«Inclusivo» è il termine che più caratterizza questi anni, esprimendo un concetto in sé importante ma destinato a avere, nel campo delle pratiche artistiche, la stessa inflazione che ha avuto negli ultimi decenni la parola ‘dialogo’, riferita al rapporto tra antico e contemporaneo. Non è un caso che Nicolas Bourriaud, critico molto alla moda e abile nel diffondere le tendenze contemporanee (da Arte relazionale a Postproduction e Radicante), abbia dato alle stampe nel 2020 Inclusioni. Estetica del Capitalocene. In quel testo si evidenzia la tensione degli artisti, nell’era dell’Antropocene e del Capitalocene, a superare la separazione tra natura e cultura e, sulla scia del pensiero da Claude Levi- Strauss a Philippe Descola, a cancellare le barriere tra persone e oggetti che, da strumenti al servizio dell’uomo, divengono ‘agenti’ sociali.
L’atteggiamento e il sentire che Bourriaud descrive ed auspica come via di salvezza nei tempi presenti ha d’altronde testimonianza nei titoli di due libri, sempre francesi, pubblicati quasi contemporaneamente: Pour en finir avec la nature morte (2020) di Laurence Bertrand Dorléac e Si loin si près. Pour en finir avec la préhistoire di Jean Michel Geneste e Boris Valentin (2019). Il titolo quasi uguale dei due testi, pur su argomenti apparentemente distanti – e che ha comune origine nel Pour en finir avec le jugement de Dieu di Antonin Artaud – la dice lunga. Così come la natura non è morta, perché gli oggetti hanno una loro agency (e quindi anche le opere d’arte come spiega Alfred Gell), così la preistoria non è pre, ma è storia stessa e le immagini prodotte nelle caverne del Paleolitico hanno pieno statuto storico artistico. Una presa di posizione che intende prescindere da ‘etichette’ arbitrarie, come quelle applicate ad esempio al Medioevo, scegliendo di privare una volta per tutte la preistoria dal suo prefisso definito «paradossale».
In tempi in cui i visual studies promuovono una riflessione sulle immagini in grado di emanciparsi dalla rigida griglia imposta dalla storia dell’arte (mi riferisco ad esempio a Antropologia delle immagini di Hans Belting, 2001 e a Immagini che ci guardano di Horst Bredekamp, 2010), l’atteggiamento riguardo al Paleolitico può avere tuttavia inclinazioni diverse. Come nota Sophie Archambault de Beaune in Qu’est-ce la préhistoire? (2016), la rivendicazione di storicità di Geneste e Valentin convive, tra gli archeologi stessi, con la volontà di mantenere, di fronte a certe immagini, un approccio antropologico, teso a quella «ricerca di esperienza condivisa nello spessore del tempo» che Remi Labrusse, nel suo Préhistoire l’envers du temps (2019), invoca. Un’esperienza estetica che consente, nella logica del presentismo – il regime di storicità messo in luce da François Hartog nel 2003 – di considerare la preistoria non come un qualcosa di molto lontano nel tempo, ma come una sorta di condizione esistenziale, uno specchio nel quale rifletterci e conoscerci, dando forza a quel pensiero formulato nelle avanguardie storiche e sostenuto da Georges Bataille, autore di Lascaux ou la naissance de l’art (1955). E se Archambault de Beaune nota che perfino il passato recente di società dette orali ha caratteri ‘preistorici’, perché l’accesso a quel passato necessita di metodologie che in Europa si applicano ai periodi prestorici, viene alla mente una mescolanza esistente fin dalle avanguardie storiche, quando il fascino per la preistoria incontrava quello espresso nei confronti di civiltà extra occidentali. Picasso affermava di ispirarsi alle maschere negre non tanto per le loro forme, negando quindi che le sue Demoiselles avessero strette somiglianze con gli idoli africani, ma per il potenziale di ‘magia’ che emanava da quelle creazioni, disinteressandosi al loro essere manufatti antichi o contemporanei.

Nella sua analisi dei diversi passaggi del rapporto tra storia e preistoria, Remi Labrusse – curatore con Cecile Debray e Marie Stavrinaki del catalogo della mostra al Centre Pompidou Préhistoire, une énigme moderne (2019) – nota come il Paleolitico resti lo sfondo su cui proiettare le nostre ansie più remote e rimosse, grazie ai valori di magia che racchiude quell’era lontana dotata, più di ogni altra, di una forza temporale ambivalente. Nel fallimento strutturale di una iperstoria oggettiva si inseriscono quindi ‘pseudo storie’, che rivestono il passato di contenuti moderni avvolti da un’aura mitica, essendo il mito fondamentale per una costruzione identitaria. D’altronde, ponendo l’espressione l’envers du temps nel titolo del suo libro, Labrusse fa eco allo scritto di Robert Smithson «Il futuro non esiste o, se esistesse, sarebbe l’obsoleto al contrario. Il futuro va sempre a ritroso. Il nostro futuro tende a essere preistorico»(Smithson 1969, cit. da Labrusse, in Préhistoire….2019, p. 177). L’ ‘invenzione’ della preistoria attrae quindi verso le profondità del suo passato «ma esercita al tempo stesso un fascino offerto dalle possibilità di rivolgimento vitale del paradigma storico del suo contrario» (Labrusse 2019, p.10).

Ed è proprio di preistoria e della messa in discussione del termine che si è trattato nel convegno svoltosi recentemente (30 settembre-2 ottobre) tra Firenze (Museo e Istituto Fiorentino di Preistoria) e Lucca (Fondazione e Centro Studi Licia e Carlo Ludovico Ragghianti) Art Before Art. L’uomo cosciente e l’arte delle origini con e dopo Carlo Ludovico Ragghianti, curato da Tommaso Casini, Anna Maria Ducci, Fabio Martini e la collaborazione di Valentina Bartalesi, con riferimento a L’uomo cosciente. Arte e conoscenza nella paleostoria di Ragghianti, che riunisce ricerche iniziate nel 1954 e sfociate nella mostra del 1957 curata da Paolo Graziosi e Ragghianti stesso a Palazzo Strozzi. Il testo fu pubblicato solo nel 1981, ma ebbe, negli anni del Postmoderno, accoglienza tiepida. La posizione di Ragghianti è molto netta nel voler togliere quel suffisso ‘pre’, sostituendolo con ‘paleo’. Mutando il paradigma del concetto di storia, lo studioso individua in quelle ere lontane il rapporto tra linguaggio, pensiero e figurazione, sulla scia del pensiero di Giovan Battista Vico, ma anche del sense of beauty di Charles Darwin (che pur non cita). Per Ragghianti la coscienza artistica esiste laddove un atto espressivo si trasforma in stile e, nel 1994, alcuni anni dopo la sua morte, l’archeologo Jean Marie Chauvet avrebbe scoperto una grotta che ad oggi è il più antico esempio di raffigurazione del mondo, con disegni risalenti a 35.000 anni prima della nostra era (un arco di tempo che la separa da Lascaux, quanto Lascaux da noi). Nella grotta di Chauvet, come sottolinea Marc Groenen, sono presenti un equilibrio e un senso della composizione parietale che testimoniano l’esistenza di un codice iconografico e quindi una forma di trasmissione del sapere. La posizione di Ragghianti, pur se poco considerata in Italia, non appare isolata in ambito europeo, e Labrusse cita infatti gli studi di Max Raphael negli anni Quaranta ma ricorda anche le origini del dibattito intorno alla natura ‘storica’ della preistoria già nella seconda metà del XIX secolo. Nel 1883 Gabriel de Mortillet pubblicava infatti Le préistorique ou l’antiquité de l’homme, riconoscendo alla preistoria l’essere ‘una storia’ anteriore a tutte le altre narrazioni storiche, in cui le manifestazioni artistiche creavano un sistema simbolico capace di sostituirsi al linguaggio scritto. In questo modo de Mortillet affermava l’orgoglio nazionalista francese e rivendicava un piacere puramente estetico svincolato dalla trasmissione di un pensiero religioso.

Che la preistoria abbia esercitato forte attrattiva sugli artisti è ben noto, da Caspar Friedrich a Paul Cézanne o Odillon Redon, da Pablo Picasso a Alberto Savinio, Max Ernst, Joan Miro, fino a Robert Morris, Carl Andre o Robert Smithson. Un’eco ancestrale è anche in Human Mask di Pierre Huyghe, con la scimmietta che si aggira unica sopravvissuta nel ristorante distrutto dalla catastrofe di Fukushima: «on part du présent et on n’en sort pas» commenta Labrusse riguardo quell’opera video del 2004. E al paleolitico guarda perfino Jeff Koons che, nel Ballon Venus Lespugue,si appropria di una Venere paleolitica per rovesciare il concetto di opera d’arte stessa, tra manufatto e artefatto, giocando anche sullo splendore riflettente delle superfici, esatto contrario della scabrosità della superficie dell’opera originale (tema indagato da Valentina Bartalesi «tra iconografia e morfogenesi»). Ad oggi le caverne del Paleolitico sono un boccone prelibato per chi si occupi di Virtual environment, essendo l’accesso a molti siti archeologici vietato per necessità conservative[1]. Tra le immagini ambientali create dall’arte rupestre del Paleolitico e le loro controparti contemporanee rese possibili dalle nuove tecnologie esiste una connessione in parte ipotizzata, come indicato da Andrea Pinotti e Margherita Fontana, da Gene Youngblood, che in Expanded Cinema del 1970, aveva coniato il termine ‘paleocibernetico’, per «disporre di uno strumento concettuale che potesse descrivere il panorama mediale di allora». Dall’incontro tra passato ancestrale e futuro poteva infatti scaturire «la risposta su chi siamo in realtà e cosa facciamo quando facciamo immagini». Il destino mediale dell’arte rupestre dimostrerebbe insomma quanto «l’ambientazione delle immagini appartenga al vocabolario visivo dell’uomo sin dalle origini»[2], chiarendo anche l’interesse che Ragghianti, l’autore dei critofilm sulla storia dell’arte, poteva nutrire per quel tipo di espressioni.

L’interesse per il Paleolitico, i diversi approcci con cui l’archeologia lo affronta (e che coinvolgono anche questioni di genere, come nel caso del testo di Judy Foster in Donne invisibili della preistoria, 2013), sanciscono l’indubbia fortuna di un’era della creazione artistica oscura, eppure percepita come prossima alla nostra sensibilità e al nostro bisogno di riconnettersi alle ‘origini’: da un lato, dunque, vi è la necessità di porre l’inizio della coscienza umana in uno spazio temporale lontanissimo ma che appaia in continuità con la storia attuale; dall’altro, all’inverso, vi è la volontà di rivolgersi a quelle ere lontane adottando una prospettiva molto critica nei confronti della storia concepita come evoluzione. La fede nel progresso e nel carattere raziocinante della Storia si scontra con una concezione opposta, come quella teorizzata, negli anni della Prima Guerra mondiale, da Theodor Lessing in La storia come conferimento di senso all’insensato (1919), citato da Judith Schlalansky nel suo Inventario di alcune cose perdute (2020).
Di qualsiasi natura esso sia, la ‘fortuna’ critica del Paleolitico, negli ultimi anni, pone inevitabilmente l’arte occidentale e soprattutto la greca in una posizione di minor centralità rispetto a quella avuta per secoli, in quanto espressione di una civiltà fondata sul raggiungimento di una forma di perfezione, in cui il Bello, il Vero e il Buono si identificano. Il declino della fortuna dei modelli greci, pur fonte di riferimento imprescindibile per l’insegnamento accademico, entra in crisi sul finire dell’Ottocento, quando lo sguardo degli artisti, desiderosi di rinnovare i propri linguaggi svincolandosi dalla tradizione accademica, si volge verso espressioni arcaiche della Grecia stessa, preferendole alla forbitezza formale dell’arte classica, i cui apici erano stati individuati da Quatremère de Quincy. Così, mentre Hegel aveva indicato nella scultura della Grecia arcaica tratti ancora inadeguati a una manifestazione compiuta dello spirituale, raggiunti nel periodo classico quando la figura umana è l’unica apparenza sensibile congruente a una oggettivazione dello spirito, (tesi condivisa da Charles Blanc nella sua «Gazette des Beaux-Arts»), dagli anni Settanta del XIX secolo si afferma invece il gusto per l’arcaismo, sostenuto in Francia da Felix Ravaisson Mollien. Reperti arcaici affollano i padiglioni delle Esposizioni Universali e Salomon Reinach, proprio nella «Gazette», inaugura, nel 1886, una rubrica, Courrier de l’art antique, nella quale paragona le Korai dell’Acropoli, da poco rinvenute, alla Eva di Cranach, come esempi di «primitivi moderni», rivolgendosi quindi al passato come ad un repertorio di forme interscambiabili (XXXIII, 1986, pp. 413-431)[3]. Quella rivalutazione dell’arcaismo – per cui la Pallade Atena di Klimt (1897) è ieratica e ‘primitiva’ negazione dei canoni classici di bellezza legati alla rappresentazione di quella dea – va di pari passo con la considerazione di altre culture, come quella egizia (fondamentale per Seurat), asiatiche, africane, precolombiane: si va dal Dahomey, – i cui idoli, affastellati al parigino Museo di etnografia come bottino coloniale, sono scoperti dagli artisti – fino a Giava e alla Tahiti di Gauguin[4]. Una suggestione che proseguirà nei decenni novecenteschi per essere raccontata in due mostre dal taglio molto diverso: Primitivism in 20th Century Art a cura di William Rubin al MoMA nel 1984 e a Les magiciens de la terre a cura di Jean-Hubert Martin al Pompidou nel 1989, dove il concetto di lontananza in termini di secoli e quello di distanza in termini geografici viene spesso a sovrapporsi e intercalarsi.

Come ricondurre, oggi, la cultura greca, ‘caduta un po’ in disgrazia’ all’interno delle prospettive contemporanee, dopo esser stata molto celebrata nel Postmoderno, quando – per citare esempi molto disparati – il fasto greco-romano ispirava le architetture di Bofil, Willard Moore, Portoghesi, le sculture di Mitoraj, le performance di Pierre et Gilles, o le campagne fotografiche di Aldo Fallai per Giorgio Armani, coi modelli maschili che riprendevano le pose dei marmi candidi del Foro Mussolini? Come assolvere la bellezza di età classica, greco-romana, dall’idea di perfezione ‘scomoda’ e quasi emblema di atteggiamento reazionario e razzista? Una soluzione è la proposta, già avviata nel 2003, dalla mostra itinerante tra la Gipsoteca di Monaco, la NY Carlsberg di Copenhagen, Bunte Götter -Die Farbigkeit antiker Skulptur a cura di Ulrike e Vinzenz Brinckman, per proseguire in vari musei europei negli anni successivi, da Berlino a Amsterdam, da Atene a Francoforte ed oltreoceano tra Cambridge (Harvard) e Los Angeles. Un’ultima versione dello stesso format che nel frattempo ha prodotto un corposo volume (Gods in color. Polycromy in Antiquity) è stata quella da poco conclusa alla Liebeghaus di Francoforte (30 gennaio 2020 – 26 settembre 2021). Il principio guida dell’esposizione consiste nel collocare accanto a opere greche modelli interamente dipinti a colori sgargianti che possano così ricondurre l’immaginazione del visitatore a ciò che le fonti, ma anche le tracce policrome su sculture e architetture, sempre più leggibili grazie alle nuove tecnologie, testimoniano. L’effetto disneyano prodotto dai manichini dai colori artificiali – e ben lontani quindi dagli effetti della loro originale policromia – lungi dal provocare un po’ di ribrezzo per la grossolanità dimostrativa, genera invece in alcuni interesse e letture sociopolitiche.

Eppure, che l’arte in Grecia fosse policroma era noto dalla fine del Settecento e il XIX secolo supera infatti la purezza neoclassica per un sogno neogreco molto vivace che, proprio in ambito accademico, si esprime anche nel filone della pittura pompier (il cui appellativo si riferisce ai personaggi con elmi greci), e degli Olympian dreamers anglosassoni. Un conto è però tradurre una conoscenza, acquisita grazie agli scavi, in divagazioni rivolte a un mondo perduto, da Léon Gérôme a Lawrence Alma Tadema, un altro è invece, nella maniera molto concreta e oggettiva che caratterizza i nostri anni, restituirne un’immagine presunta ‘vera’, fedele, tanto da entusiasmare il pubblico per la forza del suo recupero e rassicurante perché venata della famosa aura politically correct…. non importa se abbastanza discutibile sul piano estetico. Insomma: se avete amato la scultura greca perché nitida e bianca come quella di Canova e Thorvaldsen, e quindi sinonimo di pulizia etnica, potete rilassarvi e assolvere quelle creazioni, perché erano invece tinte, davvero tinte, come testimoniano i manichini policromi, più simili a totem di altre culture. Una redenzione – necessaria? – compiuta con strategie che, omologando in modo comunque forzato espressioni diverse e distanti, non portano molto sul piano della indagine storiografica e artistica ma hanno, semmai, il sapore di marketing e di modello pubblicitario, sempre vincente, e che va sfruttando in modo subdolo, con grande abilità e cinismo, i sensi di colpa occidentali.
[1] Il fenomeno delle visite alle ‘neogrotte’ è ben analizzato da T. Dufrêne, De la guerre du feu à la guerre du faux. Osservazioni sulle neogrotte e l’arte contemporanea in The gentle art of fake, a cura di T. Casini e L. Lombardi, Silvana, Cinisello Balsamo 2019, pp. 200- 207.
[2] Il virgolettato è tratto dall’abstract dell’intervento di Andrea Pinotti e Margherita Fontana, Dalla caverna al cave. Ambienti immersivi nell’età paleocibernetica al convegno Before Art. L’uomo cosciente e l’arte delle origini con e dopo Carlo Ludovico Ragghianti, a cura di Tommaso Casini, Anna Maria Ducci e Fabio Martini, Firenze-Lucca 2021.
[3] In quel senso si muove anche il progetto del Museo di Scultura Comparata voluto da Viollet le Duc al Trocadero (inaugurato nel 1879 e ora dal 2007 riallestito nella stessa sede), dove calchi di opere greche o egizie sono esposte in analogia con le figure dei portali di Moissac e Vezelay.
[4] M.G. Messina Le muse d’oltremare. Esotismo e primitivismo dell’arte contemporanea, Einaudi, Torino 1993.
In copertina: Pierre Huyghe, film still from Untitled (Human Mask), 2014, courtesy the artist