Bellezza che cade

In Idea della prosa (Feltrinelli 1985; quindi, accresciuto, Quodlibet 2002), Giorgio Agamben ricorda, citando da quella piccola dissertazione sull’impotenza della parola che è La Porta l’insistito ricorso, nella poesia di Giorgio Caproni, all’enjambement, quale procedimento stilistico capace di divorare il verso, e quindi di ridurlo «a quei soli elementi che permettono di attestarne la presenza». «La tradizionale consistenza metrica del verso è qui drasticamente contratta», come a voler riecheggiare il pizzicato schubertiano del Quintetto in Do maggiore, nel quale si traduce l’impossibilità di formulare compiutamente una frase melodica, e da cui, specialmente per i versi «singhiozzanti di domande disperate» di Poesia per l’Adele (1975), Caproni, da appassionato suonatore di violino, aveva dichiarato di aver tratto particolare ispirazione («Era così bello parlare». Conversazioni radiofoniche con Giorgio Caproni, il melangolo 2004, p. 259). Del resto, aveva confidato in un’intervista alla «Fiera letteraria» (19 gennaio 1975), la sua più matura produzione poetica nasceva per intero dal desiderio di «far musica nuova diatonicamente slargando o comprimendo i classici accenti di tonica, quarta e dominante, con ampio uso, a fine verso, della settima diminuita», volendo in tal modo esibire quella schisi fra elemento metrico ed elemento sintattico da cui la poesia, nella sua «andatura bustrofedica», sembra gemmare. La versura – osserva illativamente Agamben – è infatti ciò che «costituisce il nocciolo del verso», e l’enjambement ne espone il procedere oppositivo: «all’indietro (verso) e in avanti (prosa)».

Cy Twombly, Untitled, 1984

Un analogo movimento di progressione e regressione caratterizza i versi finali della Decima Elegia duinese che si leggono trascritti da Cy Twombly nella scultura Senza titolo risalente al 1984, sulla quale si sofferma Agamben in Bellezza che cade: così s’intitola un testo nato come introduzione al catalogo della mostra dell’artista statunitense 8 Sculptures, allestita presso l’American Academy di Roma nel 1998, e che ora figura nell’antologia di critiche e commenti d’arte posta sotto il titolo di Studiolo: scoperto richiamo alla piccola stanza dei palazzi rinascimentali in cui il principe si ritirava a meditare circondato dai suoi dipinti d’elezione e insieme, più raccolto ma non meno festoso spazio annesso a quella «topologia del gaudium – da Agamben illustrata a partire da Stanze (Einaudi 1977) –, attraverso la quale lo spirito umano risponde all’impossibile compito di ciò che deve, in ogni caso, restare inappropriabile».

I versi rilkiani, di cui la scultura di Twombly vorrebbe essere icono-grafia, paiono seguire, in un alternarsi d’una ferale anabasi e catabasi, l’ascesa e la caduta che accompagnano la conquista da parte del poeta d’una superiore dimensione estetica: «Ma se risvegliassero, i morti senza fine, una metafora in noi, / vedi, indicherebbero gli amenti delle spoglie / avellane, penduli, oppure / la pioggia, che sulla scura terra cade a primavera. – / E noi, che la felicità la pensiamo / in ascesa sentiremmo la commozione, / che quasi ci atterra sgomenti, / per una cosa felice che cade» (traduzione di Anna Giavotto Künkler, Einaudi-Gallimard 1995). A dare evidenza metrica a questa idea di caduta contribuisce qui – nota Agamben – l’enjambement che spezza la coesione metrico-sintattica in modo particolarmente deciso sulla congiunzione disgiuntiva «oppure», di cui «la frattura dello stelo o del tronco nella scultura di Twombly sembra ripeterne l’asprezza». Ma tale «spezzatura» ulteriormente si proporrebbe negli ultimi versi: due versi elegiaci divisi in quattro emistichi, come se la cesura interna a ciascun verso dovesse tagliarlo in due metà.

Cy Twombly, Untitled, 1984 (particolare)

Altrove, nel Regno e la gloria (Neri Pozza 2007), Agamben soffermandosi sugli inni composti da Hölderlin fra il 1800 ed il 1805 rileva come essi rappresentino l’inverso simmetrico delle elegie rilkiane: mentre queste sono inni travestiti da elegie, il poeta svevo scrive invece elegie in forma di inni. Questa sorta di camuffamento si conclamerebbe anzitutto da un punto di vista metrico, spezzando il ritmo proprio dell’innodia. Ad averlo riconosciuto – ricorda Agamben – fu in primo luogo quel Norbert von Hellingrath che poco più che ventenne procurò, nel 1913, la prima edizione filologicamente accurata dell’opera di Hölderlin. Questi, nel postumo Hölderlin-Vermächtnis. Forschungen und Vorträge ein Gedenkbuch zum 14. Dezember 1936 (F. Bruckmann A.G. 1936), sulla scorta degli insegnamenti della retorica ellenistica, aveva distinto fra una «versificazione piana» e una «versificazione dura», in ragione «del carattere duro o piatto delle cesure fra i singoli elementi nei tre strati paralleli del poema: il ritmo delle parole, il melos, i suoni». In particolare – notava von Hellingrath nella versificazione piana, «l’immagine o il contesto ideale è una unità tattica che subordina nella maggior parte dei casi più parole […], il che vuol dire che la parola si presenta come elemento subordinato sempre eguale nelle tramandate unioni cristallizzate». La versificazione dura, invece, «fa di tutto per sottolineare la parola stessa e per farla restare impressa all’ascoltatore, privandola maggiormente delle associazioni di sentimento e di immagine». La cifra categorematica dei versi che compongono gli inni hölderliniani ne decreterebbero dunque la loro deflagrazione e, al contempo, il loro contrarsi in una paralisi prosodica e semantica: la loro vocazione elegiaca, in quanto lamento per l’impossibilità di farsi discorso sensato.

Sono queste considerazioni che inducono Agamben, pur in modo allusivo, ad approfondire il commento alla scultura di Twombly, facendo richiamo alle Note di Hölderlin alle sue traduzioni di Sofocle, e segnatamente dell’Edipo (si leggono ora, magistralmente curate da Luigi Reitani, nel «Meridiano» Prose, teatro e lettere, Mondadori 2019). Qui «la cesura o interruzione antiritmica» svolgerebbe, nella sequenza delle rappresentazioni, la funzione di esprimere «la parola pura (das reine Wort)» o meglio, in luogo dell’alternanza delle figurazioni, «la figurazione (Vorstellung) stessa», priva di ogni legame con un sistema di simboli semantici. Può in tal senso sostenersi, per Agamben, – uso invero, notava un poco accigliato Claudio Giunta qualche anno fa su «Ecdotica», a «uno stile argomentativo peculiare, in cui una paziente, minuziosa erudizione apparecchia la strada a lampi assertivi perentori» – che l’opera è in sé cesura che espone il proprio «nucleo inoperoso».

Come esemplarmente mostrerebbero le ultime sculture di Twombly, ogni gesto creativo, tendendo verso il proprio acme, oscilla, come L’indifférent di Watteau agli occhi di Paul Claudel, «fra lo slancio e la marcia» (L’œil écoute, Gallimard 1946) come lungo un filo invisibile, sospeso tra un fare e un non-fare: punto di una decreazione in cui «l’arte sta miracolosamente ferma, quasi attonita».

Questa hesuchía, questa sospensione, è, secondo Agamben, da comprendere alla stregua d’un «attimo messianico», in cui – come ha mostrato Carlo Ossola in uno splendido saggio, Sospensione del tempo (in Il simbolismo del tempo, Centro Internazionale di Studi Umanistici 1973) – la nostra sensibilità sembra percepire una forza numinosa capace di arrestare l’ordine delle cose, quale visione, speranza, «“sogno fermo”, atteso più come mistero che come misura dell’umano». Seguendo anche ciò che si legge nelle lezioni tenute da Agamben all’Accademia di Architettura di Mendrisio fra l’autunno 2012 e la primavera 2013, raccolte ora in Creazione e anarchia (Neri Pozza 2017), tale sospensione, sorta di spinoziana (Etica, IV, prop. 52, Dimostrazione) «acquiescentia in se ipso», d’ogni gesto artistico dovrebbe comprendersi come una inoperosità interna alla stessa prassi che accompagna e apre l’opera alla sua pura possibilità. Sotto questo riguardo lo spazio dell’opera d’arte circoscriverebbe una zona d’indifferenza nell’economia dei rapporti fra teoria e prassi.

Come ha efficacemente chiosato Andrea Cavalletti, «l’operazione che rende inoperosi gli esseri e le cose è un’ontologia paradigmatica, che revocando il primato dell’atto revoca qualsiasi determinazione del soggetto» così da pervenire ad un sé non ancora soggettivo (Il filosofo inoperoso, in Giorgio Agamben. Ontologia e politica, Quodlibet 2019). L’ipseità diventa in questo contesto determinante per intendere il modo in cui la cosa si trascende verso il suo essere tale qual è. Non può parlarsi, tuttavia, d’una pura intensificazione, come avviene per il «Selbst» heideggeriano. Si tratta, piuttosto, di pensarla come una «forma di vita» sottratta al dominio della morte. Di pensarla come “idea” che ha nondimeno – secondo le indicazioni che provengono dal Timeo platonico sulle quali Agamben di appunta in Che cos’è la filosofia? (Quodlibet 2016) – l’esigenza di essere legata, ancorché «in modo assai aporetico e difficilissimo da afferrare», agli enti sensibili, sicché «l’idea e il sensibile saranno, insieme, due e uno. L’idea non è né la cosa né un’altra cosa: è la cosa stessa».

Ed è di questa «cosa» che l’arte di Twombly sembra sapere più di altre serbare l’impronta, impiegando quale proprio materiale la materia prima come ciò che esiste prima della divisione del senso: anche se dalle sue tele e sculture «scaturisce del senso – ha scritto Roland Barthes in Saggezza dell’arte (in L’ovvio e l’ottuso, Einaudi 1985) – la matita e il colore rimangono «cose», sostanze ostinate, il cui “esserci” non può essere impedito da nulla (da nessun senso a posteriori)»;  e in ciò essa appare del tutto analoga all’opera trasmutativa dell’alchimista: estratta la parte materiale dai corpi o disintegrate le cose oltre la loro prima materia si scopre – annotava Thomas Brown nella Religio Medici – «il mutamento finale grazie al quale è portato a perfezione quel nobile estratto che è il Microcosmo».

In copertina: Cy Twombly, Achilles Mourning the Death of Patroclus, 1962, (particolare) photo©Philippe Migeat ©Centre Pompidou

(Milano 1981) insegna filosofia della comunicazione e del linguaggio presso l’Università Pegaso di Napoli; ha svolto e svolge attività didattica e seminariale presso la Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale e l’Università di Pavia. Studioso di filosofia moderna e contemporanea, è autore di numerosi saggi e studi monografici fra i quali: “L’oblio del linguaggio” (Guerini 2007); “Alla ricerca della fenomenologia perduta. Husserl e Proust a confronto” (Mimesis 2009); “Brice Parain-Impromptu” (ESI 2010); “Giuseppe e i suoi fratelli: dalla filosofia narrante alla rivelazione” (Editoriale Scientifica 2012); “Passaggio al vuoto. Saggio su Walter Benjamin” (Quodlibet 2015) “Monoteismo plurale. Teologia ed ecclesiologia in Schelling” (Il Pozzo di Giacobbe 2019). Ha curato l’edizione italiana di opere di Derrida, Baumgardt, Hegel, Maimon. Di prossima pubblicazione, presso Quodlibet, è “Filosofia dell’ombra. Tre saggi”. Giornalista pubblicista, collabora con diversi periodici.

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