SARA BENAGLIA e MAURO ZANCHI: Talvolta, passando da un linguaggio a un metalinguaggio, si innescano nuove interessanti questioni. Lei come ha lavorato attraverso il metalinguaggio, anche in relazione alla fotografia?
ANNA VALERIA BORSARI: Credo di aver operato in termini metalinguistici in particolare a partire dal 2003, quando ho avvertito la necessità di prendere un poco le distanze rispetto a varie operazioni artistiche ed anche a sempre più frequenti prassi della comunicazione. Questo è avvenuto in opere che fanno parte della serie “L’arte come cura del Mondo / Il Mondo come cura dell’Arte”, così ad esempio in Proposta abitativa (2003) – allestimento di un appartamento destinato a un futuro artista, realizzato nei normali spazi espositivi del Careof – nella zona salotto erano appese alle pareti ed incorniciate opere mie, di Fabio Mauri, di Giuseppe Chiari, come vi era un televisore acceso e sintonizzato su un canale RAI.
Per quanto riguarda invece l’uso della fotografia in senso stretto, negli anni Settanta quello che più mi interessava non era tanto un’indagine sulle potenzialità dello strumento, come è stato per grandi fotografi ed alcuni artisti concettuali proprio in quel periodo, ma piuttosto il suo utilizzo per evidenziare la relatività delle nostre percezioni: finalità da me perseguita in precedenza anche con strumenti diversi.

S.B. e M.Z.: In che modo i suoi studi di linguistica e logica hanno influito sulla sua ricerca visiva? Come ha messo in discussione con le sue opere le dogmatiche pseudo-certezze di un pensiero autoritario?
AVB: Ho intrapreso i miei studi di logica e di linguistica in quanto motivata dagli stessi interessi per cui ho praticato una ricerca in ambito visivo, quindi in parallelo ho operato in entrambi i settori. Certo mi interessava combattere un pensiero autoritario e dogmatico che comunque negli anni Sessanta e Settanta su più fronti veniva contestato: dai movimenti studenteschi, da autori come Foucault e Pasolini, dalla fisica quantistica e da quegli studi di logica, che mi affascinavano proprio perché mettevano in dubbio e relativizzavano le nostre conoscenze ed il nostro stesso modo di pensare. Mi interessava anche mettere in crisi la concezione di identità che ci è stata trasmessa dalla nostra tradizione culturale, e che io stavo vivendo in modo molto critico. A partire dagli anni Ottanta mi sono trovata a dover invece combattere un sistema culturale molto più pervasivo e quindi pericoloso, in quanto basato sulla ricerca del consenso: in genere una serie di problematiche di cui si sono poi occupati alcuni sociologi. Quanto ho prodotto come artista non lo si può però ricondurre unicamente ad argomenti razionali, alle concezioni cui sono approdata. Occorre anche un sentimento della vita autentico per poter innestare negli altri quelle incertezze, quegli “spiazzamenti” e straniamenti che pur intendevo trasmettere, o eventualmente per produrre epifanie. Di volta in volta io stessa ho poi compreso quanto ho fatto ed in che modo l’ho fatto dalle risposte che le mie opere hanno avuto.

S.B. e M.Z.: Come cerca di superare la distanza che normalmente si frappone tra il sé e ciò che è altro da sé? Come mette in crisi l’identità individuale, con la sua ricerca?
AVB: Autoritarismo e dogmatismo sono strettamente connessi ad una particolare concezione del soggetto. Un percorso di autoanalisi abbastanza lungo, che mi ha liberata da una sofferenza intollerabile dovuta ad un originario rifiuto materno, mi ha portata poi ad una percezione del rapporto tra il sé e l’altro da sé diversa da quella che normalmente ereditiamo dalla nostra cultura occidentale, attenta a preservarci nel tempo, a fissare le singole identità in monumenti costruiti con materiali durevoli. Ed in modo molto chiaro se ne sono viste le conseguenze nel mio lavoro di artista, in cui più volte, e in modi diversi, mi è piaciuto operare degli sconfinamenti, accettare l’alterazione, mettermi in gioco.
S.B. e M.Z.: Foto di Carla B. (1978) è un lavoro esemplare per quanto riguarda la sparizione dell’autore, ma anche l’ingresso nella vita, nell’opera. Dove l’ha portata, anche linguisticamente parlando, questa transizione?
AVB: Credo di essere arrivata a questo lavoro dopo un lungo percorso, e che l’opera sia stata un punto di arrivo, piuttosto che un punto di partenza per altre esperienze. Comunque in modi diversi ho ripetuto una sorta di transizione in varie altre opere.
S.B. e M.Z.: Nell’ambiente artistico le donne sono state sempre guardate con grandi pregiudizi; e questo avviene ancora oggi, anche se il numero delle giovani artiste è più elevato rispetto agli anni Sessanta e Settanta. In una intervista abbiamo letto una sua risposta che vorremmo approfondire: “Evidentemente ci si scontra con archetipi importanti, come quelli che in varie religioni attribuiscono alle donne ruoli secondari, subordinati”.
AVB: Temo che le presenze femminili nel contesto artistico siano in questi anni molto aumentate perché in genere è molto scaduto ciò che si intende con l’essere artista. Non ho fatto studi specifici sui ruoli attribuiti alle donne nell’ambito delle varie religioni; è evidente per tutti che all’interno degli apparati del nostro Cattolicesimo le donne sono state relegate in ruoli ausiliari. Analogamente in ambito filosofico è noto che per Hegel le donne non erano adatte ad attività che richiedono capacità “universali”, come si legge nelle sue Lezioni di filosofia del diritto; e la risposta di Carla Lonzi mi sembra sia stata del tutto adeguata. Osservando religioni diverse, contesti culturali diversi, con cui oggi ci troviamo a convivere o di cui abbiamo costante informazione attraverso i vari media, la situazione delle donne può essere evidentemente ancora più drammatica.

S.B. e M.Z.: Nei suoi lavori non si scorgono in maniera diretta problematiche particolari connesse alle differenze di genere. Negli anni ‘70 e ‘80 come si è rapportata rispetto ai collettivi politici di stampo femminista o anche al lavoro di galleriste come Romana Loda, che hanno valorizzato il ruolo delle donne in un momento storico in cui era controtendenza farlo?
AVB: Certo mi è sempre stata chiara l’utilità e la necessità del femminismo, ma a livello personale le differenze di genere non mi hanno toccata in modo profondo. Così nel mio operare in quanto artista riferimenti allo specchio o all’altro riguardano problematiche originarie, estremamente remote ed appartenenti ad una generale umanità; problematiche che a lungo e con grande fatica ho dovuto affrontare, semplicemente per riuscire a vivere. Debbo dire comunque che nel mio circuito di conoscenze, a Bologna – dove vivevo – , aderivano ai collettivi femministi mogli e madri oberate da troppi impegni, studentesse attive nei vari movimenti, ma non artiste o intellettuali. Il femminismo non era certo un fenomeno tanto diffuso da dovervi fare obbligatoriamente riferimento, come oggi potrebbe sembrare. Inoltre negli anni Settanta per le donne vi erano possibilità di vivere liberamente che oggi non sono nemmeno immaginabili: certo erano scelte che richiedevamo coraggio. Rispetto ad allora troppi sono stati i cambiamenti perché si possa capire facilmente quello che vorrei spiegare: per fare un esempio banale negli anni Sessanta e Settanta vi era una netta contrapposizione tra chi indossava i jeans e chi metteva le scarpe con i tacchi alti, ora si mettono i jeans ed i tacchi alti assieme; quelli erano gli anni di piombo, ora manifestano i no vax. Trovo quindi riduttivo il ricondurre al femminismo quanto le donne hanno fatto in quel periodo, e trovo riduttiva l’immagine del femminismo che spesso oggi viene data, come fosse un brand del lusso o della moda.
Romana Loda, mia cara amica, che aveva una vita personale abbastanza tranquilla nella sua casa affacciata sul lago d’Iseo, aveva molto semplicemente compreso la necessità di valorizzare le donne artiste, in quanto per lo più ignorate e discriminate; così organizzava mostre in cui mi ritrovavo con Berty Skuber, Amalia del Ponte, Verita Monselles, ed alcune altre; ma – come si evidenzia nei cataloghi che le documentano – nei nostri lavori non erano richieste connotazioni femministe. Nelle collettive spesso poi Romana inseriva anche una presenza maschile, proprio ad indicare che non si trattava di mostre per sole donne, e per contrapporsi alla norma di mostre per soli uomini. Curioso che oggi il suo operare venga indicizzato come femminista mentre non si parla di maschilismo negli altri casi.

S.B. e M.Z.: Ci interessa molto approfondire la sua idea legata a Paesaggio, da una serie di dipinti perduti (1988), dove descrive verbalmente ipotetici dipinti che non ci sono più. Che rapporto intercorre tra l’immagine evocata dalle parole e ciò che viene messo in azione direttamente dall’immagine stessa?
AVB: Vedendo un dipinto lo valutiamo secondo le nostre capacità di analisi e secondo quanto quel dipinto ci propone; possiamo poi anche riconoscervi un luogo, una persona. Il dipinto ha comunque fissato, nella sua presenza oggettiva, qualcosa che è stato visto o immaginato da un altro, l’artista, in altro momento non ripetibile. Di fronte alla descrizione di un dipinto perduto, per chi legge vi è la necessità di ricostruire più elementi mancanti, di rifarsi ad altre personali esperienze; e se l’originario dipinto rappresentava un paesaggio, ora la sua descrizione rappresenta quel dipinto che rappresentava un paesaggio … in una catena che può allungarsi all’infinito, allontanando sempre di più quella originaria esperienza. L’attenzione si sposta quindi oltre il dipinto ed oltre lo scritto che lo descrive o rappresenta. La questione che si pone è antica, e si può riconnettere al nominalismo, comunque finisce per ricondurre sempre a problematiche riguardanti l’identità.
S.B. e M.Z.: Il suo percorso artistico è caratterizzato da molteplicità di ambiti e registri espressivi (perfomance, assemblaggi di materiali, foto, video, dipinti, installazioni etc.). La tecnica non corrisponde necessariamente a una scelta mediale, ma è accessoria a un discorso più ampio. Qual è il suo metodo di lavoro?
AVB: Comei dipinti possono essere descritti, tutti i vari strumenti comunicativi possono essere utilizzati per comporre un’opera, in quanto per me, nel mio lavoro, non vi è mai stata una coincidenza tra strumenti utilizzati e poetica, o scelte operative. Non uso la pittura come si presume possa farlo un pittore, ecc.

S.B. e M.Z.: Nel 1977 ha eseguito in anonimato, come un’artista di strada, una madonna composta da monete e cerali di vari colori in piazza Maggiore, a Bologna. Poi, quando è andata via, i passanti che si erano raggruppati hanno raccolto le monete e i piccioni della piazza hanno mangiato i cereali, e così l’hanno rapidamente fatta sparire, partecipando a una distruzione dell’immagine che lei definisce “eucarestia al femminile”. Ha ripetuto l’azione, come in un rituale, in piazza della Signoria a Firenze e in piazza Duomo a Milano. Cosa ha innescato con Rappresentazione, presentazione, azione (1979)?
AVB: Considero questa mia opera, ripetuta in tre anni, dal ’77 al ’79 in tre piazze diverse, abbastanza significativa in quanto comprende molti fattori rilevanti nel mio lavoro. Eseguire madonne nelle piazze (e non in una galleria d’arte) equivale a rapportarsi ad un luogo specifico, in quanto è nelle piazze che tradizionalmente operavano i madonnari. Anche l’anonimato è importante, perché altrimenti per quanto si possa operare in luoghi non artisticamente connotati, immediatamente quanto si sta facendo può essere riconosciuto come un prodotto artistico, e quindi condizionare chi guarda. Utilizzando cereali e monete per realizzare un’immagine, ho poi evidenziato l’ambiguità tra ciò che veniva rappresentato (immagine di per sé immateriale) e quanto invece era usato per la sua rappresentazione (materia con cui si realizza la picture), e questo non sarebbe emerso se avessi utilizzato gessetti colorati, pastelli, ecc. materiali abitualmente considerati impliciti nell’opera. Quindi oltre ad accentuare il discorso sul processo rappresentativo ho anche voluto evidenziare l’allusione all’arte come a qualcosa di ingannevole rispetto ad una realtà che intenderebbe imitare, così come anticamente la si concepiva; e non a caso nel libretto che è seguito all’opera ho citato la disputa tra Zeusi e Parrasio. Oltre alla “rappresentazione”, si è passati quindi alla “presentazione” di quanto prodotto, ed infine all’ “azione”: azione mia, in qualche modo di offerta, e azione del pubblico e dei piccioni, che dopo un riconoscimento, sia dell’opera sia dei materiali di cui era composta, se ne sono appropriati dissolvendo il tutto.
S.B. e M.Z.: E invece cosa ha voluto rappresentare con La quarta madonna (1977-1980) – una “madonna n, lì al posto di altre” – incollando monete e cerali su una tavola di legno, e specificando in un libretto che poteva essere esposta in una chiesa o in un museo, e che si potevano portare offerte a La quarta madonna?
AVB: Con La quarta madonna ho rovesciato l’operazione,e se le precedenti madonne venivano cancellate, in questo caso, ricostruendo una sua ennesima copia fissata ad una tavola di legno, ed indicandola come immagine da venerare, cui portare offerte, e non da dissolvere nell’ambiente, procedevo comunque ad una sua smaterializzazione, perché anche in questo caso, esorbitando dalla sua presenza materiale, in quanto icona l’opera rimandava a infiniti precedenti rimasti nella nostra memoria.
S.B. e M.Z.: Quali erano i suoi gruppi di ricerca in linguistica negli anni Sessanta?
AVB: Dalla fine degli anni Sessanta e negli anni Settanta (prima ero una studentessa) ho fatto parte della Società di linguistica italiana, frequentandone i convegni, ed ho anche fatto parte di un gruppo di ricerca sulla Grammatica generativa trasformazionale di Noam Chomsky – oggi conosciuto come sociologo ed allora invece come linguista -, che si è poi rivelata un grande bluff, in quanto si fondava su degli universali linguistici che un’analisi storica dell’evolversi delle lingue parlate viene invece a negare (come già al tempo percepivo ed obiettavo). Con Giorgio Sandri, docente di Logica e Filosofia del linguaggio e Gualtiero Calboli, latinista, mi incontravo poi settimanalmente per leggere e discutere vari testi di logica e linguistica. Questa esperienza è durata alcuni anni ed è stata per me molto importante.
S.B. e M.Z.: Nella sua vita ha scritto molto, utilizzando la scrittura come impianto logico ma anche come strumento per scardinare un ordine visivo. Come è cambiato il suo rapporto con la scrittura in questi anni, anche in relazione con le nuove tecnologie (pensiamo ad Anna Battistini è su Facebook e al suo ultimo lavoro, in cui un video mostra un suo testo che si dispiega in una pagina di Word)?

AVB: Non mi sembra che siano sostanzialmente cambiati i presupposti con cui scrivo ed opero, almeno dalla fine degli anni Settanta, proprio perché da allora ho sempre accettato l’alterazione rispetto ad un contesto esterno. In questi ultimi decenni è invece cambiato enormemente il contesto attorno a me, sono cambiati gli strumenti con cui e su cui operare, le tematiche di rilievo, ed anche gli interlocutori cui mi posso rivolgere, quindi nelle mie opere ho dovuto tenere conto del loro modo di vedere ed intendere le cose. Questo perché per comunicare, per interagire con le persone bisogna conoscere il loro mondo, i loro strumenti comunicativi, il loro linguaggio.
S.B. e M.Z.: Cosa rappresenta per Lei l’eteronimia nell’arte?
AVB: Qualcosa di fondamentale per uscire da quell’isolamento in cui l’arte è stata relegata già dagli inizi dell’età moderna e che continua sostanzialmente a definirla, rendendo difficile se non impossibile una sua reale interazione con le questioni che riguardano direttamente la vita di tutti noi, la ricerca scientifica, l’etica. E così continuerà ad essere finché sarà possibile vendere alle aste a milioni di euro opere di contemporanei che sembrerebbero sovversive, dissacranti, o di denuncia sociale, ma che finiscono in questo modo per essere dei feticci.

S.B. e M.Z.: Come gli Scritti sull’arte di André Malraux (1901-1976) hanno influenzato gli esordi della sua ricerca?
AVB: Ho conosciuto gli scritti sull’arte di Malraux a vent’anni, in modo abbastanza casuale, durante un mio primo soggiorno a Parigi. La sua visione critica di tutto il nostro tradizionale modo di concepire l’arte mi ha immediatamente folgorata, ed avrei voluto fare una tesi su Le Musée imaginaire, ma al tempo le sue idee non erano affatto condivise, ed ho dovuto ripiegare sui suoi romanzi. Sicuramente il suo pensiero ha contribuito alla formazione di quello che è stato poi il mio modo di intendere l’arte e di praticarla. Vi è stata una convergenza tra esigenze che già appartenevano al mio vissuto, altri miei studi, e quanto ho tratto dai suoi scritti. In contrapposizione ad una concezione idealistica del fare artistico, che ha ricondotto nei nostri musei opere delle culture più diverse ad un’unica possibilità di lettura, nei testi di Malraux si trova la necessità di restituire queste opere alle loro originarie motivazioni, oltre che ai luoghi per cui erano state concepite, e contemporaneamente si ritrova la necessità di riconoscere quanto il tempo, la polvere, possano averle modificate. Sostanzialmente però per Malraux come per Möllberg, personaggio de Les Noyers de l’Altembour, se il nostro modo di pensare si modifica nel tempo, se le culture cambiano, se quanto noi produciamo viene costantemente alterato, ciò che resta è l’oblio. Nei suoi scritti vi è quindi anche una negazione di quel soggetto, quell’individuo che si vorrebbe porre come inalterabile e colonizzatore, tipica del nostro occidente, che con i miei monumenti precari ho poi cercato di abbattere.
In copertina: Anna Valeria Borsari, Rappresentazione, presentazione, azione, 1979, otto stampe fotografiche, documentazione fotografica dell’azione realizzata a Milano in Piazza del Duomo