Domenico Gnoli è nuovamente di moda. Il Podium della Fondazione Prada fa da vetrina alla pittura – e alla grafica, e all’illustrazione, e alla produzione scenotecnica – del pittore nato a Roma nel 1933 e morto a New York nel 1970. Fotograficissimo, fotografabilissimo e fotografatissimo invade i feed di Instagram e diventa il “preferito” di molti. Il fatto è notevole, sorprendente, non privo di significato: la moda (fortuna?) italiana di Gnoli è sempre stata ciclica, soggetta a scomparse e ritorni: se poco aggiunge all’incontestata grandezza del pittore, molto racconta delle epoche in cui si è affermata.
Quando morì improvvisamente, il 17 aprile 1970, in Italia nessuno sembrò accorgersene: il 1968 – l’anno in cui Gnoli aveva preso parte a Documenta 4 – sembrava aver esaurito le riserve e forse le stesse condizioni di possibilità del lutto nel mondo artistico italiano: le lacrime versate in sequenza per Leoncillo, Fontana, Pascali e Duchamp avevano idealmente chiuso un’epoca, le piazze e le bombe avevano fatto il resto. Già ci si era dimenticati di alcune sue memorabili mostre italiane, su tutte il trittico del Sessantasette: Il Centro a Napoli, Odyssia a Roma, de’ Foscherari a Bologna. Nessun cronista italiano, nessuna rivista d’arte si prese la briga di segnalare la scomparsa di quel pittore che tanto piaceva ai borghesi d’Europa e d’America, forse già scomodo nell’Italia mobilitata. Fu la Quadriennale, con qualche mese di ritardo, a prendersi la briga di ricucire lo strappo: la decima edizione (1972) ospitò la prima retrospettiva italiana dell’artista, una sala con diciotto dipinti e quattro sculture. Il testo di presentazione fu affidato a Virgilio Guzzi, vecchio esponente della Scuola Romana che aveva fatto in tempo a esporre alla prima Quadriennale del Trentadue e che si affrettava a definire Gnoli “pittore nuovo e singolare […] universalmente noto, ma in Roma dove nacque nel 1933 non ancora abbastanza”. Alcuni passi del testo di Guzzi, classe 1902, commuovono per il totale distacco dalla contingenza storica, con Gnoli elevato a “difensore dell’idea di tradizione e pittura, e alla fine dell’inscindibile rapporto dell’io e del non io, radice dell’idealismo europeo […] poetico assertore di civiltà”. Guzzi era comunque consapevole – doveva essere chiaro a tutti – del distacco con cui in Italia si guardava a Gnoli, tanto da invitare esplicitamente le gerarchie critiche a volgersi nuovamente “a questa arte di così alto potere polemico col massimo interesse”.

L’invito cadde nel vuoto, nonostante il Bottone riprodotto sulla copertina di marzo della più internazionale e della più milanese tra le riviste italiane, “Domus”, omaggio sottile alla rassegna Metamorfosi dell’oggetto allestita in quelle settimane a Palazzo Reale. Il pittore doveva sembrare talmente facile da diventare difficile, i suoi soggetti apparivano troppo ostentatamente – feticisticamente, certo – borghesi (ancora nel 2018, Chloe Wyma su Artforum parlava di “artifacts of postwar Italy’s embourgeoisement”), le sue quotazioni erano già troppo elevate per le collezioni e le istituzioni italiane: Gnoli, ufficialmente l’artista più caro al mondo secondo il Kunstkompass 1975, era adatto soltanto alle passioni eccentriche di pochi. “D’altra parte i tempi erano quelli. L’arte era politica. Troppo lontano, e aristocratico, Domenico Gnoli”, ha ricordato recentemente uno dei protagonisti di quelle vicende, Vittorio Sgarbi. Mentre all’estero le attenzioni di stampa, critica e giornali non si placavano, nell’Italia degli anni Settanta l’unico disposto a sporcarsi le mani con quella pittura ruvida e sabbiosa era Luigi Carluccio, reduce dalla curatela con Daniela Palazzoli di Combattimento per un’immagine, vecchio appassionato di Surrealismo, autore della presentazione della mostra di Gnoli alla Galatea nel 1966 e ora curatore della prima grande monografia illustrata, pubblicata da Fabbri nel 1974. Il testo era importante e, significativamente, di respiro internazionale: fu pubblicato contestualmente in francese dalle Éditions des Massons e in inglese dalla Overlook Press. Due anni dopo, Renato Barilli – che già aveva introdotto le personali del 1967 e aveva parlato di Gnoli in Dall’oggetto al comportamento (1971) – lo incluse nella rassegna Blow-Up, i viaggi di Gulliver nel regno della percezione, allestita a Dov’è la tigre, spazio sperimentale fondato a Milano da Luca Palazzoli. L’evento fu minimo, l’impatto nullo.
Qualcosa iniziò a cambiare a fine decennio: la Biennale del 1978 ospitò una piccola retrospettiva di una decina di opere di Gnoli di grandissimo impatto e successo. Si era già in età di riflusso, almeno in laguna, e Liliana Bortolon parlava senza riserve alle lettrici di Grazia degli “Oggetti inquietanti di Domenico Gnoli”, mentre sull’Espresso Renato Barilli, “Ditelo con la brillantina!”, esaltava i dettagli di nuche maschili, protagoniste anche di una delle più felici tra le belli pareti Prada. Nel 1981 fu la personale alla Galleria Giulia a catalizzare l’attenzione collettiva; in catalogo, Carlo Bertelli sottolineava la “sorte curiosa” del pittore: “Nelle più grandi collezioni straniere lo si incontra fra i campioni massimi della pop art e la sua presenza vi reca il fascino d’un meteorite, talmente si discosta dagli altri celando una storia che s’indovina diversa. In Italia non lo si trova praticamente in alcuna collezione pubblica ed è presente soltanto presso rari e sagaci collezionisti, come se quella storia nascosta cui rimandano le sue opere non appartenesse alla tradizione patria”, subito citato da Carmine Benincasa sul Corriere: “Tutti i più importanti musei del mondo già l’hanno storicizzato tra i più grandi artisti degli ultimi 30 anni; l’Italia invece è giunta un po’ in ritardo al riconoscimento della sua statura intellettuale”. Ormai, comunque, i tempi erano maturi anche in Italia per un effettivo riconoscimento del valore dell’artista, sancito subito l’anno dopo dalla grande retrospettiva istituzionale allestita a Verona da Giorgio Cortenova. Della mostra si parlò moltissimo: su Flash Art apparvero due lunghi testi di Luigi Meneghelli e dello stesso Cortenova, mentre un pezzo di Pierparide Tedeschi su Vogue segnò l’ingresso effettivo dell’artista nell’orizzonte di gusto della borghesia italiana, non senza la solita tirata alle orecchie dei critici: “Dopo averlo lasciato in disparte, essersene dimenticata, o avergli concesso un’attenzione distratta (se così si può dire), eccola ora invece ad affrontare seriamente, decisamente e anche con entusiasmo l’opera di Domenico Gnoli; dico la cultura critica italiana in generale, a eccezione di pochi, più avvertiti e sensibili, casi”. Alberico Sala, sul Corriere, sottolineava il “largo e ben quotato interesse” di cui l’artista godeva “specialmente all’estero”, mentre Vanni Bramanti, sull’Unità (!), riconosceva i meriti e il valore della mostra, evidenziando che “in qualche modo Gnoli ha rappresentato e rappresenta un mito: la sua personalità appartata, una produzione abbastanza rara e spesso di difficile accesso, ed infine e non da ultimo una più che ragguardevole fortuna di mercato (i suoi non molti quadri, infatti, hanno raggiunto valutazioni di assoluta eccellenza), tutti questi fattori hanno cooperato a circondare il nome e l’opera di Gnoli di un alone di mistero”.

L’alone iniziava effettivamente a diradarsi, mentre i nuovi capitali e il ritorno prepotente della pittura assicuravano nuova attualità ai quadri di Gnoli. Subito a ridosso degli eventi approdarono in libreria, anticipate da due articoli apparsi su FMR, le cinquemila copie numerate della lussuosissima – centocinquantamila lire dell’Ottantatré che quasi fanno dimenticare i novanta euro del catalogo Prada – monografia edita da Franco Maria Ricci, stampata su carta azzurra e rilegata in seta nera, come tutti i volumi de I Segni dell’Uomo. Sino a quel momento, la monografia in collana era stata riservata soltanto a pochi eletti, tutte figure eccentriche e legate a un gusto angolato, anticanonico, inevitabilmente snob: Antonio Ligabue (1967), Erté (1970), Lewis Carroll fotografo (1974), Morris Hirshfield (1975), Tamara de Lempicka (1977), Arcimboldo (1978), Alberto Savinio (1979). Le tante tavole staccate del volume – curato da Sgarbi e introdotto da un testo di Calvino, ora riproposto nel catalogo Prada – si impressero inevitabilmente nel repertorio visivo condiviso della clientela di Ricci, un pubblico ben diverso da quello che dieci anni prima aveva acquistato la monografia Fabbri. Delle ottantaquattro mostre elencate in appendice al volume soltanto venti si erano svolte in Italia; di queste, soltanto otto erano personali; dei duecentoquindici dipinti catalogati, soltanto ventotto si trovavano in Italia; di questi, ben ventuno erano detenuti da una collezione privata romana non specificata, presumibilmente quella degli eredi; gli altri sette se li spartivano Roloff Beny, Vittorio Crainz, Giuliano Gori, lo stesso Franco Maria Ricci e un anonimo torinese: il collezionismo italiano di Gnoli era ancora tutto da costruire.
Nell’Ottantacinque – mentre Sgarbi curava il catalogo dell’opera grafica e il Festival dei due Mondi di Spoleto allestiva una rassegna incentrata sull’attività scenotecnica – il PAC di Milano ospitò ancora un’altra retrospettiva, curata questa volta da Mario Quesada. Due anni dopo fu finalmente la volta del riconoscimento più alto all’interno del sistema espositivo nazionale, una retrospettiva alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna che all’epoca non possedeva “né un disegno né una pittura di Gnoli”. La lacuna, evidenziata in catalogo, fu subito colmata dalla sorella dell’artista che depositò al museo Brick Wall (1968, ora collezione privata, Berlino) e Green Bedcover (1969, ora collezione Prada). Gnoli entrò così, almeno temporaneamente, anche nella più importante tra le collezioni pubbliche di arte contemporanea italiane, in attesa di un acquisto statale che si sarebbe concretizzato soltanto nel 2003, con l’aggiudicazione in asta di White Bed (1968), ora nelle collezioni del MAXXI. Ormai il ritardo patrio rispetto al dibattito estero era stato ampiamente colmato e, anzi, superato: pochi artisti avevano ricevuto nell’Italia degli anni Ottanta una simile attenzione, sia critica, sia espositiva. Gnoli era stato il pittore perfetto per il decennio.

Gli anni Novanta segnarono l’ingresso definitivo dell’artista nel canone della pittura italiana del Novecento, operazione affatto scontata soltanto un quindicennio prima, grazie soprattutto alle monumentali rassegne celantiane: Italian Art in the 20th Century (Royal Academy of Arts, 1989), Roma-New York 1948-1964 (The Murray and Isabella Rayburn Foundation, 1993) e, soprattutto, The Italian Metamorphosis, 1943-1968 (Solomon R. Guggenheim Museum, 1994). A reintrodurre le immagini di Gnoli nel panorama visivo italiano contribuirono anche le copertine Adelphi, con The Curl (1969) che fissò visivamente Un dramma borghese di Guido Morselli (1992) e la Pointed Shoes (1969)impressa sulla copertina turchese di Un tè e quattro chiacchiere di Christina Stead (1994), anticipazione delle due versioni recenti dell’Adalgisa: con Green Bust (1969) nel 2012, con Red Dress Collar (1969) nel 2014. Proprio le due copertine gaddiane sembrano rappresentare il contributo più recente alla diffusione e alla popolarizzazione dei quadri di Gnoli. Gli anni Duemila, infatti, segnano ancora una volta un deciso intiepidirsi dell’attenzione italiana verso l’artista, testimoniata dal drastico rarefarsi delle occasioni espositive monografiche: a Modena nel 2001 per le cure attente di Walter Guadagnini, al Pecci di Prato nel 2004 a cura di Stefano Pezzato e Daniel Soutif. Se si esclude la presentazione di disegni per il teatro allestita a Spoleto nel 2017, erano sedici anni che in Italia non veniva montata una mostra personale di Domenico Gnoli.
Tutta una generazione, dunque – escludendo quelli che hanno avuto la fortuna di incappare nella bella saletta monografica allestita qualche anno fa da Luca Massimo Barbero in Imagine – si confronta oggi per la prima volta con una raccolta impressionante di questi quadroni ormai costosissimi, status symbol già un trentennio fa quando Miuccia Prada aveva appena preso le redini dell’azienda di famiglia. È proprio quella la generazione che adesso posta su Instagram le foto della Fondazione, mischiate nel feed a quelle di Painting is Back alle Gallerie d’Italia o ai dettagli smaltati delle tele di Salvo, assicurando una nuova popolarità e un inedito valore di attualità ai dettagli gessosi di Gnoli. A giustificare le code a Largo Isarco non basta la retorica del dettaglio instagrammabile, non basta l’attrattiva degli spazi, non basta la FOMO post-pandemica, non basta certo il ritorno di interesse per la pittura. Deve trattarsi di qualcosa di più profondo. I nuovi Ottanta?