I
Qualcosa della scrittura, nonostante la deviazione dalla penna alla tastiera, continua a indicare la prossimità tra stesura e percossa, scrittura e violenza. Non si dice forse pigiare un tasto? La pagina espone se stessa come un altro supplizio: come passione della vite.
II
Il Torchio mistico e Cristo in gloria è un’opera del pittore rinascimentale Marco Pino, ora conservata ai Musei Vaticani. Nel fondo del dipinto, in una convivenza di tempi che si appoggiano l’uno sull’altro, osserviamo Gesù pigiato da un torchio gigante. Appena sotto di lui, una vasca raccoglie il liquido che esce dalla piaga del costato: vino pronto per essere bevuto. L’allegoria del “torchio mistico”, che qui trova una straordinaria resa pittorica, ha una storia articolata; fu Agostino – in particolare – ad insistere sul paragone, che poi attraverserà tutto il Medioevo: «Ben fecondo è questo essere spremuti nel torchio. Finché è sulla vite, l’uva non subisce pressioni: appare intera, ma niente da essa scaturisce. La si mette nel torchio, la si calpesta e schiaccia; sembra subire un danno, invece questo danno la rende feconda, mentre al contrario, se le si volesse risparmiare ogni danno, rimarrebbe sterile. […] Il primo grappolo d’uva schiacciato nel torchio è Cristo» (Esposizione sui Salmi). Se davvero la matrice che non sanguina è sterile, e non si può pensare la fecondità senza il suo nesso con la violenza, parlare di scrittura come attività pigiatoria implica una necessaria incursione nel sangue dell’uva: fissare attentamente il punto in cui la pagina scritta diventa – anche solo per un istante – una pagina ubriacata.

III
«La tradizione orfica» scrive Ernesto de Martino «interpreta la passione di Dionisio sbranato dai titani, e la cottura delle sue membra, come lo spiccare gli acini dal grappolo, la cottura del vino, il tralcio calpestato nella pigiatura, il grappolo piangente e dolorante e quasi sanguinante […]» (Morte e pianto rituale). È chiaro come l’ubriacatura della pagina presupponga anche un’ubriacatura di epoche. Oltre la violenza, ciò che accosta scrittura e passione della vite è proprio questo dar forma a un incessante sfasamento: traballature del tempo che si reincarnano in spazi differenti, come non smettono di testimoniare – meglio ancora delle docili carte- i libri di pietra. Pensiamo, ad esempio, al portale della basilica di Saint Denis dove si mostra Il supplizio di San Dionigi e dei suoi compagni. Ai piedi del santo, che regge la sua testa mozzata, è posto un tralcio di vite, riconducibile con molta probabilità a una riapparizione del tirso bacchico. Bacco, Dionigi–Dioniso, Gesù Cristo… «sangue effuso e salvezza, sofferenza e dolore»: tutto ciò da cui rifugge, secondo Piero Camporesi, «la sensibilità contemporanea» (Il sugo della vita). Ma non basta: ciò che il contemporaneo pare davvero rifuggire, pur nella sua spaventosa proliferazione di ombre e di doppi, è la capacità di attingere dal tempo senza esaurirlo, senza consumarlo. Non facili immagini della prossimità, ma prossimità di immagini che riappaiono – mai uguali, mai conciliate con se stesse. In questo ritorno a un’antichità che non corrisponde a nessun passato, scopriamo risorse impreviste. Altre figure dell’atto scrittorio.

IV
Sembrerebbe così che – ben oltre la pigiatura – la pratica dello scrivere abbia a che fare in ogni caso con un tralcio di figure che congiunge vigna, vendemmia e testo. Lo stesso può dirsi della poesia. Confessa il profeta Michea «sono diventato come uno spigolatore d’estate, come un racimolatore dopo la vendemmia», e il poeta gli somiglia molto: raspollatore di acini, non di rado lavora con il pezzo d’avanzo, il grano di senape, l’ossicino, la sagoma del morto. A lui appartiene ciò che è votato all’esproprio: l’immagine che s’avvia verso il proprio congedo, continuando però a deragliare.
V
La poesia è questo: cordoglio e dirottamento, senza coincidenza, senza precisa distanza. Cavità, carie, convulsione, e anche rimedio, pianta medicinale, veleno purificato, buona vendemmia; tuorlo nella chiara dell’uovo; fossa delle più istantanee contraddizioni. Quando funziona, funziona come capovolgimento di ordini e gerarchie fra terra e cielo. È l’imperatore Leone che, arrampicatosi sulla colonna, si prostra davanti a Daniele lo Stilita. È la lattaia regina che, in pariglia, porta in dono a chi la canzona una ricotta d’argento, conservata dentro un paniere d’oro.
VI
Fra terra e cielo: mistero di un’immagine che raccoglie in sé distanze. Dice ancora Agostino: «quel che era separatamente negli acini confluisce poi in una cosa unica e diventa vino. Perciò […] nel calice è presente il mistero dell’unità». Unità sdegnosa, senza conciliazione, che fa di ogni marchio la brillatura del suo opposto, come insegna mirabilmente la storia di Saddo Drisdi, ultimo abitante a Venezia del Fondaco dei Turchi. Dopo l’abolizione delle leggi che imponevano la separazione, Saddo si rifiutò ostinatamente di andarsene da quella che ancora considerava la sua dimora; così facendo, raccontano Sagredo e Berchet, «capovolse la storia», e «volle di un fatto che aveva il marchio della servitù, o almeno del disprezzo, trarre un diritto imprescribivile».
VII
A ogni momento, la poesia reclama questo capovolgimento, abbeverando proprio dove fa mancare l’acqua, sottraendo allo sforzo il suo marchio di servitù. Come per l’ultimo raspellatore rimasto nella vigna. Come per il Messia venuto in groppa a un asino. Così, del poeta si potrà sempre dire ciò che è scritto nella Genesi: «Egli lega alla vite il suo asinello […]; lava la sua veste col vino e il suo mantello col sangue dell’uva».

[Questo saggio è una riscrittura della mia prefazione al libro L’età dell’uva del poeta Mattia Tarantino. Prima di farsi spalancate, le parole qui raccolte sono sorte dall’interrogazione dei suoi versi: in ogni osso «cresce» un altro osso, direbbe forse Mattia. Per le ragioni appena descritte, e per l’incontro sempre rinnovato, dedico a lui queste righe.]
In copertina: Christus in der Kelter, ÖNB Mus Hs 15501 fol 86v.