Passage du Caire

C’è un racconto del 1943 di Marcel Aymé intitolato Gli stivali delle sette leghe che ruota intorno a una banda di monelli parigini e ai loro maldestri tentativi di entrare in possesso di un paio di stivali spacciati per magici da un rigattiere fuori di testa di Montmartre. Col fiato sospeso, il piccolo Antoine Buge e i suoi compagni stazionano incantati davanti alla vetrina dove l’oggetto dei loro desideri giace in mezzo a una stupefacente teoria di cianfrusaglie mascherate da cimeli storici – posticce reliquie del passato, la cui aura non arriva nemmeno a eguagliare, agli occhi dei bambini, il fascino dei mitici stivali che permettono di viaggiare per il mondo con le ali ai piedi: troppo innocenti ancora per capire il senso del malizioso sospensorio della Papessa Giovanna, troppo a digiuno di nozioni storiche per avvertire il peso della penna stilografica utilizzata per siglare il Trattato di Campoformio.

In questo scarto narrativo tra storia e leggenda che viene percepito dai bambini nei termini di una scala di valore, è possibile intravvedere quello che Walter Benjamin avrebbe salutato come una riarticolazione del linguaggio delle cose che opera secondo canoni del pensiero propri dell’infanzia: la capacità innata del bambino di collocare gli oggetti su un piano simbolico diventa occasione per una rilettura della realtà che trova sempre il modo di agire sotto il segno positivo della novità e del gioco. L’irrompere improvviso dello sguardo infantile sul palcoscenico della storia rigenera un tempo consumato dalla dittatura del sempre-uguale, restituendogli quella freschezza che scaturisce dal confronto dialettico con la qualità ermetica dell’essere che tutto muove in maniera incessante.

Mandata par coeur la lezione, anche io mi rimuovo da Montmartre dirigendo i miei passi verso il cuore di Parigi; sfiorata appena la Goutte d’Or, procedo dritto lungo Boulevard Barbès. È l’estate del 2011.

Un paio di anni più tardi, terminata la giornata di lavoro nell’atelier di Enrico e Cristina, prima di prendere la via di casa mi fermavo volentieri a bere una seize al Carillon; capitava allora che Barbara mi raggiungesse e che la serata finisse in giro per i locali della zona, quasi sempre sale da concerto: il Point Éphémere, Le Trabendo, La Maroquinerie e – naturalmente – il Bataclan: lì abbiamo visto gli Shellac, John Spencer, Yo la Tengo.

Ancora avanti di due anni e siamo nel salotto della nostra casa di Roma a seguire la diretta Facebook dell’assalto, divorati dall’angoscia mentre cerchiamo di contattare i nostri amici per assicurarci che si trovino al sicuro; l’unica cosa a cui riesco a pensare è al gatto che tutte le mattine dormicchiava sul bancone del Carillon, mentre con Enrico prendevamo il caffè e io facevo pratica della lingua scambiando due parole col barista nordafricano che ormai sarà morto, mi dico sconvolto, disintegrato dalle raffiche di mitra assieme al gatto ma forse no, a quest’ora sarà andato a cuccia – cosa cazzo sto pensando, i gatti la cuccia mica ce l’hanno!

Di nuovo indietro al 2011 e la guerra non è ancora arrivata in città. Cammino con passo tranquillo lungo Boulevard Magenta, supero Gare de l’Est, percorro Faubourg St. Denis fino alla Porte e procedo dritto per cinque minuti ancora fino all’incrocio con Rue du Caire; arrivato alla sbilenca intersezione tra questa e Rue d’Aboukir, alla mia destra compare la facciata di un edificio che presenta motivi ornamentali di matrice orientale, tra i quali spiccano tre effigi della dea egiziana Hator. Tra due colonne in stile egizio, un portale sovrastato da un fregio raffigurante il simbolo solare del dio Horus introduce a un corridoio basso e poco illuminato; sotto al fregio un cartello recita: PASSAGE DU CAIRE.

Ecco di nuovo Benjamin e la sua spericolata allegoria del metodo dialettico che si nasconde nella forma architettonica del passage parigino, epifania dell’Eterno Presente capitalista determinata da uno spazio conchiuso, dove spostarsi è un’illusione ottica generata dal continuo fluire delle merci in esposizione che scorrono davanti agli occhi del malcapitato passante; soluzione dialettica di tale impasse è il distacco incuriosito e malinconico del flâneur che, rovesciato l’incantesimo della sospensione del tempo, apre lo spazio del passage alle infinite vie dell’interpretazione.

E anche una lezione di storia: all’indomani della firma del Trattato di Campoformio (ottobre 1797) il generale Bonaparte inizia a concepire una campagna militare in Oriente per emulare le gesta di Alessandro Magno; al suo rientro dalla trionfale campagna in Egitto, nella primavera del 1798, a Parigi scoppia l’egittomania e viene costruito il Passage du Caire – il primo passage, forma archetipica  sulla quale si sarebbe modellata l’idea di spazio pubblico nei decenni successivi, prima dell’avvento dell’urbanistica da assedio del Barone Haussmann.

Con cautela avanzo nel vestibolo e, prima di attraversare la soglia che mi divide dalla galleria coperta, mi nascondo tra le ombre per indossare gli Stivali delle Sette Leghe che ho preso in prestito dalla vetrina del bottegaio di Montmartre. Un passo deciso e mi ritrovo nell’area sbarchi dell’aeroporto del Cairo, insieme a Flavia, in una calda mattinata del maggio 2001.

Le porte della città le troviamo spalancate, quando un uomo corpulento di mezza età ci dà il benvenuto poco oltre gli sportelli della dogana che, in quanto europei, abbiamo attraversato senza essere chiamati a rispondere delle cinque valigie, stipate di abiti occidentali, con le quali siamo appena sbarcati dall’aereo proveniente da Roma. In cambio di questo piccolo favore il nostro contatto ci consegna le chiavi di un appartamento situato in un quartiere residenziale della città, un luogo al di fuori dai normali circuiti turistici dove avremo modo di conoscere il Cairo da un punto di vista decisamente inconsueto. Sul retro del biglietto con l’indirizzo di riferimento sta appuntato il suo numero di telefono, nel caso avessimo bisogno di qualcosa nel corso della settimana di vacanza che ci siamo appena guadagnati. Una rapida corsa in taxi, durante la quale la percezione dello spazio urbano si dilata lungo le distanze di sabbia tra i raccordi autostradali, ci conduce a destinazione: un anonimo quartiere fatto di blocchi concentrici di palazzi, immerso in una luce giallastra, lattiginosa e impastata di polvere al nostro arrivo verso la fine della mattinata. L’appartamento è grande, pulito e arredato con pochi mobili dozzinali tutti messi al posto giusto, ma in sostanza vuoto, freddo e inospitale. Fuori la calura è insopportabile; scendiamo giusto per comprare qualcosa da mangiare tra gli sguardi incuriositi degli abitanti della zona. Dopo un pranzo improvvisato, un riposino al fresco dell’aria condizionata ci conduce al tardo pomeriggio, quando decidiamo di partire alla scoperta della città. Come da accordi, il tassista di stamattina è fuori dal portone ad aspettarci. La Lonely Planet – imprescindibile pilastro della nostra scarsa dotazione – sconsiglia vivamente di inoltrarsi senza una guida, oltre il tramonto, nel labirinto di vicoli e stradine del centro città, ma il richiamo del bazaar più grande di tutto il Medio Oriente è troppo forte per indurci ad aspettare: il tassista ci scarica davanti ad una delle porte di Khān El-Khalilī che attraversiamo con passo baldanzoso, totalmente incuranti dei pericoli e sostenuti, nel nostro incedere, dall’incoscienza e dall’allegria della nostra giovane età.

Scrivo questa memoria da una valle alpina dove, nell’agosto del 2021, il passo si è fatto corto, prudente e trattenuto mentre il 2001 torna presente per via del ventesimo anniversario dell’attacco al World Trade Center che si avvicina, della drammatica conclusione della Guerra al Terrore che si consuma nella strage indiscriminata dell’aeroporto di Kabul, della morte improvvisa di Gino Strada.

Leggo con apprensione, sullo schermo del mio smartphone, le notizie provenienti dall’Afghanistan mentre nell’aria tersa della montagna il Ghiacciaio scintilla al sole del primo mattino. A osservarlo giorno dopo giorno la progressiva riduzione della sua massa immane apparirà senz’altro un fenomeno impercettibile ma, ai nostri occhi non abituati, ritrovarlo notevolmente striminzito rispetto all’ultima volta che siamo stati qui equivale a un sinistro memento, a una minacciosa allegoria geologica circa l’assottigliarsi della profondità del tempo una volta che la si sia sottoposta a un’accelerazione forzata e continuativa.

L’angosciosa minaccia non sembra però turbarmi più di tanto: l’assuefazione agli stress percettivi, prodotta dalle continue emergenze nel corso degli ultimi vent’anni, contribuisce ad alleviare l’angoscia del futuro cui soggiace irrimediabilmente lo spirito del nostro tempo.

Da dove arriva dunque questo affanno continuo, questo nodo nella gola che mi attanaglia da alcuni giorni mentre mi arrampico sui sentieri?

Di sera leggo Goethe, la Teoria della natura, ed ecco l’aforisma 444 che mi balza all’occhio: …questo grande mistero: niente sorge che non sia già stato annunciato, e l’annuncio diventa chiaro soltanto mediante ciò che è stato annunciato, come la profezia mediante l’adempimento – geniale sintesi settecentesca, in grado di produrre una teoria delle forme che comprenda tanto una filosofia della storia quanto una visione dell’evoluzione individuale.

Se dunque l’orrore dell’aeroporto di Kabul sorge quale riflesso dei sanguinosi eventi di vent’anni fa, la profezia che trova il suo adempimento nel passo intimorito con il quale affronto, in questi giorni, le salite in montagna potrebbe nascondersi nel ricordo della minaccia latente che mi ha seguito per le vie del Cairo, in quel pugno di giorni e di notti in cui avvertii, per la prima volta in vita mia, il gelido assillo della paura.

Il Cairo ci respinse, in effetti, come due corpi estranei e il Terrore per me iniziò in anticipo di qualche mese: prendeva la forma delle telefonate mute che ci svegliavano due, tre volte nel cuore della notte all’interno di quell’anonimo appartamento alla periferia della città. Il nostro contatto cercava di rassicurarci dicendo che si trattava sicuramente di qualche tassista a caccia di clienti. La terza notte, alla seconda chiamata, sollevato il ricevitore rimasi in silenzio. Who are you? risuonò una voce priva di tono, dopo alcuni secondi di attesa. Poi la luce dello spioncino della porta di ingresso che si oscurò per alcuni secondi, la fuga all’alba, la macchina con tre uomini a bordo che pareva seguirci per le vie semideserte del quartiere, il provvidenziale tassista che trovò in effetti due nuovi clienti. Poi le mitragliatrici e i sacchetti di sabbia a circondare l’albergo per turisti dentro il quale ci rifugiammo e che pareva destinato ad accoglierci sin dall’inizio della nostra avventura. In Egitto è normale, funziona così. E che diavolo siete andati a fare a El Fishawi? È una trappola per turisti! mi disse A.J. una volta rientrati a Roma. Bastarono però quei pochi giorni a insegnarmi cosa significasse essere odiato soltanto per il fatto di andare in giro per la strada indossando un paio di blue jeans.

Con i magici stivali ai piedi mi lancio nel vortice del passato seguendo una linea retta discendente, per evitare di finire travolto dal sorgere incessante e dai relativi annunci, alla ricerca di un ricordo che spezzi la catena senza fine delle infauste profezie e che apra uno spiraglio dal quale la speranza nel futuro possa fare la sua irruzione nella Storia.

Una sequenza implacabile di ricordi di guerra segna le tappe della mia ricerca.

La sera di Capodanno del 2012 sono con Barbara a Parigi, davanti all’ingresso del Passage Brady. Un ragazzo nordafricano, ubriaco fradicio, barcolla verso di noi per chiedermi da fumare in un francese strascicato. Gli allungo una cartina e un po’ del mio tabacco e lui attacca bottone – Italiens, vraiment? J’adore… biascica ridacchiando alle mie risposte per poi sparire, rapido come un’ombra nella luce bassa del passage, lasciando risuonare dietro di sé un ultimo sussurro, carico di odio minaccioso: Italiani io taglio gola…

Una serata come le altre al Circolo degli Artisti, il 12 novembre 2003. Riconosco Flavia, in mezzo alla folla, che mi sta venendo incontro; non la vedo da qualche mese. Tra il frastuono della musica e il torpore della ganja, mi sforzo di mettere a fuoco le parole che mi urla in un orecchio quando riesce a raggiungermi: Aureliano…. Nassiriya…. gravemente ferito!

Il pomeriggio dell’11 settembre 2001, assieme ai miei amici sto osservando stupefatto la forma prototipica dei miei incubi per gli anni a venire che prende corpo sullo schermo da ventiquattro pollici di un televisore a tubo catodico; la dimensione performativa altamente spettacolare dell’evento fissa l’attimo indelebile nella mia memoria, sin dallo schianto del primo aereo contro le vertiginose pareti delle Twin Towers.

Una calda e luminosa mattinata di settembre del 1999; sono in Croazia con A.J. per una campagna fotografica. Lungo il tragitto in automobile tra Zara e Spalato, procedendo per stradine secondarie, ci troviamo all’improvviso ad attraversare un villaggio abbandonato; non fosse per le facciate degli edifici crivellati di pallottole, sarebbe del tutto identico ai paesi abruzzesi nei quali ho trascorso tutte le estati della mia infanzia.

Un’altra mattina, con la luce gelida dell’inverno che entra dalle finestre della mia classe; è il gennaio 1991 e sto ascoltando le parole di un’insegnante, all’indomani dell’intervento militare della NATO in Kuwait: Quel che vivrete nei prossimi tempi, per la prima volta in vita vostra, è l’esperienza di una guerra. Nei giorni successivi provo a farci caso, ma nella mia vita non cambia nulla. Le immagini confuse delle scie dei razzi e delle esplosioni nel cielo notturno di Baghdad sembrano infatti lontanissime.

È stato forse quello l’inizio? E quando finirà? Impossibile uscire dal circolo. Avrei bisogno di una guida, qualcuno che venisse a prendermi per mano e mi conducesse verso l’attimo, il momento opportuno, la piega imprevista nella quale profezia e realizzazione vengano a coincidere, spazio e tempo si annullino e il miracolo si compia.

Osservata dalla cabina dell’aereo il Cairo sembra avere una forma definita, mentre a guardarla da vicino essa appare piuttosto quale un ammasso di rovine stratificate su infiniti livelli, dove alla sovrapposizione architettonica di antico su antico corrisponde il riciclo creativo degli scarti dell’Occidente che, per le strade della città, rinascono a nuova vita; nelle schede traforate da telescrivente, utilizzate come tovaglioli per avvolgere le focacce, colgo la sincronia degli eventi storici incrociata con la diacronia germinativa degli edifici che si sviluppano verso l’alto per superfetazione: ecco l’attimo, «Καιρóς».

Presi dall’entusiasmo del primo giorno ci lanciamo, al tramonto, nel dedalo di viuzze del bazaar: tra le ombre che si allungano, intere famiglie spuntano dalle case con sedie e tavolini per accomodarsi nella frescura della sera. Siamo gli unici bianchi in giro e Flavia è l’unica donna ad avere le spalle e i capelli scoperti. Gli sguardi dei giovanotti che incrociamo si abbassano perlopiù per il pudore, ma talvolta si fanno insolenti, accompagnati da considerazioni proferite ad alta voce il cui tono non lascia adito a fraintendimenti di sorta. Tiriamo dritto; con fastidio sento una voce che ci apostrofa come yankees, senza riflettere sul fatto che in Europa basta indossare un capo di vestiario vagamente simile a una tunica per essere etichettato quale arabo, senza nessuna attenzione per le sfumature del caso. Seguendo le scarne indicazioni del tassista, in pochi minuti raggiungiamo il caffé storico El Fishawi, dove ci accomodiamo in mezzo ad una piccola folla di avventori occidentali che sorseggia tè alla menta tra una chiacchiera e una partita di backgammon. La mia Rolleiflex del 1965 sembra riscuotere un certo successo tra i camerieri; uno di loro apre le porte di una loggetta privata per mostrarci le fotografie d’epoca che ne decorano le pareti, poi ci chiede dei soldi quale ricompensa per lo spettacolo. Gli scatto una foto mentre si mette in posa con in mano un bicchiere di tè ma la luce è bassissima, dubito che verrà qualcosa. Passiamo la serata chiacchierando in inglese con lui e i suoi compari, senza badare al tempo che passa; verso le dieci e mezza lasciamo il locale e, invece di chiamare un taxi, decidiamo di percorrere a ritroso la strada per la quale siamo arrivati. La notte è nera come la pece e l’illuminazione delle strade scarsa, ma la gente in giro sembra persino aumentata rispetto a qualche ora fa. Dopo un quarto d’ora di cammino, circondati dagli sguardi ostili dei locali, ci rendiamo conto di aver smarrito la strada: guadagnata la luce di uno dei pochi lampioni ci arrabattiamo nel tentativo di leggere la mappa disegnata in maniera approssimativa sulla Lonely Planet, quando due ragazzini più coraggiosi degli altri si staccano dal gruppo che ci sta seguendo da alcuni minuti e mi vengono incontro con aria spavalda. Li scaccio via bestemmiandogli contro in romanaccio e facendogli intendere di essere più che disposto a conciarli per le feste; i due girano i tacchi e si allontanano con la coda tra le gambe ma le cose si mettono male, mi fa notare Flavia, potrebbero tornare con i fratelli più grandi. Prendiamo il largo dalla luce del lampione cercando di farci notare il meno possibile. Dopo alcuni minuti in cerca della strada giusta, ci ritroviamo davanti al lampione di prima: stiamo evidentemente girando in tondo. Flavia è una tipa tosta, è stata lei ad insegnarmi a dormire per strada la prima volta che abbiamo viaggiato insieme e, in una situazione come questa, è di gran lunga più tranquilla di me che, per carattere, vedo pericoli dappertutto; quando però una ragazzina di circa quindici anni, interamente coperta da un velo ad eccezione dell’ovale del viso, compare dal nulla e le si para davanti urlandole in faccia quelli che presumo essere degli insulti irripetibili, mi si stringe contro afferrandomi per un braccio. Presi dal panico iniziamo a correre alla cieca, inoltrandoci sempre più a fondo nei meandri della città, mentre la profondità della notte si richiude alle nostre spalle.

Abbiamo bisogno di aiuto. Col fiato spezzato, svoltiamo l’angolo di un vicolo e ci ritroviamo in un piccolo slargo sul quale affacciano i cortili di alcune basse casette, una specie di piazza di paese in miniatura dove la nostra irruzione interrompe quello che sembra essere un tranquillo dopocena di quartiere. Un gruppetto di bambini ci viene incontro, sotto gli occhi stupiti dei loro familiari che tutto si aspettavano fuorché la comparsa improvvisa di una coppia di yankees nel bel mezzo di una normalissima serata in famiglia; i piccoli ci girano intorno, ridacchiano imbarazzati ma sembrano tranquilli, giusto un po’ incuriositi dal nostro aspetto inusuale. Un colpo d’occhio alla ricerca del pater familias e, individuatolo in mezzo al gruppo di amici e parenti, mi faccio coraggio e gli vado incontro; abbasso il capo in segno di saluto, poi dico: We need help. We got lost. Can you show us the way to get out from the bazaar, please? L’uomo mi ascolta squadrandomi con aria seria, poi si rivolge a un ragazzo per farsi tradurre le mie parole. Un rapido scambio di battute in arabo e il ragazzo, voltatosi verso di me, dice: This is not the bazaar, this is our home. Non faccio in tempo a preoccuparmi del fatto di averli offesi mortalmente che la risata allegra dell’uomo esplode e si propaga attraverso la piccola folla, probabilmente assai divertita dalla nostra aria terrorizzata. L’uomo fa un cenno verso un bimbetto di circa otto anni che, al richiamo del padre, abbandona l’ispezione della misteriosa straniera cui il gruppetto di bambini si sta dedicando con grande attenzione; ricevuto l’ordine, il bimbo mi viene incontro e, con tutta la serietà che si addice ad un incarico molto importante, mi fa cenno di seguirlo.

Nel bazaar brillano i fuochi che scaldano l’acqua per l’ultimo tè della sera, mentre procediamo spediti dietro alla nostra piccola guida. Il bambino si muove svelto e sicuro nel labirinto di vicoli, e la sua minuscola tunica azzurra balugina tra le ombre della folla come una stella tremolante in un cielo notturno velato di nuvole. Lo seguiamo storditi dalla fatica della giornata; la porta del bazaar non dista in effetti che cinque minuti dal nostro punto di partenza ma, dopo averla attraversata, la sensazione è quella di aver camminato per una notte intera. Il bambino ci conduce ad un angolo della strada dove si ammucchiano i taxi in cerca degli ultimi clienti. Pazzesco che lo facciano girare per strada da solo a quest’ora della sera –dice Flavia. Già, le rispondo, mentre cavo una manciata di monete dalla tasca, quale ricompensa per il nostro salvatore; quando gliele offro però, il bambino le rifiuta con un gesto deciso, come a sostenere la sua parte di persona adulta e affidabile. Suo padre gli avrà detto di non accettare soldi, ma ti pare? – dico a Flavia ostentando sicurezza, mentre il suo rifiuto, in realtà, mi ha messo in imbarazzo; obbedendo a una sorta di riflesso condizionato mi ritrovo tuttavia ad insistere. Questa volta il piccolo non risponde, si limita fissarmi con uno sguardo serio, poi solleva la mano e mi fa segno di no con il dito. Mi sento un idiota; è un velo di disprezzo quello che colgo nei suoi occhi? Una lama di vento gelida porta un sussurro che arriva dal futuro: Italiani io taglio gola… Mi manca il fiato.

Flavia mi prende la mano.  Andiamo, dai –mi dice.

Salgo sul taxi senza aprire bocca. Solo quando partiamo mi volto a cercare la nostra piccola guida in mezzo al traffico incessante della notte cairota: lo vedo che saltella mentre agita le braccia verso di noi in segno di saluto, un sorriso allegro e gentile che si allontana viene incontro al mio sguardo trasognato.

Stava solo giocando – dice Flavia.

Non sarà lui – mormoro, rincuorato.

Eh? – risponde lei.

Bravo bambino… – aggiungo sottovoce; poi mi addormento.

Francesco Demichelis

nato a Roma nel 1974, dopo studi irregolari inizia a occuparsi di fotografia nel 1997. È fotografo, lettore, appassionato di teoria della cultura. Tra i suoi interessi: fotografia in grande formato, risorse stenopeiche, architettura da assedio, radici del Romanticismo, Gnosi e spirito tardoantico. Vive a Roma e collabora con doppiozero.com.

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