Gnoli, la magia della presenza

Domenico Gnoli, cui la Fondazione Prada dedica una mostra fino al 27 febbraio, è figura che tende a sfuggire a una precisa identificazione nel panorama artistico del suo tempo. Le sue opere suscitano infatti rimandi a movimenti o artisti, da Gnoli stesso riconosciuti come ‘debiti’, senza che tuttavia in quei riferimenti si esaurisca il mistero dei dettagli che invadono le sue tele dipinte: oggetti, mobili, indumenti, nuche, ciocche di capelli. Gnoli chiarisce il suo approccio al mondo: «Non voglio aggiungere o sottrarre nulla. Non ho neppure avuto mai voglia di deformare, io isolo e rappresento [..] dal momento che non intervengo mai attivamente contro l’oggetto, posso avvertire la magia della sua presenza»[1].

Una produzione che riguarda solo gli ultimi anni della sua attività, dal 1963-64 alla scomparsa prematura nel 1970, e che si sovrappone, fino a poi prevalere, a quella da lui condotta come grafico e scenografo già negli anni Cinquanta, anch’essa ben presente nella mostra milanese, voluta e pensata da Germano Celant.

Veduta della mostra Domenico Gnoli, Fondazione Prada, Milano, photo: Roberto Marossi courtesy: Fondazione Prada

La «realtà ci si propone imperterrita e intatta – afferma Gnoli – L’oggetto comune, isolato dal suo abituale contesto, ci appare come il testimone più eloquente di questa nostra solitudine senza più ricorso a ideologie e certezze»[2]. Il suo commento si cala in un decennio in cui l’attenzione agli oggetti permeava la cultura e l’arte (soprattutto la pop art, e infatti Gnoli diceva che era grazie ad essa che ci si era accorti della sua pittura) e in cui Georges Perec scriveva il romanzo Le cose (1965). Certo, le cose che Jérôme e Sophie desiderano possedere spasmodicamente nella società dei consumi sono molto diverse da quelle scelte nell’intimità domestica da Gnoli, con talvolta sagome di figure sotto le coperte. Ad accomunare però artista e scrittore c’è l’attenzione spasmodica al dettaglio, che Perec spiegava aver mutuato da Gustave Flaubert, di cui ammirava la «tensione tra lirismo quasi epilettico e disciplina rigorosa», e «freddezza appassionata»[3]. Quell’ossimoro – freddezza appassionata – ‘funziona’ anche per Gnoli, perché il suo dettaglio ci coinvolge, ci risucchia, pur senza voler rimandare a null’altro significato, diversamente da quanto avviene nelle tele di Magritte o di De Chirico. Oggetti, frutti, capigliature sono resi astratte dalla visione ravvicinata, tanto da apparirci quasi indecifrabili, pur nella loro forma iperrealista.

Domenico Gnoli, Vestito verde (particolare), 1967, collezione privata, courtesy Luxembourg + Co © Domenico Gnoli

«Ho abolito la decorazione, ho affidato alla materia dipinta il ruolo di trompe-l’oeil» scriveva Gnoli alla madre: in mostra da Prada, infatti, le due attività sono presentate su piani diversi, sebbene poi ci sia qualche mescolanza. Tra i disegni appare infatti esposto ogni tanto un dipinto di minori dimensioni, dove è ancora qualche soffio di surrealismo, ma che ci permette di cogliere, al tempo stesso, il palesarsi nella grafica della tendenza ad una sospensione astraente. L’intento di Gnoli non è dunque lo sconfinamento nel surreale: certo è innegabile lo spaesamento generato da quei dettagli isolati dal loro contesto, quali la tasca dei pantaloni, la scriminatura dei capelli, i bottoni del colletto della camicia, ma ciò che predomina è la volontà di mutismo. «Sono metafisico nella misura di una pittura ‘non eloquente’ e di atmosfera che si nutre di situazioni statiche», scrive Gnoli, «non sono metafisico perché non ho mai cercato di mettere in scena, di fabbricare un’immagine»[4]. Nulla toglie infatti alla nostra fantasia di cercare di andare oltre quei colletti, quelle scarpe col tacco o di attribuire un fascino feticista a quel ricciolo di capelli, ma non è Gnoli a spingerci a farlo, siamo noi a scegliere quella via.

Vilhelm Hammershøi, Interior with Young Woman from Behind, 1904

Alcune suggestioni visive affiorano in modo disordinato dal grande ‘serbatoio’ di immagini che ciascuno di noi si porta dietro, spinti dal vizio dell’associazione che spesso ci pervade: per me sono i dettagli di tavole ricoperte da una tovaglia bianca o di sofà, tagliati dalla inquadratura di una porta o di un corridoio nelle case silenti, dipinte, sullo scorcio del XX secolo, da Vilhelm Hammershøi, ma anche le sue donne sempre ritratte di schiena, concentrandosi sulla nuca, sulle spalle.

Vilhelm Hammershøi, Interior with a Bust

Come sottolineato da Naoki Sato nel catalogo di una mostra dedicata all’artista danese nel 2008, la particolarità di Hammershøi è di ritrarre il quotidiano senza far ricorso alla narrazione. Egli guarda infatti alla tradizione della pittura olandese di interni, ma ritaglia, evidenzia, non mostra volti, in modo tale da sfrondare – siamo alla vigilia delle avanguardie storiche – ogni aspetto decorativo e da interrompere qualsiasi riferimento a un racconto[5]. Riguardo alle figure colte di spalle, in una lettera scritta alla madre, Gnoli rivendica come peculiare della propria ricerca il ribaltamento rispetto alla ritrattistica convenzionale: «Perché, mi sono chiesto si dipingono le montagne viste da ogni angolo come le case, i fiori, gli animali, gli alberi: tutto. Gli uomini e le donne no, fanno eccezione e si dipingono solo di faccia, di tre quarti o di profilo. Perché?»[6]  

Frame tratto da Vertigo di Alfred Hitchcock, 1958

La concentrazione sulle nuche, sui capelli raccolti in una crocchia, richiama un maestro di quel tipo di inquadratura, ma questa volta cinematografica, negli anni Cinquanta: penso infatti allo chignon di Kim Novak in Vertigo (1958) nella scena in cui contempla al museo il ritratto di un’antenata, ma anche alla nuca di Eve Marie Saint, in North by northwest (1959). Spunti che Hitchcock poteva cogliere da pittori quali Magritte (Le viol, 1945) data la sua consuetudine con i surrealisti – testimoniata dalla scenografia di Salvador Dalì per Spellbound (1944) – ma che risentivano anche della cultura optical, nel conferire al ‘vortice’ di quello chignon un aspetto astraente analogo a quello del manifesto di Vertigo, disegnato da Saul Bass. In un geniale omaggio a Hitchcock in Histoire(s) du cinéma (1988), Jean-Luc Godard evidenzia il ruolo che gli oggetti rivestono nei suoi film, tanto da acquistare una potenza superiore a quella di oggetti raffigurati da un pur grande maestro della natura morta, Paul Cézanne. Dei film di Hitchcock, nota Godard, possiamo dimenticare forse le ragioni per cui certe azioni si svolgono, ma non gli oggetti, che assorbono in sé l’intero significato espresso dalla pellicola, e in questo senso Hitchcock riuscì «dove fallirono Alessandro e Giulio Cesare: avere il controllo dell’universo». E ciò avviene non tanto perché gli oggetti raffigurati da Cézanne, Van Gogh, Morandi non siano «concentrati del mondo» in quanto coagulo di valori plastici e significati simbolici – per citare l’espressione di Michel Maffesoli sulla natura morta -, ma perché il regista inglese, ancor più di quei grandi artisti, riesce a sottrarre l’oggetto al pathos melodrammatico della narrazione situandolo, nota Costa, «su un piano assoluto che coinvolga a un tempo la dimensione sensoriale e quella conoscitiva»[7].


Veduta della mostra Domenico Gnoli, Fondazione Prada, Milano, photo: Roberto Marossi courtesy: Fondazione Prada

Divagare su Gnoli è però difficile dopo aver letto l’acutissima ed esaustiva analisi di Salvatore Settis nel saggio del catalogo che accompagna la mostra. Settis sottolinea come l’aspirazione espressa da Gnoli di collocare il proprio lavoro, in un momento di antipittura, «in quella tradizione ‘non eloquente’ nata in Italia nel Quattrocento e arrivata fino a noi passando da ultimo, dalla scuola metafisica»[8], abbia chiara origine nelle parole scelte da Bernard Berenson, in un saggio del 1950, per descrivere la pittura di Piero della Francesca, a sua volta riecheggiando la lettura che Roberto Longhi aveva dato di Piero. Dai miei studi universitari, ricordo che lo stesso Longhi definiva la prima versione del Piero della Francesca, del 1927, molto ‘collet monté’; non ne ritrovo più la fonte, ma l’espressione mi pare stesse a indicare la consapevolezza di Longhi di aver ‘forzato’ la lettura dello stile di Piero in senso particolarmente sintetico e astraente, al punto da far credere di trovarsi di fronte a un’opera novecentesca. Un’interpretazione del Quattrocento, calata negli anni del cosiddetto «ritorno all’ordine», ma che – mi vien da dire – era già presente mezzo secolo prima, nei quadri di alcuni tra i macchiaioli toscani intorno al 1860, i quali, proprio rifacendosi al Quattrocento, avevano scelto una via ‘non eloquente’.

Giuseppe Abbati, Chiostro, 1861

Nelle loro tavolette, infatti, il racconto aveva ruolo del tutto secondario, se non assente, rispetto all’evidenza silente dei muri delle case in Tetti al sole (1861) di Raffello Sernesi, dei massi tagliati nel corso del restauro di Santa Croce in Chiostro (1861) di Giuseppe Abbati (con la figurina colta di schiena seduta sul muretto) e perfino delle nuche delle donne sedute all’ombra de La Rotonda Palmieri (1866) di Giovanni Fattori, ridotte a incastro di tarsie cromatiche. Opere prive di qualsiasi amplificazione retorica, proprio quel che Berenson (e prima di lui Longhi), avrebbero evidenziato nell’arte di Piero. Così, tornando a Piero e alla sua non eloquenza, potrò allora notare anche una certa analogia tra le opere di Gnoli e l’ Annunciata di Antonello da Messina, specie nella resa geometrica di quel velo con la piega ancora netta nel mezzo, ricordando quanto Longhi supponesse, proprio per il dipinto di palazzo Abatellis, una diretta discendenza dagli affreschi con le Storie della Vera Croce di Arezzo.

Antonello d Messina, L’Annunciata, 1476

Cresciuto in una casa di storici dell’arte – il nonno Domenico aveva fondato «Archivio storico dell’arte» nel 1888, era amico di Adolfo Venturi e maestro di Umberto, padre di Domenico – Gnoli poteva aver ben chiari questi riferimenti, così come la concentrazione sul dettaglio che permette di ricostruire mentalmente il tutto, lanciata nel corso dell’Ottocento da Giovanni Morelli e Giovanni Battista Cavalcaselle. Metodo ben accolto da Longhi nelle sue attribuzioni che fecero capire a Pier Paolo Pasolini, nella sala buia delle lezioni universitarie dove Longhi proiettava le diapositive dei suoi dettagli (il famoso “francobollo longhiano”), cosa fosse il cinema. Settis osserva tuttavia che Gnoli doveva ben sapere quanto la ‘pittura di storia’ ritenuta, fin da Leon Battista Alberti nel 1435, la più nobile per un artista, implicasse – anche per la pittura più statica – la narrazione. Gnoli, pur riferendosi dunque a quella tradizione così amata, di pittura ‘non eloquente’, la capovolge, rinunciando del tutto alla decorazione necessaria al racconto, al superfluo, per concentrarsi solo sul potenziale iconico dell’oggetto ritratto[9], giungendo a guardare alla realtà come fosse «un’astrazione totale»[10].

Domenico Gnoli, Capigliatura femminile, Riga in mezzo n.1, 1965, Collezione Prada, Milano © Domenico Gnoli

Ogni dettaglio autoreferenziale si incorona, dunque, di un’aura ipnotica, sospesa, che spiazza lo spettatore, lo frustra e lo avvolge a un tempo, quasi la freddezza appassionata che Perec riconosceva a Flaubert, proprio colui al quale è sovente attribuita (ma forse erroneamente) la frase «Dieu est dans le détail» che poi diventerà il «buon Dio si nasconde nei dettagli» di Aby Warburg. Oltre a Perec, l’altro scrittore spesso inevitabilmente citato per Gnoli è Italo Calvino, del quale Gnoli aveva illustrato nel 1957 Il barone rampante. Perec e Calvino sono accomunati dalla partecipazione al gruppo dell’Oulipo e qui rimando, ma senza soffermarmi, al paragone che Settis compie tra le sperimentazioni di Perec ne La disparition (1969) – dove non usa mai la vocale e -, con la scelta di Gnoli di escludere ogni contesto in cui sia calato l’oggetto. Tornando tuttavia a Calvino, egli coglie la forza degli ‘oggetti paesaggio’ di Gnoli, scrivendone una sorta di visionaria biografia[11]. E li avrà anche ben presenti nel trattare l’Esattezza nelle sue Lezioni americane: «Alle volte cerco di concentrarmi sulla storia che vorrei scrivere e m’accorgo che quello che m’interessa è altra cosa, ossia, non una cosa precisa ma tutto ciò che resta escluso dalla cosa che dovrei scrivere; il rapporto tra quell’argomento determinato e tutte le sue possibili varianti e alternative, tutti gli avvenimenti che il tempo e lo spazio possono contenere. È un’ossessione divorante, distruggitrice, che basta a bloccarmi. Per combatterla, cerco di limitare il campo di quel che devo dire, poi a dividerlo in campi ancor più limitati, poi a suddividerli ancora, e così via. E allora mi prende un’altra vertigine, quella del dettaglio, del dettaglio, del dettaglio, vengo risucchiato dall’infinitesimo, dall’infinitamente piccolo, come prima mi disperdevo nell’infinitamente vasto»[12].

Il rapporto con l’oggetto contemplato nella sua esattezza e nel suo isolamento desta quindi vertigine, angoscia. Lo stesso Gnoli, in uno scritto del 1968, annuncia di voler compiere un passo avanti, una svolta che però non ci è nota, data la morte un anno e mezzo dopo. E descrive la sua condizione: quel dipingere un muro «in modo molto realistico», tanto da poter contare i mattoni, lo porta ad accorgersi che, più si riduce la distanza dall’oggetti «più vai avanti diventa sempre meno possibile riconoscere la casa… È un vero Picasso adesso : le linee invadono tutta la fottuta tela , non è più realistico, sto impazzendo, capisci? [..] Cominci a guardare le cose e sembrano normalissime, come sempre; ma poi le guardi ancora per un po’ e vengono coinvolti tutti i tuoi sentimenti, e questi cominciano a cambiare le cose, vanno avanti finché non vedi più la casa, vedi solo loro»[13]. Il rischio del sentimento dunque esiste, ed è rovinoso, e pare quasi di vedere la tela di Frenohfer, mostrata agli amici alla fine del Capolavoro sconosciuto di Balzac (1831): non più il ritratto di una bellissima creatura, tenuto a lungo celato agli amici nel corso della sofferta gestazione dell’opera, ma solo un groviglio di linee, da cui emerge purissimo il dettaglio del piede, che appare come il torso di una Venere in marmo di Paros affiorante dalle rovine di una città incendiata. Le tele di Gnoli non saranno mai groviglio, ma egli avverte tuttavia il pericolo che si cela in ogni ossessione.

La mostra di Domenico Gnoli oggi ha, per altri motivi, una sua attualità. Le sue opere infatti non le guarderemo più come legate a quella stagione di feticismo psicanalitico intorno all’oggetto e neppure all’interesse suscitato dagli oggetti negli anni del boom economico; né potranno essere il confortante e raffinato campionario da coffee table book delle case perbene, come fu il volume edito da Franco Maria Ricci nel 1983, con introduzione di Calvino e testo di Vittorio Sgarbi, in sintonia  con la raffinatezza degli abiti e degli arredi di Giorgio Armani degli stessi anni. Potremo invece vedere, nella mostra pensata da Celant, il rimando anche a un’attenzione contemporanea in cui lo sguardo si va spostando dalla figura umana, ritenuta predominare ‘colpevolmente’ le sorti del pianeta, verso tutto quanto la circonda ed è stato, dalle azioni umane, condizionato: la vita delle piante e dei diversi componenti della terra, la vita degli animali, la vita delle cose. Vita. Perché anche le cose non sono inanimate, hanno un loro potere attivo, una loro agency sulla nostra esistenza, perché le forme che noi diamo agli oggetti – o che crediamo di dare ad essi – sono anche frutto di quello che il materiale in cui sono realizzate ci impone. Gli oggetti insomma non sono più considerati nel loro statuto marxiano di merce, ma sono innanzitutto attori/attrici, con una loro esistenza che non possiamo trascurare, come d’altronde la lunga tradizione del genere della natura morta, pur ritenuto inferiore ad altri, conferma[14]. Titolo del libro di Remo Bodei, è infatti proprio La vita delle cose (2009) nel quale il filosofo teorizza il passaggio di stato dall’oggetto, legato a una precisa funzione, all’essere cosa, la cui etimologia ha a che vedere con ‘causa’.

Veduta della mostra Domenico Gnoli, Fondazione Prada, Milano. photo: Roberto Marossi courtesy: Fondazione Prada

L’attenzione ossessiva e spasmodica al dettaglio, la «freddezza appassionata» rimanda allora ancora una volta a Alfred Hitchcock, regista quindi degli anni in cui Gnoli si era formato (ma chissà se mai lo abbia interessato), e ancor più che a lui, alla lettura che nel 2010 Don De Lillo fa dell’opera di Douglas Gordon 24hour Psycho (1995) nel breve romanzo Point Omega (2010) dove il film di Hitchcock, grazie a un intervento di postproduzione, è dilatato nell’arco di 24 ore, sottraendone l’audio. Douglas Gordon fa così emergere in quella videoinstallazione esattamente ciò che Godard notava nei film di Hitchcock: la forza del dettaglio, astratto dal contesto, ma per questo ben più eloquente. De Lillo traduce l’impatto di quell’impresa, apparentemente minima, nelle reazioni che suscita nel visitatore della galleria dove l’opera è proiettata. Dopo aver fissato l’attenzione su oggetti che finalmente, astratti dalla narrazione, si impongono al nostro sguardo – gli anelli della doccia, la vestaglia posata sul water, il coltello – il personaggio di Point Omega realizza che «ci vuole un’attenzione estrema per vedere cosa succede davanti a te. Ci vuole impegno, pio sforzo, per vedere cosa stai guardando. Era incantato da tutto questo, dalle profondità che si schiudevano nel movimento rallentato, le cose che c’erano da vedere, le profondità delle cose che così facilmente vanno perse nella superficiale abitudine a vedere»[15]. Ma questa profondità del vedere genera isolamento. Quello della condizione in cui si sentiva calato Gnoli, indicando l’oggetto come testimone di quella, già citata, « nostra solitudine senza più ricorso a ideologie e certezze», è in fondo la stessa del protagonista del romanzo di De Lillo, il quale soffre nel constatare la poca sensibilità di altri visitatori a ciò che lui ‘vede’.

L’opera di Gnoli sembra collocarsi quindi proprio sul sottile crinale tra la concentrazione sull’oggetto e il suo perdersi nel «mare dell’oggettività » che tutto omologa e confonde, come era stata definita la società da Calvino già in uno scritto del 1960. Ma può anche raccogliere l’attenzione di chi, oggi, rifiuta il suffisso ‘morta’ per la natura (punto di partenza della grande mostra in programmazione al Louvre su quel tema per l’ottobre 2022), e rivendica invece agli oggetti la stessa forza iconica e di azione esercitata dagli esseri viventi. Una forza che l’allestimento della mostra alla Fondazione Prada, accentuando il carattere monumentale delle tele di Gnoli, esalta. Ogni opera è d’altronde un contenitore nel quale ciascuno di noi può riversare i propri pensieri. Cosa vogliano poi quelle immagini, parafrasando Mitchell, non è dato saperlo[16].

In copertina: Domenico Gnoli, Mela, 1968, Courtesy of Sa Bassa Blanca Museum, Yannick and Ben Jakober Foundation © Domenico Gnoli


[1] J.L. Daval, En marge d’une exposition. Les objets ont un pouvoir secret. Deux peintres italiens d’aujourd’hui, in «Le Journal de Genève», Ginevra, 5 giugno 1965. Cfr. «Journal de Genève», www.letempsarchives.ch..

[2] D. Gnoli, in Premio Marzotto. Mostra di Pittura contemporanea comunità europea. La città attuale: immagini e oggetti. catalogo della mostra, (Valdagno, settembre 1966-agosto 1967) Valdagno, Segreteria generale del Premio Marzotto, 1966, pp. 191-194.

[3] G. Perec, Prestiti da Flaubert, in «L’arc» 1980, citato da Andrea Canobbio nella prefazione a Le cose, Torino, Einaudi, 2011 , p. XIX.

[4] J.L. Daval, En marge d’une exposition cit.

[5] N. Sako, «The Quotidian View without Narrative», in Hammershøi, catalogo della mostra (Londra, Royal Academy of Arts, 30 settembre-7 dicembre 2008) , a cura di F. Krämer, N. Sako, A.B. Fonsamark, Londra, Royal Academy of Arts 2008, pp. 38-45.

[6] Lettere di Domenico Gnoli alla madre, maggio, inizio giugno 1963. Cit. in Settis, Domenico Gnoli: racconti e dettagli, in Domenico Gnoli, catalogo della mostra (Milano Fondazione Prada, 28 ottobre 2021-27 febbraio 2022), Milano, Fondazione Prada, 2021, pp. 377-381: p.391, nota 9.

[7] A. Costa, La mela di Cézanne e l’accendino di Hitchcock. Il senso delle cose nei film, Torino, Giulio Einaudi 2014, p. 9.

[8] D. Gnoli, in Premio Marzotto. cit.

[9] S. Settis, op cit., p.379.

[10] G. Celant, «Total freedom: Italian art 1943-1968», in The Italian Metamorphosis, 1943-1968, catalogo della mostra, (New York, Guggenheim Museum 7 ottobre 1994 -22 gennaio 1995), New York, Guggenheim Museum Publications 1994, pp. 4-18, p. 15. “In

[11] cfr. I. Calvino, Domenico Gnoli, Il pittore dell’assenza, «FMR», 23, 2004.163, pp. 51-60. Calvino aveva già scritto su Gnoli in Still life alla maniera di Domenico Gnoli, «FMR» 2, 1983, 13, pp. 35-44.

[12] I. Calvino, Lezioni americane, Milano, Garzanti, 1988, pp. 67-68.

[13] D. Gnoli, «Lo chiameresti surreale»? testo della fine del 1968 in Lettere e scritti, Milano, Abscondita, 2004,pp. 107-108.

[14] Mi riferisco in particolare ai testi di Alfred Gell, Philippe Descola, Laurence Betrand Dorléac, Bruno Latour.

[15] D.De Lillo, Punto Omega, traduzione di Federica Aceto, Torino, Einaudi, 2010, p. 15.

[16] W. J.T. Mitchell, What do the pictures want?: the lives and loves of images, Chicago University Press, Chicago, 2005.

Insegna Fenomenologia delle Arti Contemporanee all'Accademia di Belle Arti di Brera. Si è occupata di argomenti di arte e di critica d’arte dal XIX secolo ad oggi (con particolare attenzione all’arte dell’età unitaria, al simbolismo tra Francia e Italia, all’Orientalismo e ai rapporti tra parola e immagine), pubblicando saggi e monografie e collaborando a diverse mostre. Membro della SISCA (Società Italiana di Storia della Critica d’Arte), scrive da molti anni per il mensile “Il Giornale dell’arte” (Allemandi). Tra le sue ultime pubblicazioni “Un sogno fatto a Milano, Dialoghi con Orhan Pamuk intorno alla poetica del museo”, Johan&Levi, Milano 2018; “The gentle art of fake. Arti, teorie e dibattiti sul falso”, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2019.

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