L’Antiporno di Sion Sono

“E voglio essere una gialla vela
Per quel paese verso cui navighiamo.”
Confessione di un teppista, Sergej Aleksandrovič Esenin

Sion Sono è stato definito all’interno del contesto cinematografico giapponese come “non ortodosso”: definizione che gli calza a pennello, non solo perché spezza schemi classici, ma perché sembra allergico a qualsiasi tipo di forma venga ad imporsi in maniera rigida, anche all’interno della sua stessa cinematografia. Può capitare ad un regista di ritrovarsi in una sorta di ortodossia interna quanto più diventa cult, ma Sion Sono decide di non dare troppa corda neppure a se stesso e nel momento in cui si prestava a riconfermarsi nella sua maestria con il suo stile, ecco che lo spezza: Antiporno (2016) prende una via traversa rispetto al cinema cui aveva abituato e lo fa in maniera radicale, rompendo con la forma cinematografica in sé. È di fatto un’invasione del mondo della video-arte – campo estraneo a Sion Sono e che però lui sceglie proprio perché lo costringe a non ripetersi in automatismi: gli permette di inventarsi qualche volo “non ortodosso” in più.

Il salto è importante, ma, più che spostarsi altrove, Sono non è mai stato così fedele a se stesso. Si fa infatti più vicino alla sua dimensione più intima, lontana dalla cultura cinematografica giapponese e lontana dalla propria forma cinematografica; eppure dimensione impregnata di entrambe le cose. Il paradosso di Antiporno è che non sembra né un film giapponese né un film di Sono, ma è Sion Sono (e tutto ciò da cui lui proviene) come nessun altro prodotto della sua cinematografia. È infatti un film profondamente giapponese nel modo in cui trasmette tutto il disagio di essere una donna giapponese nella cultura giapponese e che raccoglie molto dai suoi film precedenti. È questo il risultato paradossale della logica non-ortodossa: meno Sion Sono è se stesso, più lo è. Meno sposa la cultura giapponese, meglio la incarna; meno si ripete nel suo stile, meglio lo ritrova. Grazie al rifiuto di coincidere sia con l’ortodossia della cinematografia giapponese che con l’ortodossia del proprio stile personale, si crea quella via trasversale di possibilità in cui accade il cinema più vitale e nuovo.

Frame dal film Antiporno, 2016

Per far questo – fuggire di traverso, creare il nuovo – gli unici strumenti a disposizione sono quel che si ha e quel che si è. In Antiporno Sono riprende quindi elementi già conosciuti e “suoi”: il femminile all’interno della sua cultura, la dimensione erotico-perversa, la società giapponese in cui vive e che critica, le colate di vernice colorata… Queste ultime in particolare sono forse il segno visibile più distintivo e memorabile della sua cinematografia, già sperimentate in Koi No Tsumi (2011) e Himizu (2011). Sostenere che con tutto questo Sono arriva alla sua dimensione più intima significa ritenere ciò che plasma Antiporno una sorta di matrice polposa da cui sgorga tutta la sua cinematografia.

Frame dal film Antiporno, 2016

Arata Oshima – figlio del più famoso regista Nagisa Oshima – gira nel 2016 un documentario intitolato The Sion Sono, in cui tenta di delinearne un ritratto partendo da una convinzione simile. In particolare a fare da prologo è un’intervista fatta a Sono nel suo atelier in cui parla di colori: Oshima sembra scovare il perno che muove tutta la cinematografia di Sono nella questione del colore, e in modo più specifico della vernice colorata, diventata protagonista di Antiporno. Colore inteso come corpo (materia del colore, carne liquida della tinta), su corpi (tela del pittore, corpo femminile o immagine cinematografica).

All’inizio del documentario Sono è di fronte ad una tela bianca, su cui lancia della vernice verde e poi del rosa; si parla di colori: di rosa, e di come il rosa sul verde acquisti diversa luce, essendo complementare. Spiega come questi siano “incontri”che il corpo di una donna fa nel corso della sua vita, che la segnano di colore. Ogni incontro, anche il più intellettuale, è fisico: è tela che incontra vernice colorata. Gli incontri ovviamente aumentano, Sono lancia nuovi colori, i colori si mescolano l’uno all’altro, verde, rosa sul verde, nero sul verde-rosato o rosa-verdato… fino all’incontro più importante, quello che Sono disegna come l’incontro con “l’uomo giallo”.

La vernice gialla che Sono spalma con le dita, stavolta però, dopo troppi colori impastatisi indistintamente l’uno con l’altro, non è in grado di attecchire sulla tela-corpo: si perde in un magma indistinto di colori in cui non si vedono più “verde”, “rosa”, “nero”, “giallo”, ma un informe marrone-grigio. La domanda che Sono fa ad Oshima e che lui pone come chiave di lettura all’inizio del documentario è: come può la donna incontrare l’uomo giallo, senza che sfumi via? Come posso disegnare un uomo giallo brillante? Come avere il giallo?

Frame dal documentario The Sion Sono, 2016, di Arata Oshima

Per Sion Sono queste domande hanno a che fare con il cinema in sé. Non esiste per lui separazione fra gli incontri che accadono nella vita, gli incontri della sua tela bianca coi colori e gli incontri dei corpi degli attori e dei colori sui set, che diventano incontri di luce colorata sulla tela bianca di proiezione del film. È tutto colore. Nella vita, in pittura e cinema per Sono si tratta sempre di gestire gli incontri di corpi colorati su corpi colorati. “Come può un corpo incontrare il giallo?” è una domanda che riguarda tutti e tre i campi, perché Sono in essi ha che fare con il gestire, per esempio, prima il verde, e poi un rosa che viene incontrato dopo che si ha corpo/tela/attore/immagine già colorati e segnati di verde… e così via per ogni colore che si aggiunge. Se la tela cioè è una sola, in che modo fare spazio a tutti i colori, perché il corpo non diventi un magma spento, ma sia invece un’esplosione di luce?

Potrebbe essere il tipo di pensiero che ossessionava pittori come Van Gogh, la cui risposta è stata viscerale e letterale: se è vero quello che si racconta, Van Gogh per “avere il giallo” e la gioia deflagrante che esso esprime, mangiava la vernice con cui dipingeva i suoi girasoli e i suoi soli… voleva l’esplosione gialla dentro di sé, nel suo corpo. Diventare giallo, come se anche le viscere – punto nascosto e invisibile – fossero da colorare. E Sono fa muovere con questo stesso tipo di desiderio di luce anche i protagonisti di Antiporno e Himizu, che fra le dita maneggiano i colori in vernice, se li spalmano sulla faccia, si colorano guance, bocca, lingua e capelli. Sfiorano il giallo, ma, al contrario di Van Gogh, sempre per troppo poco, perché poi sono subito sommersi da troppe colate di vernice colorata che li trasformano in un fangoso marrone-grigio.

Sion Sono sembra suggerire che per avere il giallo non sia sufficiente incontrarlo (il sole è sempre in cielo), ma sia necessario avere la capacità di gestirne l’incontro. Sapere «approcciarsi e prepararsi al giallo»[1] direbbe il filosofo francese Gilles Deleuze, il quale parla sia di colore e che di gestione degli incontri.  Nell’intervista-film L’Abécédaire (Pierre-André Boutang, 1996), all’interno della sezione “J come Joie”, Deleuze cita proprio Van Gogh e il suo timore iniziale a usare la vernice gialla, dettato per lui non da debolezza, ma dalla volontà forte e intransigente di farsi all’altezza del colore, acquisire la capacità di gestirne l’incontro. Questa preparazione all’incontro, come può essere anche quella di Van Gogh con un semplice vaso di girasoli, ha a che fare con l’angoscia (e la gioia) di cui ogni incontro segna il corpo. Van Gogh – fa notare Deleuze – si è preparato tutta la vita al giallo, ed è riuscito allo stesso tempo a conquistarlo e impazzirci con tutto il corpo, di gioia e disperazione.

Frame dal film Antiporno, 2016

I protagonisti di Sono non arrivano a tanto. I protagonisti di Sono impazziscono e basta, di disperazione e non altro. Sono è sempre loro vicino, tanto nel comune desiderio di colore esplosivo, quanto nel progressivo spegnersi di brillantezza, fino all’esplosione finale di soli colori spenti – epilogo del fino ad allora coloratissimo Antiporno. Qui la protagonista vede il proprio uomo giallo scemare nel marrone e come anche altri personaggi di Sono, sembra destinata a rimanere incastrata e abbandonata sotto ondate di vernice, senza risposta alla domanda “come incontrare il giallo?”. La visione di Sono nei confronti della gioventù giapponese di cui i suoi personaggi sono simbolo è piuttosto buia: mostra da una parte il progressivo acquisto di maggiore libertà di incontri (ondate e ondate di vernice colorata) e al contempo come ciò non corrisponda e non possa corrispondere in nessun modo ad un quadro luminoso dove giovani donne e ragazzi possano davvero vivere. In questa visione c’è tutto lo sguardo critico di Sono sulla società giapponese verso cui punta il dito – società ridottasi a creare corpi fatti solo per essere investiti di vernice.

Frame dal film Antiporno, 2016

Come salvare il corpo dalle troppe colate di colore che creano marrone spento, o come direbbe la protagonista del film, marrone “merda”? In che modo non vedersi scemare la capacità di contenere colori brillanti? Domande cui la società non sembra essere interessata a rispondere, e che per Sono è il cinema a dover raccogliere. Quando Sono decide di far ruotare tutto il suo fare cinema attorno a questo tipo di urgenza, quello che fa è cercare di capire come salvare il proprio, di corpo, come fare spazio e prepararsi all’incontro col suo, di uomo giallo. E se la scelta si traduce nel dipingere e nel fare cinema, questo succede perché è dipingendo che impara a gestire gli incontri colorati sulla tela per farne un buon quadro, ed è organizzando i set e giocando con le luci, i costumi, gli attori, la vernice, che acquisisce la capacità di creare un fotogramma che possa avere la stessa carica esplosiva di un quadro di Van Gogh.

«Stato di shock, stato di grazia. Il film di Sion Sono agisce sugli spettatori come un elettroshock» aveva commentato François Lévesque sul giornale canadese Le Devoir. Potrebbe essere l’effetto di un’esplosione vitale che avviene all’interno del corpo, qualcosa di vicino a quello che Van Gogh riusciva a provare vedendo un girasole.


[1] Cit. dall’intervista-film L’Abécédaire, di Pierre-André Boutang, 1996.

In copertina: Sion Sono, frame dal film Antiporno, 2016

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