“Odio e disprezzo tutti gli storici dell’arte, gli esperti e i critici.
Sono una massa di parassiti che si nutrono del corpo dell’arte.
Non solo ciò che fanno è inutile, è anche un inganno.
Sull’arte e sugli artisti non dicono niente che valga la pena di ascoltare, a parte i pettegolezzi –
quelli sì che a volte sono interessanti.”
Rothko
Allo snodo cruciale fra Sette e Ottocento, quando all’età delle Credenze subentra quella delle Opinioni, più o meno in contemporanea nascono quella branca della filosofia che prova a far sistema di gusti e predilezioni estetiche, e quel sottogenere di romanzo di formazione che i Tedeschi, nel brevettarlo, chiamano «Kunstler-roman». Al suo esordio il giovane Herbert Marcuse vi dedica un saggio memorabile, Il «romanzo dell’artista» nella letteratura tedesca: che dallo Sturm und Drang, come recita il sottotitolo, arriva sino a Thomas Mann (in quel 1922 ben lontano dall’aver scritto il suo addendo più ambizioso, Doktor Faustus). In questa episteme relativamente compatta, a loro volta, le coordinate del genere sono abbastanza costanti: quella dell’artista è quintessenziale della formazione di ogni altro personaggio in quanto, nella sua ricerca di un linguaggio forte e originale, è metafora dal valore autobiografico – in misura più o meno scoperta – di quella dell’altro artista che firma il testo in copertina. Sebbene nella patria del genere sia la musica il campo altro al quale gli scrittori guardano di preferenza (con la secolare «invidia» da loro provata per l’arte sorella), il sotto-sotto-genere più significativo è forse quello, invece, in cui l’avatar di chi scrive è un artista visivo: forse perché il pittore inscena un corpo a corpo fisico, con la materia, che più plasticamente, è il caso di dire, allude all’investimento esistenziale, e a tratti scopertamente sensuale, alla questione di vita o di morte insomma, che l’agone artistico simboleggia.
In questa storia avvincente, una svolta abbastanza precisa si può collocare al successivo tornante epistemologico: tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del secolo seguente. Quando Émile Zola pubblica nel 1886 L’Opera – che adombra la modernità degli impressionisti già suoi compagnons de route, e in particolare dell’amico Cézanne: il quale assai se ne adonta e gli toglie il saluto – quello del Kunstler non è più un agone trionfale, non segna più il prevalere del Genio sulla Materia; viceversa è un apologo sulle Illusioni Perdute che ci portano a cimentarci con compiti più grandi di noi (Opere con la «O» maiuscola) e si risolvono nella cronistoria di una nevrosi, nello scacco definitivo delle nostre ambizioni più proterve. Il pittore Claude Lantier si separa anche dalla sua vestale, Christine, per rinchiudersi in un capannone dove ha messo mano all’Opera Definitiva, quella che ha per (ironico) titolo Plen Air, che alla fine lascerà incompiuta: impiccandosi davanti a quell’accusa tanto muta quanto implacabile. Zola radicalizzava così quanto era ancora in parte implicito nel capostipite del Kunstler-roman catastrofico, Il capolavoro sconosciuto di Balzac (1831): nel quale l’Opera audacissima (da quel che se ne capisce, un tour de force di espressionismo astratto avanti lettera), La bella scontrosa (titolo che evidenzia il sottinteso erotico dell’Agone artistico), viene bruciata dal Genio di turno, Frenhofer, che perisce tra le fiamme del suo atelier. È quanto mai significativo che in una versione preliminare del racconto Balzac avesse fatto del suo Artista un Genio, seppur sconfitto; mentre in quella pubblicata in volume diventa esplicitamente un Pazzo.
È Zola però, con la sua acutissima percezione dei rapporti di forza economici, ad annunciare davvero la “svolta” che nel Novecento vedrà impossibile riproporre lo schema del Kunstler-roman che tanto aveva furoreggiato nel secolo precedente. Alla sua altezza non si chiama ancora tale, infatti, ma sta ormai avviandosi a diventare quello che dagli anni Settanta verrà definito «sistema dell’arte», quel circuito essenzialmente economico, per non dire finanziario, che rende sempre più inattuale l’Agone romantico della tradizione: non è più credibile rappresentare il Titano isolato e demiurgico, se non nel contesto dei condizionamenti strutturali che ingabbiano, condizionano e mettono a frutto i suoi slanci prometeici. Nel suo ultimo romanzo, The Outcry (1911; da noi tradotto ora come La protesta ora come Indignazione), il sempre modernissimo Henry James – che già aveva pagato il suo tributo al “genere” classico con quella riscrittura al solito cerebrale del Capolavoro sconosciuto che è La Madonna del futuro (1873) – reinscena la sua amata dialettica tra raffinatezza europea e vitalismo americano come scontro fra uno spregiudicato mercante “finanziario”, appunto d’oltre Atlantico, e uno spiantato quanto orgoglioso collezionista della vecchia Inghilterra. Il romanzo non è certo fra i suoi capolavori ma è James, probabilmente, il primo scrittore a intuire le dinamiche di superficie, nonché le pulsioni profonde, del «sistema dell’arte».
Ed è proprio seguendo questa strada “sociologica” che il nostro tempo, forse non del tutto a sorpresa, ha rispolverato il “genere”: lo ha messo a fuoco un buon libro recente di Filippo Milani, Il pittore come personaggio (Carocci 2021), che ha buon gioco a sottolineare come a partire almeno dagli anni Sessanta «la letteratura di argomento artistico debba fare i conti con un deciso mutamento nella fruizione sociale dell’arte, sulla quale incide la serializzazione nella produzione delle immagini […] e la massificazione dell’immaginario caratteristica del neocapitalismo»: per cui «la figura dell’artista non detiene più il privilegio romantico dell’unicità creativa». Sebbene si attardi a trattare residui del tradizionale biopic romantico – una Melania Mazzucco, per esempio, novella Anna Banti fuori tempo massimo –, Milani indica poi condivisibilmente nel Tiziano Scarpa del Brevetto del geco (Einaudi 2016) e nel Tommaso Pincio del Dono di saper vivere (ivi 2019) due esempi notevoli di Kunstler-roman 2.0 che, come il più recente Andrea Inglese della Vita adulta (Ponte alle Grazie 2021), con notevole conoscenza dei suoi meccanismi più o meno esibiti, calano i tormenti e le estasi dell’artista-personaggio nel percorso a trabocchetti, nella galleria di specchi deformanti che è il «sistema dell’arte» di oggi.
È eloquente che al suo libro d’esordio, i racconti pubblicati da Mondadori nel 2007 col fatico-intimidatorio-modaiolo titolo Dove credi di andare, uno scrittore tormentato e comunque tardivo quale si presentava Francesco Pecoraro, allora sessantaduenne esasperato architetto comunale, esplicitamente dedicasse due di quei sette episodi alla topica, in apparenza così desueta, dell’Artista Agonista. A segno dello status nel frattempo conseguito di quello che è tra i nostri maggiori narratori in attività – dopo il successo della Vita in tempo di pace (Ponte alle Grazie 2013) e dello Stradone (ivi 2019) – quel primo libro torna oggi in circolazione, più che raddoppiato, col nuovo e più appropriato titolo Camere e stanze: integrato di un racconto lungo nuovamente a tema “artistico”, Tecnica mista (già uscito come e-book nel 2014), e di altri quattordici racconti medio-brevi fra i quali si annoverano un paio dei testi più belli mai scritti da Pecoraro, Cormorani e North American P-51 Mustang, più l’hors d’œuvre non-narrativo Mi suicido per via dei miliardi di anni che potrebbe fare da sua ideale e complessiva sphraghìs autoriale. Peraltro quella del suicidio, come sanzione esplicita del cortocircuito di sfida e frustrazione implicato dall’Agone Moderno, figura anche tra le sorti dei Pittori di Pecoraro: in particolare dell’anonimo protagonista del penultimo racconto del 2007, Rosso Mafai, che proprio come il Lantier di Zola entra in tormentosa simbiosi con l’Opera – lui la chiama «il Progetto» – cui ha votato la sua esistenza, ancora una volta preferendola alla Donna sua rivale: «un numero imprecisato di tele rettangolari, tutte uguali, contenenti stesure complesse di colore». Sempre dello stesso colore, l’allusivo Rosso ripreso dal Mario Mafai del titolo, ma senza ispirarsi alla sua figurazione neo-espressionista: l’Opera è invece paragonata alla Serie Infinita, e minuziosamente astratta, del concettuale Roman Opalka; ma proprio l’Interminabilità del Progetto sconfigge il Pittore che si taglia le vene davanti alle sue tele tutte uguali, fallendo però anche nella Chiusura del Circolo che quel suicidio rappresenterebbe: «si riprese a tarda notte, ritrovandosi nudo e gelato nel proprio sangue rappreso, ma vivo».
La sorte scelta ma non conseguita da questo innominato avatar allude senz’altro a quella del Pittore che più spesso Pecoraro cita – assieme al nostrano Afro – come quello che maggiormente lo ha ossessionato, nella sua pluridecennale passione di amatore d’arte: Mark Rothko. Che si trovi in quest’area, inconcussa stella polare, il centro delle passioni più sanguinose di Pecoraro lo dimostra pure la frustrazione sottesa allo Stradone: macroscopico esercizio di action writing che si presenta – un po’ alla maniera di due testi di Thomas Bernhard, La fornace del 1970 e Cemento del 1982 – come quod superest del tentativo appunto frustrato di scrivere un saggio sulla pittura astratta (seguendo la filiera “germanica”, invece, i saggi interminabili di Bernhard riguardavano l’ascolto e la musica). Come annotava Cemento un giovane Luigi Reitani (nell’edizione SE 1990), «l’impossibilità di scrivere è la ragione stessa dello scrivere».
E che quel sangue gettato sul pavimento sia della stessa materia simbolica dei colori splendenti sulle tele dimostra quale sia il cortocircuito cui allude, da parte di Pecoraro, la sua ripresa della topica Agonistica sopra riassunta. Sin dal principio del suo percorso – sul perento blog «Tashtego» e sulle pagine di Questa e altre preistorie (2008) derivatene – questi indulge a presentarsi quale ultimo dinosauro, residuo fossile di un «moderno» morto e sepolto; e infatti a ossessionarlo è proprio la coincidenza fra Esistenza e Arte: ambizione che delle fra loro anche diversissime avanguardie storiche, appunto nella modernità “eroica” dei primi decenni del Novecento, fu il contrassegno più unificante. Il racconto più bello di Dove credi di andare, l’ultimo del libro del 2007, è Uno bravo: dove di nuovo appare un disegno minuziosamente astratto, quello che si tatua in faccia un protagonista destinato a pagare caro questo gesto di sfida, e che «si è cancellato per ricostruirsi sotto forma di decorazione, disegno, pura grafica. Da natura s’è fatto artificio». Non c’è nulla di naturale nella scrittura; nulla di gratuito, e dunque nulla di pacifico. Ogni vera scrittura, nei confronti del prossimo, è una provocazione. Un’aggiunta proditoria al reale: un’aggressione.
Dunque non si può dire (come ha fatto Roberto Pinto nel suo notevole saggio Artisti di carta, Postmedia Books 2016, che ha avuto il merito di attirare per primo l’attenzione sulla reviviscenza odierna del “genere”) che Pecoraro dia voce a un «romanticismo nostalgico», non esente da «rigidità» e da un «tono retorico e didascalico». Si potrebbe dire così se i suoi Agonisti si misurassero inattualmente nudi, soli ed eroici, alle prese unicamente con la resistenza della Materia: quando invece sono tutti ben consapevoli dell’assurdità sociale della propria posizione nel contesto dell’«opera d’arte nell’epoca del va bene tutto», come sintetizza la temperie odierna («nella contemporaneità, voglio dire: da almeno trent’anni a questa parte», cioè dal “sistematizzarsi” del laissez faire postmodernista) il protagonista-narratore dell’altro racconto “artistico” di Dove credi di andare, quello che ha per sintomatico titolo Il match. «È finito il tempo delle lotte tra schieramenti, delle avanguardie di giovani con lo scopo di insidiare quelli già affermati», lo sa benissimo; «oggi è un tutto contro tutto e tutti, ma è anche un chissenefrega e lascia vivere: è un telemarket globale». Ma il nostro Agonista, viceversa, si ostina a concepire l’arte come «una catena di scelte»: ciascuna affrontata appunto come un conflitto, un match, un Agone. Naturalmente, anzitutto con sé stesso; ma anche con il contesto del va bene tutto: «compito della pittura» è «aiutare nel lavoro di autodepurazione da eccesso di immagini, insomma da inquinamento visivo, e indurre uno stato sospensivo di silenzio interiore». Il protagonista del Match, svezzato a mele di Cézanne, si autodefinisce con sarcasmo «EEA», ovvero «Espressionista Astratto Attardato»; e proprio come il suo idolo Rothko progetta «una specie di spazio sacro, di cappella, di battistero medievale»: una «Radura di Poesia», come un po’ heideggerianamente si riferisce alla Chapel di Houston della quale Rothko, suicida nel febbraio del ’70, non poté vedere l’inaugurazione l’anno seguente. Anche l’EEA di Pecoraro finirà per autodistruttivamente confliggere con un tipico rappresentante del «sistema»: il gallerista che gli ha dato a disposizione uno «spazio sacro» perfetto, senza però fare i conti col perfezionismo maniacale del suo pugnace assistito.
Il testo nel quale più chiaramente viene in luce il cortocircuito (anche “politico”, certo, come ai tempi delle Avanguardie) fra Arte ed Esistenza è però il lungo (e forse, nella stesura, sin troppo brusco) Tecnica mista. Qui a parlare, rivolgendosi a un critico innominato, è Bilal, giovane pittore italo-anglo-libanese rinchiuso in un carcere speciale negli Stati Uniti dal quale racconta come da un’iniziale vocazione totalizzante alla pittura di paesaggio (il suo idolo è Claude Lorrain), parlare della quale lo commuove sino alle lacrime («si tratta della mia vita, dopotutto»), si fa prima – secondo un passaggio “storicamente” prevedibile, à la Francesco Arcangeli – a sua volta un EEA, che «ricalca sempre lo stesso quadro», e poi comincia a frequentare una moschea di Londra: adottando la dissimulazione onesta detta in arabo taqiyya si presenta integrato nella way of life occidentale, ma entra nei ranghi di una cellula di fondamentalisti islamici; e, anche se sa bene come quella lotta sia destinata alla sconfitta, contribuisce alla preparazione di un attacco suicida a un locale in Israele. Quando esplode il kamikaze da lui indottrinato Bilal, contravvenendo alle regole del suo gruppo, si reca sul luogo dell’attentato dove il locale si è «mescolato ai suoi clienti, disintegrandosi come per sposarne intimamente le carni fatte a brandelli»; lì all’improvviso capisce che, in quel momento e con quel gesto, le sue due vite si sono fuse in una: «quella era l’Opera, la mia Opera», quella in cui finalmente «coincidono totalmente l’arte con la vita» (così realizzando l’ideale di «non trasformarsi in arte, ma essere-arte»). Allora Bilal si china sulla pozza di sangue-Rothko versato, vi intinge l’indice, firma l’asfalto. L’episodio risale ai tardi anni Novanta; di lì a poco la logica dell’Opera trionfa con l’Undici Settembre, «un’opera apocalittica e insuperabile», e il testo si conclude così: «da allora, ogni volta che ci penso, mi inchino ai Maestri delle Altissime Torri».
Come dice Pinto, naturalmente Pecoraro da un lato allude alle famigerate frasi provocatorie di Karlheinz Stockhausen, all’indomani dell’attacco alle Torri, sulla loro qualità di performance artistica; ma anche all’uso narcisistico ed estetizzante, da parte dei terroristi della Jihad, di riprendersi in video mentre compiono i loro exploits più efferati. Eppure gli sfugge la dinamica Agonistica sottesa al racconto: la sola che possa spiegare la parabola, altrimenti incomprensibile, di Bilal. Quello col quale entra in conflitto, di una way of life occidentale che per il resto non gli causa alcun problema, è proprio il «sistema» altrove definito «epoca del va bene tutto», il susseguirsi imperturbabile e imperturbato di “mode” tutte fra loro equivalenti, tutte parimenti accettate e tutte allo stesso modo seducenti. Così che il suo linguaggio d’elezione (per cui, come da dogma rothkiano, «la pittura, prosciugata e ripulita da ogni scopo altro, diventa immediatamente scopo in sé e per sé, diventa figura di sé stessa, forma del colore e colore della forma») si diluisce, si inibisce, si perde: come sangue sul pavimento. «Mi distrassi, mi lasciai affascinare dal lavoro altrui, dall’effervescenza di quegli anni», confessa Bilal al suo muto interlocutore, «e persi la mia arte».
La sconfitta dell’Agonista consiste proprio nel distrarsi dal proprio Cimento, nel deflettere dalla sua passione feroce e totalizzante; l’unico modo per riconciliarsi con la sua vocazione è allora quello di disintegrarsi, proprio come un kamikaze, nella sua espressione artistica. Il vero Agone è allora da un lato col contesto (il sistema) del proprio tempo, e dall’altro con l’Angoscia dell’Influenza esercitata dalla Tradizione: entrambe forze che tentano in tutti i modi di distrarre, diluire, perdere l’Agonista. È stato proprio Harold Bloom, l’autore geniale dell’Angoscia dell’influenza (1973) che poi ha sin troppo banalizzato e a sua volta diluito la propria intransigente visione della letteratura, a definire Agone l’élan polemico che ogni artista autentico incarna col proprio tempo e coi propri torreggianti predecessori (Agone, proprio, s’intitola un suo libro del 1982 che meriterebbe una nuova traduzione dopo quella macchinosa, tre anni dopo, dell’editore Spirali), ma anche – com’è inevitabile che sia, in questa prospettiva – con quanti verranno dopo di lui.
Raccogliendo espressioni sparse di Rothko, nel breve quanto incalzante saggio Il colore del buio (il Mulino 2019) dedicato a presupposti e aporie del capolavoro terminale dell’artista, la già ricordata Chapel di Houston, Alessandro Carrera ha cucito un testo apocrifo che ha intitolato Parole di un irascibile e che potrebbe ben essere considerato il mantra di uno scrittore come Pecoraro: «L’apprezzamento dell’arte è un matrimonio di menti. E se il matrimonio non viene consumato, c’è ragione di annullamento. […] La mia contesa con il surrealismo e l’astrattismo è come un litigio con il padre e la madre. Riconosco l’inevitabilità delle mie radici così come le ragioni del mio dissenso. Io sono loro e completamente indipendente da loro. […] Non ho bisogno dei musei. Sono loro che hanno bisogno di me. […] Se incontrassi il mio successore, lo ucciderei».
L’«arte del risentimento», come Carrera definisce quella di Rothko, almeno temperalmente assomiglia da vicino a quella di Thomas Bernhard: che infatti finirà per mettere in scena a sua volta il proprio, iperbolico-parodico ma a ben vedere serissimo, Agone con la Tradizione: naturalmente in Antichi Maestri, il romanzo del 1985 (sottointitolato «Commedia») che ancora una volta, come in Cemento, mette in scena un musicologo, l’atrabiliare Reger, il quale però si “fissa” su un quadro del Tintoretto conservato al Kuntshistorisches Museum di Vienna, il cosiddetto Ritratto di uomo barbuto, condensando nell’ossessione per quest’opera tutta la sua devozione perversa, la sua aggressività, il suo Agone insomma, nei confronti della Pittura. Anche per Pecoraro, si capisce, quella della pittura finisce per essere una metafora prolungata del suo rapporto Agonistico con la tradizione letteraria (nel Match diventa esplicito il gesto del pittore «che tende automaticamente verso destra, come fosse scrittura, narrazione, capite?»).
Ambienti e situazioni del milieu artistico ricorrono anche in altri episodi di Camere e stanze, come il pittore di strada di Lenzuola fresche, improfumate, un quasi-barbone a sua volta fissato col «rosso-rosso e rosa e giallo e terra di Siena» che fa comunella coi poeti scoppiati dei rioni non ancora gentrificati di Roma, Amelia Rosselli e Gregory Corso, e autodefinisce la sua «arte da poveraccio, arte stracciona», in contrapposizione a quella intellettuale e in realtà d’alto bordo detta, ai suoi occhi incongruamente, «Arte Povera»; o come la protagonista di Antonella ti amo, anche lei un’outsider («viene da una famiglia di vecchi comunisti ormai del tutto spaesati e rincitrulliti») che solo per qualche tempo riesce a infiltrarsi nel mondo semi-lussuoso di una galleria antiquaria a Via Condotti. Ma a restare nella memoria sono i Racconti Agonistici il cui tema, dichiarato o meno, è invariabilmente il Conflitto: fra le generazioni (come nella visione infernale del primo e più articolato dei racconti, che dà il titolo a Camere e stanze) oppure, in senso diciamo fenomenologico, fra una coscienza organizzatrice e l’universo da interpretare (era questo il grande palinsesto della Vita in tempo di pace) oppure ancora, e appunto, quello fra l’Artista Agonista e gli Antichi, o meno Antichi, Maestri. Così si capiscono le intemerate di Mi suicido per via dei miliardi di anni, come «Mi suicido perché Maso di Banco ha steso colori inauditi. Mi suicido per quella Montagna che sorge dal mare nell’Apocalisse di Giusto dei Menabuoi, a Padova, di fronte alla quale stupisco e disprezzo me stesso. Se proprio devo dirla tutta, allora dico che una delle cause principali del mio suicidio sono certi quadri di Rothko, guardando i quali sono stato travolto dal piacere e dalla stupefazione, ma soprattutto dall’invidia del riuscire a essere artisti in quel modo».
Nel pezzo più riuscito del libro, North American P-51 Mustang, un bambino fissato col modellismo (come lo scrittore a venire idolatra della pura forma modernista del caccia Spitfire, certo, nella Vita in tempo di pace) riflette sul fatto che «è come se costruendo il modello, un po’ si impadronisse dell’originale, che pure da qualche parte esiste, o è esistito, come un’idea astratta, irraggiungibile nella sua bellezza e perfezione». Ma questa estetica platonico-classicistica incontra il suo limite alla fine del racconto: quando il bambino misteriosamente-oniricamente viene lasciato solo a casa, abbandonato dai Totem protettivi, e insieme autoritari, dei genitori. A quel punto piange, come farà Bilal ricordando la sua vocazione. Piange, affranto dalla perdita dei Modelli. Ma capisce pure che, da quel momento in avanti, dovrà cavarsela da solo.

Francesco Pecoraro
Camere e stanze
Ponte alle Grazie 2021, pp. 470, € 19
In copertina: Afro Basaldella, Senza titolo (Progetto per il Grande Rosso), 1963