Tacita Dean ritorna a Londra, a distanza di pochi anni dalla celebre triade di mostre personali che la videro al centro della scena artistica nel 2018 – Still Life, Portrait, Landscape, frutto di una preziosa collaborazione tra National Gallery, National Portrait Gallery e Royal Academy of Arts. Ad accoglierla nuovamente questa volta è Frith Street, nelle gallerie dislocate tra la sede storica di Soho Square e l’ampliamento dello spazio espositivo in Golden Square.
Frith Street Golden Square ospita, su due livelli, le installazioni The Dante Project (2020-21) – scenografie commissionate per l’omonimo spettacolo, andato in scena alla Royal Opera House lo scorso Ottobre – e One Hundred and Fifty Years of Painting (2021, 50 ½ min), un film in 16mm che mostra le artiste Julie Mehretu e Luchita Hurtado in conversazione. Gli spazi di Soho Square sono invece dedicati alla collaborazione tra l’artista e il Getty Research Centre di Los Angeles (2014-15), da cui nascono Monet Hates Me (2021) – installazione concepita, in collaborazione con Martyn Ridgewell, come ‘exhibition in a box’ – e Pan Amicus (2021, 31 min), altro film in 16mm commissionato in occasione dei vent’anni dalla creazione del complesso Getty, ad opera di Richard Meier. Uscendo da Frith Street, ciò che resiste e che non vorrei lasciar andare sono questi ultimi 31 minuti di riprese in loop, controsole e controluna. È su queste immagini che mi vorrei brevemente soffermare.

Scendendo la stretta scalinata che conduce agli ambienti sotterranei della galleria in Soho, si accede ad una modesta sala, quattro o cinque sedie al massimo, un piccolo telo da proiezione e poi la luce, a tagliare lo spazio in diagonale: è l’alba in una terra imprecisata, un cenno di sole ancora acerbo penetra le infiorescenze in controluce, rimescolate di continuo dal vento. Arcana e scivolosa bellezza dove ogni punto d’appoggio, compreso il riferimento architettonico, viene completamente a mancare – ‘non volevo utilizzare nessuna ripresa con il palazzo [Getty Centre/Villa]’, dice la Dean in una recente intervista, ‘ciò che mi importava era riflettere sul senso di trovarsi altrove [elsewhere]’. Come spesso accade, per la Dean è il paesaggio il vero incanto. Se la commissione nasce dalla volontà di celebrare il complesso architettonico del Getty Museum (LA), Tacita Dean volge lo sguardo altrove, verso l’elemento differenziale in cui la Villa sprofonda, la macchia indecifrabile, quasi-mediterranea, che inganna l’orientamento. Solo alcuni frammenti greco romani, la testa di Hermes e due piedi troncati, sottratti alla curatela del museo e abbandonati all’aperto in un fazzoletto d’erba bagnata – ‘come se fossero stati lì da sempre’ -, vanno ad intervallare la miscela di luci nella curvatura azzurra.

Un cielo immenso e una terra senza fine che già negli anni del Falmouth College, nell’amata Cornovaglia, avevano stregato l’artista britannica. È la stessa potenza dello sguardo di Antigone, Disappearance at Sea o di The Green Ray, e molti altri lavori in 16mm – talvolta in 35mm – a fare da protagonista. La ricerca del raggio verde, ultimo barlume di luce solare ad accarezzare la terra prima che il tramonto si compia, era diventata, spiega lei, una ricerca ‘sull’atto stesso del guardare’ che accompagna il suo lavoro da più di trent’anni. Questo è ciò che resiste, il suo vero atto di forza. Anche in Pan Amicus si tratta, per la Dean, di guardare il mondo immaginando ciò che non si riesce a vedere.
Assumere una tale postura verso il mondo significa, da un lato, tenere traccia di ciò che lentamente scompare e, dall’altro, lasciarsi sorprendere da ciò che inaspettatamente appare. Quante lune e quanti soli saranno sprofondati davanti a quegli occhi, per poi ritornare, mai nello stesso modo, mai nella stessa luce – sì, ‘il mondo è vasto’, come scriveva Constable, meravigliosamente ricordato da Rilke. Mostrare un paesaggio trafitto da innumerevoli eclissi e attraversato da altrettante epifanie richiede senz’altro, per la Dean, una straordinaria sensibilità verso l’impermanenza di una vita che si presenta qui e ora. E richiede, soprattutto, incondizionata ospitalità. Saper accogliere luce e buio, aurore e crepuscoli, nella loro inevitabile e reciproca implicazione, scartando ogni rigida dicotomia, aprendosi alla meraviglia senza mai abbellire né adornare, nella ferma consapevolezza che la vita è anche, spesso, ‘painful as hell’.

In Pan Amicus, Tacita Dean mostra una terra e un cielo senza fine né inizio. Il connubio greco-latino e la comparsa delle rovine classiche non devono trarre in inganno: non troviamo un altro inizio in queste immagini, non c’è ritorno e non esiste alcuna heideggeriana Fernstellung verso l’origine. La terra imprecisata racchiude il senso di un’Arcadia che si può trovare solo davanti, verso cui non si può fare ritorno – ‘questo è il punto. Non c’è nostalgia possibile perché [lì] non ci siamo mai stati’. Non c’è inizio né fine, ci tiene a precisare la Dean, ma c’è un taglio – ‘hard cut’ – tra il primo e l’ultimo frame, successivamente incollati uno all’altro. In questa cesura echeggia ancora il canto di Whitman che, come lei, non voleva parlare di origine o fine ma dell’intermezzo, perché ‘non c’è mai stato più inizio di quanto ce ne sia ora’.
Qui e ora, in questa piccola stanza, tutto il mondo è davanti. Un tramonto lavico sovrasta il manto color notte del bosco. Presto, l’oscurità inghiottisce la terra, e la stanza. Schermo nero, per lunghi minuti. Lentamente, una lingua di luce si fa strada nel fondo delle tenebre: è il fianco dolce e appena accennato di una luna in perigeo. Il rapporto cromatico si inverte. La superluna, calda coloritura nel buio siderale, conserva le sembianze del tramonto nella sua sfera aranciastra, che ora levita leggera nel telo corvino del firmamento. Scambiandosi di posto, i corpi celesti e i chiaroscuri che li accompagnano non si sovrappongono in un’identità indifferenziata. Sono, al contrario, testimoni transitori di una coimplicazione ancestrale, rapporto che non esige negazione né affermazione ma solo un semplice stare-con e contro nell’incommensurabilità cosmica.

La giuntura della pellicola compone l’infinito nel finito, mette insieme, l’uno contro l’altro, inizio e fine. Un gesto che rimanda all’implicazione, se vogliamo eraclitea, di opposti che, scambiandosi di ruolo, sussistono in un’alternanza ritmata. Entrando nella stanza buia in Soho Square, tutto è in procinto di iniziare, tutto è sul punto di eclissarsi. L’alba cede spazio alla calura del mezzogiorno, un uccello solitario si libra in volo verso un emisfero ignoto, si sta all’ombra dei pomeriggi in compagnia di cervi, in attesa che tutto finisca e che tutto ricominci, aspettando il buio, e poi ancora luce.
Scoprire – con Tacita Dean, Constable e molti altri – che ‘il mondo è vasto’, significa, scriveva Rilke, iniziare una nuova vita, non avere nulla dietro di sé, ‘ma tutto davanti’. Se c’è una postura, un modo di stare al mondo come cosa tra le cose, a cui le immagini di Pan Amicus rinviano è proprio quella dell’obiettivo aperto controluce, controsole e controluna, verso un cielo immenso e una terra senza fine in cui perdersi ogni volta, nuovamente, avendo sempre tutto davanti.
In copertina: Tacita Dean, Purgatory, 2020-21 – courtesy Frith Street Gallery, London