  Ora puoi confessarlo: il tuo primo vero impatto dal vivo è stato lo sconcerto, misto a un po’ di delusione. Un’enorme scena vuota, in cui non si vede nulla, se non le due sculture bianche del barbone col cane (già viste in foto), poi, a malapena, i piccioni appollaiati (già visti in foto) e infine, colpo di scena che non fa più colpo (perché già visto in foto), il totem nero: solo tre opere in uno spazio immenso, in gran parte buio. È vero che questo spazio è un’ingrediente essenziale e che solo la visione in presenza ne rende appieno l’efficacia (gli artisti oggi sono sempre più spesso anche curatori; e viceversa). Ma ti rimane un’impressione ambivalente: da un lato, uno stupore ammirato per l’audacia di tutto quel vuoto; dall’altro, il malizioso sospetto che l’artista abbia scelto una scorciatoia mettendo in mostra più il contenitore che il contenuto.

Detto in modo più sofisticato, quello che ti ha colpito è la preponderanza della cornice sull’opera. O meglio: l’estensione abnorme della cornice auratica, intesa come ambiente-atmosfera che avvolge l’opera ma sembra emanare da essa, come l’alone luminoso che gli spiritisti dicono di vedere attorno ai corpi. Gli spazi colossali dell’HB si fondono con l’opera costruendole attorno sfondi immersivi tridimensionali che inglobano il corpo emotivo dello spettatore. L’aura dell’opera d’arte, di cui Benjamin decretava l’estinzione un secolo fa, sembra qui ripristinata in formato colossal, con la sua presenza hic et nunc e il suo carattere cultuale.

Questa ipertrofia dell’aura è un merito o un demerito? È un’invenzione che ha arricchito la tua esperienza e ti ha dato da pensare? O è un trucco per sopperire l’effetto di déjà vu causato dall’inevitabile esposizione mediatica delle opere di un artista famoso come Cattelan, per rivestire di “sacralità” laica quegli oggetti banalizzati dalle riproduzioni fotografiche?

Dall’esperimento della visita “naif” hai ricavato un impatto positivo, ma nella visita “reale” è prevalsa l’ambiguità. Per scioglierla, bisogna ricorrere alle competenze di quello “spettatore specializzato” che è il critico: la conoscenza dell’artista, delle sue opere, del contesto storico-artistico e culturale in cui ha lavorato. Bisogna insomma rovistare in un’altra “aura”, quella fatta di immagini, discorsi, azioni e passioni che si sono aggrovigliate attorno alla sua vita e al suo lavoro.[3]

Dalle immagini contundenti allo choc ovattato

Cattelan lavora con l’immaginario pop mediale, come farebbe un creativo pubblicitario che non debba vendere un prodotto ma attirare l’attenzione e creare corti circuiti nella testa della gente: ricombina in modo sorprendente o scioccante oggetti e immagini readymade, creando metafore enigmatiche, sospensioni spiazzanti di senso o dissonanze stridenti. Le sue opere derivano dalla forza immediata di certe idee visive e dal loro effetto di shock. Sembrano quasi fatte apposta per tradursi a loro volta in immagini in grado di competere con la smisurata imago-sfera in cui siamo immersi, prima ancora che per offrirsi all’attenzione o alla contemplazione dello spettatore. Il caso più eclatante è la gia citata Comedian, con cui l’artista ha realizzato un’operazione  in un certo senso opposta a quella dell’HB: la banana nastrata è un oggetto del tutto privo di aura in presenza, ma trasformandolo in opera-meme, Cattelan è riuscito a creare attorno ad esso un’enorme aura mediatica in absentia. Le due opere nuove di Breath Ghosts Blind nascono invece da immagini molto meno contundenti, molto più composte, eleganti, rigorose.

Breath rappresenta un soggetto apparentemente banale, da vita quotidiana, ma col materiale  pregiato e la precisione realistica della grande scultura classica: quasi un Canova in versione pop, a cui è stata aggiunta un’atmosfera tardoromantica da seduta spiritica in uno spazio sproporzionato che evoca il buio siderale di un film di fantascienza.[4] Potrebbe essere un monumento al barbone, ma quel barbone ha la faccia di Cattelan: è un dettaglio decisivo (e mettendolo forzatamente tra parentesi nel resoconto della tua visita, hai amputato l’opera). L’autoritratto ironico è infatti uno dei temi ricorrenti e fondamentali dell’artista, che si è spesso esibito nella versione auto-denigratoria del pupazzo, e risponde alla sua strategia poetica forse più originale e interessante: per quarant’anni ha lavorato indefessamente a una “automitologia ironica”, cioè alla messa in scena di una sua ostentata inettitudine e indegnità, inventando eventi e immagini inopinate e spiazzanti che suggeriscono una missione ambigua e paradossale: entrare nel mondo dell’arte e avere successo dichiarando di esserne indegno; diventare artista sfuggendo continuamente alla responsabilità di dimostrarlo; imbrogliare, derubare e sbeffeggiare il mondo dell’arte per potersi infiltrare in esso e raggiungerne il vertice; diventarne il re gridando “Il re è nudo”. C’è riuscito alla grande, come ha dimostrato la clamorosa retrospettiva che il Guggenheim di New York gli ha dedicato nel 2010, un’incoronazione che l’artista ha celebrato riempiando la grande spirale del museo con un’impiccagione metaforica di tutto il suo lavoro.

All’Hangar Bicocca c’è un Cattelan molto diverso. Pur mostrandosi nei soliti panni dell’outsider,  non è più il buffone che ostenta la sua goffaggine per denigrare e conquistare il mondo dell’arte. Il  re-buffone, con la sua maschera caricaturale e provocatoria, è diventato un indifeso barbone, addormentato assieme al suo cane. Non mancano comunque sottili slittamenti e dissonanze di senso: Breath è una dichiarazione di umiltà, ma celebrata col materiale principe dell’arte classica; mostra una scena di nuda vita, ma con una sembianza spettrale.

Uno slittamento di senso è anche quello che trasferisce l’aspetto della prima opera al titolo della seconda (Ghosts). Lo slittamento è come una lunga nota legata che tiene assieme il primo movimento col secondo e che arriverà fino al terzo (alcuni piccioni sono appollaiati anche sull’alta ringhiera che circonda il totem nero), facendo aleggiare sull’opera complessiva una tonalità malinconica e lugubre allo stesso tempo. Vagamente lugubri e malinconici sono molto spesso gli animali tassidermizzati di Cattelan (basta pensare al cavallo appesodi Novecento o allo scoiattolo suicida di Bibidibobidiboo). Qui, nel grande vuoto buio, la presenza dei piccioni, sospesa tra il visibile e l’invisibile, è indubbiamente spettrale. Ed è facile associare quest’atmosfera d’inquietudine onnipresente al clima esistenziale che la pandemia ci ha fatto vivere. In questo senso, forse, più che un secondo movimento, i piccioni di Ghosts sono proprio un lunghissimo bordone sottilmente ansiogeno che tiene assieme le due vere opere: il bianco e il nero; la vita, umile e sperduta, che respira ancora nonostante tutto, e la morte, cieca e imponente, che ha assunto la forza spettacolare di un gigantesco logo tridimensionale.

Assieme ai piccioni, l’interprete malizioso potrebbe sentir aleggiare anche una recondita ironia, sempre in agguato nel caso di Cattelan: e se i fantasmi fossero le opere che l’artista non ha esposto nell’accoglientissima cattedrale, sostituendole con un’opera “riciclata”? Quei piccioni infatti avevano già infestato, come Tourists, la biennale di Venezia del 1997 e, come Others, quella del 2011. Peraltro, l’interpretazione malandrina evidenzierebbe una delle strategie poetiche più originali dell’artista: l’arte della fuga o della «scappatoia con motto di spirito», come l’ha brillantemente definita Riccardo Venturi.[5] Più verosimile resta comunque l’ipotesi che la nuova installazione, col nuovo titolo, vada considerata come un contributo sostanziale alla mostra, anche semplicemente «amplificando la percezione del volume dell’ambiente che la ospita», come si legge nell’accurato leaflet di Hangar Bicocca. Del resto, il vuoto, come hanno dimostrato Yves Klein e John Cage, può essere un nucleo creativo potente. E la “parodia”, intesa come riutilizzazione per scopi diversi di vecchi lavori, è una nobile pratica non disdegnata da grandi artisti come Johann Sebastian Bach.

Anche Blind è un’opera insolitamente composta: seria (come le salme mormoree di All),monumentale (come la mano colossale di LOVE), spettacolare ma non così sarcastica come ci si aspetterebbe, stilizzata e rigorosa come non ci si aspetterebbe da Cattelan. Non a caso Elio Grazioli ha indicato come riferimento storico un’opera minimalista di Tony Smith del 1962: un cubo d’acciaio nero ad altezza d’uomo intitolato Die (che significa sia “dado” che “morire”).[6] Con Cattelan, tuttavia, l’ascetico rigore minimalista si perde nella forza spettacolare di una tragica icona pop. A prevalere, come sempre, è il gusto dell’immagine “contundente” e memorabile.[7]

Che il tema della morte sia ricorrente in tutta l’opera dell’artista-clown è evidente e ampiamente riconosciuto: l’umorismo, l’ironia beffarda, il gusto del grottesco, l’esibita mancanza di serietà si fondono quasi sempre, passando attraverso il solito crogiolo dell’ambiguità, con un senso tragico della vita. «Vanitas comiche», le ha chiamate Catherine Grenier, secondo la quale poche opere nel suo corpus sfuggono alla constatazione che «è dalla coscienza tragica del destino che si dispiega il riso».[8]

All’Hangar Bicocca però non si ride e non si sorride. Tutto è molto serio, riflessivo, soffuso di un’aura quasi romanticamente sublime. Ed è questo, alla fine, la vera delusione della mostra. È come se la sulfurea ambiguità del clown tragico e strafottente fosse evaporata in quei centomila metri cubi di suggestioni atmosferiche. O fosse rimasta ermeticamente chiusa dentro i 17 metri di acciaio e resina del totem nero; cieco, sì, ma anche muto, nella sua ottusa evidenza. Cattelan ha disinnescato lo choc immergendolo in un’immensa bambagia di aura. E l’imperatore sembra ora pavoneggiarsi nei suoi vestiti nuovi: visibili, questa volta, ma fin troppo “esteticamente corretti”.

Maurizio Cattelan – Breath Ghosts Blind
a cura di Roberta Tenconi e Vicente Todolí
Milano, Pirelli Hangar Bicocca
fino al 20 febbraio 2022


[1] Di quell’opera-meme, intitolata Comedian, ho parlato in Cattelan. L’opera-meme e l’artista della scappatoia su Doppiozero.

[2] Perniola, ad esempio, in uno dei suoi ultimi libri, ha suggerito di riportare l’arte «alla sua funzione di destare meraviglia, stupore, rapimento». Mario Perniola, L’arte espansa, Einaudi, 2015, p. 86

[3] Per una panoramica critica approfondita rimando al numero della rivista «Riga» dedicata all’artista: Maurizio Cattelan, Riga 39, a cura di Elio Grazioli e Bianca Trevisan, Quodlibet, 2019

[4] Di marmo bianco e distesi a terra erano anche i nove corpi coperti da lenzuali di All, presentati alla Kunsthaus di Bregenz nel 2007, ma in quel caso il tema era evidenziato senza ambiguità, con un realismo da tromp l’oeil e un’ambientazione da obitorio (grande sala di cemento, nuda, asettica, immersa in una luce livida).

[5] Riccardo Venturi, “Torno subito, o Scappatoia con motto di spirito”, in Maurizio Cattelan, Riga 39, op. cit.

[6] Elio Grazioli, Il respiro di Cattelan

[7] Ha fatto gridare alla scopiazzatura il precedente dell’aereo incastrato in una torre disegnato dall’architetto Ico Parisi negli anni ottanta. Ma il ri-uso e la ri-contestualizzazione di immagini fa parte, come abbiamo accennato più sopra, del modo di lavorare di Cattelan. E perfino il furto, come spiega Domenico Quaranta su Flash Art. Un gioco visivo analogo a Blind si può vedere in un altro oggetto nero creato per ibridazione: lo stivale di Untitled (2009), anch’esso, a quanto pare nato da un “furto”.

[8] Catherine Grenier, “Appuntamente con la storia”, in Maurizio Cattelan, Riga 39, op. cit.

In copertina: Maurizio Cattelan, Breath, 2021, veduta dell’installazione, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2021, marmo di Carrara, figura umana: 40 x 78 x 131 cm, cane: 30 x 65 x 40 cm – Courtesy l’artista, Marian Goodman Gallery e Pirelli HangarBicocca, Milano ph. Agostino Osio

è saggista e autore televisivo. Suoi saggi su arte moderna e contemporanea, televisione, cinema, musica sono apparsi su “Doppiozero", "Link Idee per la tv” e sul suo blog “Deepsurfing”. Ha pubblicato “Catastrofi d'arte”, Johan & Levi, 2019.

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