Il testo che proponiamo è stato presentato in forma più ampia dall’autore in occasione del XV convegno internazionale di studi leopardiani dedicato a Leopardi e il paesaggio, e organizzato dal 27 al 30 ottobre scorso, a Recanati, dal Centro nazionale di studi leopardiani.
Leopardi è un autore modernissimo per molte ragioni, non ultima perché la sua opera poetica e filosofica è interpretabile anche nell’ottica di una riflessione più ampia sull’atto del “vedere”, inteso come attività immaginativa e conoscitiva insieme, al modo del theorein degli antichi. Nella lingua greca infatti questo vocabolo (θεωρέω) ha un doppio significato: da un lato indica l’atto del guardare, contemplare, scorgere; dall’altro significa: meditare, indagare, conoscere. Questa parola dunque ci dice che osservare è allo stesso tempo imparare, ovvero che la prima forma della conoscenza è l’atto stesso del vedere.
Quello di Leopardi è un continuo pensare per immagini, un vedere e pensare contemplativo, appunto. Non c’è mai nulla di meramente descrittivo nei suoi versi e anche nella sua prosa filosofica: la realtà sconfina sempre in un piano mentale e interiore, attraverso la mediazione della lingua, che sembra agire come la lente per un fotografo. Partendo dalla realtà egli crea un’altra realtà. La parola diventa uno strumento di indagine per comprendere il mondo, una preparazione alla visione, un’esercitazione all’arte della percezione che dall’occhio sprofonda nel pensiero critico e razionale.
In questa direzione, Leopardi sembra avere – seppure indirettamente e inconsapevolmente – anticipato la pratica e la riflessione di molti fotografi degli ultimi decenni, soprattutto italiani: penso in particolare a Luigi Ghirri e a Mario Giacomelli, che hanno fatto dell’esperienza fotografica un’esperienza poetica, ma anche a Guido Guidi, Olivo Barbieri, Giovanni Chiaramonte e Mario Cresci. Nel percorso artistico di questi autori come nell’esplorazione leopardiana, infatti, il rapporto con la realtà nuda e cruda non è solo il principio di ogni meditazione e di ogni ricerca lirica, ma anche uno dei suoi rovelli nel momento in cui entra a far parte della concezione di illusione. L’incontro tra il poeta e i fotografi che ho citato avviene in questo scarto, nel limbo formatosi tra mondo sensibile e immaginazione, tra mondo reale e rappresentazione.

In un emblematico brano dello Zibaldone (p. 1118 dell’autografo) Leopardi ha teorizzato dell’esistenza di una “doppia vista” come di una facoltà della pupilla e parallelamente della mente, una duplicità costante insita nello sguardo del poeta, un reale esercizio di vita: «All’uomo sensibile e immaginoso, che viva, come io sono vissuto gran tempo, sentendo di continuo ed immaginando, il mondo e gli oggetti sono in certo modo doppi. Egli vedrà cogli occhi una torre, una campagna; udrà cogli orecchi un suono d’una campana; e nel tempo stesso coll’immaginazione vedrà un’altra torre, un’altra campagna, udrà un altro suono. In questo secondo genere di obiettivi sta tutto il bello e il piacevole delle cose. Trista quella vita (ed è pur tale la vita comunemente) che non vede, non ode, non sente se non che oggetti semplici, quelli soli di cui gli occhi, gli orecchi e gli altri sentimenti ricevono la sensazione».
In queste poche righe scritte nel 1828, come ha osservato Andrea Cortellessa,«Leopardi sembra contraddire la sua concezione materialistica e il suo sensismo, dal momento che afferma l’esistenza di oggetti astratti molto più evocativi e importanti di quelli realiper l’immaginario del poeta. Sono gli oggetti e i luoghi dell’immaginazione». Tuttavia Leopardi non sta evocando una fuga dalla realtà, ma una “doppia vista” che è qualcosa che si fonda sull’esperienza sensibile e che permette, proprio per le sue fondamenta empiriche, uno sguardo che supera il reale. Questa teoria della doppia visione, in limine tra realtà e immaginazione, evidenzia l’essenza stessa del poeta: questa doppia natura, questa “doppia vista”, fisica e metafisica.
La natura di questo sguardo – i due occhi: uno rivolto alle forme visibili del paesaggio del presente, l’altro puntato a intravedere in trasparenza le sopravvivenze dell’immemoriale che vi si occultano – permette di cogliere nell’oggetto, nella scena, nel particolare, quel legame con l’ombra. La parola per Leopardi diventa allora una «camera obscura» (immagine ricorrente nello Zibaldone e in filigrana in tutti i Canti)[1]. L’occhio del poeta ha da sempre la capacità di saper leggere dentro la luce, dentro i colori, la forma, la prospettiva di un’azione, o nel movimento, così come nel tempo, per tradurre poi ogni entità in un mondo di parole. Il suo poetare pensante giunge a figurare nella relazione tra mondo esterno e mondo interiore, tra visibile e invisibile, un viaggio di risalita del corso del tempo.

Quasi come conseguenza della “teoria del piacere”, Leopardi formula la teoria della doppia visione, la convinzione cioè che vi siano certi elementi nella realtà che ostacolano la vista di alcuni oggetti, per esempio appunto la siepe che nasconde il paesaggio retrostante. La linea dell’orizzonte è anche e soprattutto la sua immaginazione, quella vista seconda che gli permette di entrare nello spazio metafisico che è il suo mondo interiore. La soglia, oltre la quale si estende il mondo, crea un sentimento di malinconia, ma anche di piacere: la siepe, che dell’estremo «orizzonte il guardo esclude», rivela il senso del limite che diventa impulso alla visione interiore. Questo ostacolo ha un effetto ben preciso, che è quello di far lavorare l’immaginazione dell’uomo, che crea idee vaghe e indefinite; ma questa molteplicità di sensazioni, confondendo l’anima, provoca un piacere che assomiglia molto alla felicità.
L’infinito è la più importante poesia italiana sul vedere:in questo canto ritroviamo tutto lo “sguardo fotografico” di Leopardi. Questa poesia può essere letta (e vista) allo stesso modo di un’inquadratura fotografica. Proviamo a considerarla non come un testo ma come un’immagine.
Il mondo esterno, qui indicato dalla vegetazione: dalla siepe e dalle piante, entra nell’immagine (nel testo) in modo indiretto quasi a indicare che l’inquadratura (ovvero ciò che il nostro occhio è in grado di percepire) mostra solo un frammento oltre il quale la grande incommensurabile realtà prosegue e si allarga.
In questa poesia l’infinito viene detto tramite continue comparazioni tra il vicino e il lontano, tra ciò che ci è prossimo, che appartiene al finito, alla finitudine della condizione umana e ciò che è distante, che sta all’infinito, e che appartiene all’orizzonte dell’incommensurabile, attraverso l’uso degli aggettivi dimostrativi «questo» e «quello»:
[…] a questa siepe…
… interminati spazi di là da quella…
E come il vento odo stormire
Tra queste piante
Io quello infinito silenzio
A questa voce vo comparando…
In questa comparazione, Leopardi sembra usare certe modalità di osservazione dei fotografi: la parola agisce quasi come lo zoom di una camera, mettendo così a fuoco il tema della soglia, rappresentato con l’emblematica immagine della siepe, la dialettica limitato-illimitato, conosciuto-sconosciuto. Temi che hanno caratterizzato l’intera sua opera poetica e il suo pensiero e che costituiscono una costante in molta fotografia contemporanea (pensiamo ai lavori con il fuoco selettivo di Olivo Barbieri o alle immagini della serie Preganziol di Guido Guidi, dove ricorre l’immagine della finestra, diaframma tra interno e esterno). La grandezza dell’Infinito è proprio quella di far emergere un modo di essere da un modo di vedere, cioè un nuovo rapporto tra le cose osservate e l’io, producendo cambiamenti soprattutto nella soggettività di chi le osserva.
Nell’Infinito tutto è in ordine e in quest’ordine è la sua bellezza: da un lato «interminati spazi» e «sovrumani silenzi», dall’altro un io che nella perfetta integrità di sé può applicare a quelle grandezze il suo sguardo e il suo pensiero, misurarne l’inefficacia, sperdersi e accettare questo smarrimento, probabilmente perché inscritto nel destino delle cose. Tra questi due infiniti, quello dell’universo e quello dell’io, non c’è di mezzo nulla: possono cercare di agganciare l’uno all’altro attraverso la contemplazione, non trovarsi, proseguire.

Questo suo modo di osservare si riflette anche nel modo di intendere il concetto di paesaggio, di rapportarsi con il paesaggio (un termine mutuato dalla pittura francese paesaggistica del Settecento), filtrato presto dalla potente sensibilità dell’io. Per Leopardi, così come per Mario Giacomelli (che al poeta recanatese ha dedicato le serie A Silvia e L’Infinito)[2], quando lo sguardo si apre al paesaggio si apre alla conoscenza, al mito e alla storia, si appresta a cogliere le infinite relazioni della natura umana. Giacomelli s’impadronisce della poesia leopardiana con un’adesione interiore che deriva dalla comune meditazione sul presente e sul destino ultimo dell’uomo, dal rapporto amore e morte, giovinezza e speranza, aspirazione alla felicità e crollo delle illusioni.
Ma ciò che accomuna questi due autori è il paesaggio delle Marche prima di tutto: entrambi modellano territori fisici e interiori seminandovi segni che germogliano in nuove esperienze dell’abitarsi. L’artista di Senigallia apre il suo racconto A Silvia introducendoci nel mondo della poesia leopardiana con la rappresentazione dell’astro più amato e citato dal poeta recanatese, quella luna che illumina di luce “fredda” i colli marchigiani.
Giacomelli, con le sue immagini, ha frequentato e rappresentato quello spazio sospeso in cui le cose non sono ciò che sono, ma diventano piccoli mondi modulabili. Non percepisce e non fotografa le cose in quanto tali, ma nell’attimo in cui stanno per non essere più quelle cose, in bilico sul punto critico in cui la loro identità vacilla nell’ambigua e tragica coesistenza di forze contrapposte. In questa direzione la fotografia di Giacomelli riflette la meditazione sull’infinito di Leopardi, sempre attenta a cogliere il nesso con il finito, con la “cosa terminata” da una parte e con il “nulla” e con il “mai più” dall’altra. Per entrambi questi autori l’immaginazione, figlia del limite, si trattiene sulla soglia dell’infinito, consapevole della sua irrappresentabilità.
Nel paesaggio tutto è mutevole e tutto è sempre uguale, moderno e antico allo stesso tempo. Il paesaggio è il luogo di confronto del nostro io con l’esistente, del riconoscimento e dell’interpretazione; il luogo del sentire, dell’agire e dell’immaginare. Cresce sotto il nostro sguardo, si offre a una comprensione percettiva globale, per poi rivelare nel particolare i molteplici elementi che lo caratterizzano; e proprio quando si ha l’impressone di averne colto l’identità fisica, si schiude un’immagine latente, una seconda visione (quella doppia vista), che ci porta a orizzonti più ampi, più profondi. Per Leopardi e i fotografi che ho citato, il paesaggio va dunque oltre lo sguardo: chiudendo gli occhi continua, perché non è solo spazio reale, ma anche mentale; i luoghi sono estensioni dei pensieri. Un luogo non esiste finché non è stato inventato dall’immaginazione.
In questo sta l’idea moderna che Leopardi ha del concetto di paesaggio: non un dato di fatto oggettivo, ma una misura dell’esperienza, qualcosa che prende forma prima di tutto nella nostra mente. Scrive nello Zibaldone (4177-78): «L’infinito è un parto della nostra immaginazione, della nostra piccolezza ad un tempo e della nostra superbia… L’infinito è un’idea, un segno, non una realtà: almeno niuna prova abbiamo noi dell’esistenza di esso, neppure per analogia».
[1] Cfr. Claudio Colaiacomo, Camera obscura. Studio di due canti leopardiani,Liguori 1992; Leopardi nello Zibaldone utilizza l’immagine della camera oscura a proposito della traduzione dei classici; per un maggior approfondimento della questione rinvio al saggio di Antonio Prete, All’ombra dell’altra lingua. Per una poetica della traduzione, Bollati Boringhieri 2011.
[2] Mario Giacomelli, Giacomo Leopardi, L’Infinito, A Silvia, a cura di Alessandro Giampaolo e Marco Andreani, Silvana Editoriale 2019.
In copertina: Luigi Ghirri, Comacchio, Argine Agosta, 1989 ©Eredi Ghirri