Storia di una fotografia del 29 settembre 1941

07/12/2021

Ripercorrendo la genesi del suo libro Forse Esther, Katja Petrowskaja ha più volte sottolineato come l’evocazione esclusivamente verbale e inevitabilmente lacunosa di quella parte della sua famiglia spazzata via dalla Shoah sia potuta avvenire soltanto a seguito dell’appropriazione da parte sua della «lingua del nemico», ossia del tedesco. All’epoca (2014), tale scelta rappresentava per l’autrice nata a Kiev nel 1970 l’unica modalità possibile per ricollocare la propria parola altrove rispetto alla narrazione cristallizzatasi in Urss attorno alla guerra: «Scrivere nella mia madrelingua, il russo, mi avrebbe inchiodata al ruolo di vittima, non sarei mai riuscita a sbarazzarmi dalla retorica che condiziona ancora oggi in Russia il discorso sulla seconda guerra mondiale e sulla vittoria sul nazismo. La mia vittoria personale invece è scrivere in questo tedesco che non è un tedesco ‘vero’, ma artificiale, perché nasconde un doppio fondo di allusioni e riferimenti camuffati, comprensibili soltanto a chi conosce il russo…», spiegava in un’intervista apparsa nel 2015 su «Alias»

La lingua tedesca rappresentava dunque un involucro usato per contrabbandare un messaggio cifrato che solo chi fosse stato in grado di posizionarsi su entrambi i fronti avrebbe potuto decrittare. Al contempo, impadronirsi della «lingua del nemico» significava anche sottrarsi all’ideologia vittimaria, «primo travestimento delle ragioni dei forti», come ci rammenta Daniele Giglioli. Scrivendo in tedesco, Petrowskaja si sforzava di non adagiarsi nella «forma cava della vittima», anzi disinnescava quella potente «macchina mitologica» capace di trasformare «l’inauspicabile in desiderabile». Se Giglioli (per una curiosa coincidenza sempre nel 2014) definiva la vittima il «vero eroe del nostro tempo», Petrowskaja situava risolutamente il suo libro al di fuori di tale meccanismo autocommiserativo: «…io non sono una vittima e ho cercato di liberarmi da questo tipo di discorso», ribadiva a Guido Caldiron dopo aver ritirato a Roma il premio Strega Europeo.

Il testo che presentiamo di seguito (nell’originale russo apparso col titolo Istorija odnoj fotografii 29 sentjabrja 1941 goda il 28 settembre 2021 sulla rivista online ucraina «Bird in Flight») pone implicitamente la questione su quale possa essere il passo successivo: una volta piegata «la lingua del nemico» ai propri fini e dopo aver così rotto il silenzio, è possibile parlare di un trauma “ereditato”, insieme altrui e nostro, anche in quella lingua madre che di certi eventi ha sempre taciuto? Tema portante di Forse Esther era infatti l’emancipazione dalla reticenza familiare sulla Shoah attraverso l’acquisizione del tedesco, vista come paradossale continuazione di quell’attività che per sette generazioni, da Vienna a Kiev agli Urali, passando per Varsavia, aveva impegnato i parenti di Petrowskaja: «Mi avventurai nel tedesco quasi fosse la prosecuzione della lotta contro il mutismo, perché il tedesco, nemeckij, è in russo la lingua dei muti (nemye)… Questa lingua era per me la bacchetta di rabdomante alla ricerca di antenati che per secoli avevano insegnato a parlare ai bambini sordomuti, quasi dovessi imparare quel tedesco “muto” per potermi esprimere».

Appresa tardivamente dopo il trasferimento a Berlino e quindi “conquistata” a fatica, la lingua tedesca recava con sé, proprio in virtù della sua radicale differenza, un effetto di straniamento indispensabile per dar voce al trauma. Non a caso, dopo aver rimandato a lungo l’apparizione di un’edizione russa del libro che avrebbe potuto essere percepita come una sorta di “originale” finalmente tornato alla luce, Petrowskaja si è fatta coerentemente tradurre nella propria madrelingua, proprio per conservare perfino nel russo quella sensazione di in-betweeness fra gli idiomi che, al momento della stesura, aveva creato per lei una salvifica distanza dai fatti narrati.

Forse è proprio la traduzione russa di Forse Esther (uscita solo quest’anno, a opera di Michail Rudnickij) a costituire l’anello di congiunzione con questo testo apparso su «Bird in Flight» poco più di un mese fa in occasione del settantesimo anniversario delle esecuzioni di massa degli ebrei di Kiev a Babij Jar. Il ritorno alla madrelingua per confrontarsi con quell’evento traumatico che è all’origine della propria scrittura passa attraverso il “diaframma” della rubrica sulla fotografia «Bild der Woche» che Petrowskaja tiene ormai da anni sul domenicale della «Frankfurter Allgemeine Zeitung». Se il ricorso al tedesco in Forse Esther era servito a disancorare le «storie» (Geschichten) narrate dall’autrice da un’identificazione meccanica col genere memorialistico, e a proiettarle nei territori impregiudicati della fiction, in Storia di una fotografia inversamente la lingua russa radica la riflessione di stampo saggistico nei meandri privati della biografia.

Considerazioni generali riguardo la tensione tra due ordini temporali differenti implicita in qualsiasi fotografia vengono così rilette alla luce del rischio che la nostra posizione di osservatori esterni all’inquadratura finisca per coincidere con quella dei fotografi-perpetrators. D’altronde, anche Ulrich Baer nel suo Spectral Evidence. The Photography of Trauma, osservava che «each photography, by virtue of the medium, inevitably turns the viewer into a latecomer at the depicted site», e l’autrice, descrivendo in Forse Esther una foto scattata nel 1940 nel ghetto di Varsavia, gli fa eco: «Per strada ci sono molte, moltissime persone, alcune mi guardano, piene di paura, come fossi io il pericolo, come fossi io il fotografo, come fossi io uno dei responsabili», notava.

Al contempo, Petrowskaja s’interroga sulla possibilità di mostrare e di guardare i documenti visivi dello sterminio senza perpetuare la violenza già compiuta su quelle persone. Schierandosi istintivamente dalla parte di W. G. Sebald che si sforzava di scurire le immagini riprodotte nei suoi libri, affinché fossero il più possibile vaghe e nebulose, Petrowskaja si aggrappa alle macchie create dalla sovraesposizione come a una involontaria “cortina” capace di rendere meno impudico il nostro sguardo. Riflessioni che evocano quelle di un’altra autrice russa che ha scritto in tempi recenti sui meccanismi e sulla “politica” della memoria, Marija Stepanova. Di fronte alle barriere che all’Holocaust Memorial Museum di Washington impediscono di avvicinarsi troppo alle immagini più scioccanti, Stepanova si chiedeva infatti se non fosse piuttosto il caso di «proteggere loro da noi» e non viceversa, «affinché la nudità pre- e post-mortem rimanga una questione dei morti, senza illustrare nulla, senza evocare nulla, senza fornire appiglio a conclusioni e identificazioni tardive».

Valentina Parisi

Tre anni fa un mio amico, lo storico Ray Brandon – nato in una cittadina battezzata dai nativi americani Chattanooga e specializzato in temi di cui io difficilmente potrei occuparmi per lavoro – mi mandò questa foto, quasi volesse condividere con me un’importante novità. Mi pare che l’avesse addirittura accompagnata con le seguenti parole: «Ho trovato una fotografia che viene da là».

Persone che vanno da qualche parte con dei fagotti in mano, un carretto stracarico, qualcuno seduto sul ciglio della strada, un camion diretto in senso opposto, — ho visto tutto subito, senza che mi soffermassi. Non che ne avessimo parlato spesso, eppure ho capito immediatamente dove andassero quelle donne, perché lì c’erano soprattutto donne, sebbene in testa, obbedendo a non so quale automatismo, mi risuonasse una sequenza di condannati, come scandita da un altoparlante sovietico: «donne, bambini, vecchi».

Ricordo che a colpirmi fu l’apparizione stessa della foto, non credevo che da quel non-essere, da là, riemergessero ancora delle immagini. Benché la fotografia fosse sul mio computer e potessi zoomare avanti e indietro, chissà perché mi ero convinta di averla tenuta in mano; la sensazione di reverenziale terrore che provavo era legata al contatto con l’oggetto materiale — quella foto che, letteralmente, mi ardeva sulle punte delle dita. Ma evidentemente non era stato così. Avevo l’impressione che la fotografia fosse l’unico oggetto rimasto di quei viandanti, dunque si era già trasformata in reliquia sotto i miei occhi, senza cessare di far parte del mondo digitale.

Per tre anni non l’ho più toccata. Forse quel timore era dovuto anche al fatto che si trattava di un confine al di là del quale agli uomini è proibito guardare. E, insieme al terrore, sentivo anche uno strano tepore, come se il rinvenimento e la presenza stessa di questa fotografia per un istante salvassero qualcuno, perché finché noi la guardiamo — loro vanno.

Quando guardiamo vecchie fotografie, volti del remoto passato, sappiamo che quelle persone non ci sono più, sono morte. Ogni foto vecchia reca impresso il sigillo della morte — l’acquisizione di un’immagine viva e la morte sono legate in un unico nodo. Ma nella fotografia che abbiamo davanti c’è una differenza sostanziale: queste persone non moriranno dopo, al termine della loro vita, bensì oggi, tra qualche ora. Le uccideranno tutte. Come capita di vedere i riflessi di un incendio fuori inquadratura sui volti “catturati” dall’obiettivo di chi vi assiste, anche qui su tutti i presenti si scorge il riverbero della morte. Che però è fuori dall’inquadratura. Più avanti. Questi viandanti sono ormai nelle immediate prossimità della morte. La morte li illumina e, evidentemente, pure loro cominciano a capirlo.

Questa fotografia è terribile anche perché, più o meno a partire da qui, le donne iniziano a sentire gli spari. Chi è alla testa di quell’infinita colonna che ormai da due giorni attraversa Kiev viene fucilato adesso a Babij Jar. Qui si trova il primo cordone, il primo posto di blocco, d’ora in avanti nessuno potrà più uscire dalla folla. Gli accompagnatori vengono cacciati via. Tutto si accelera. Ray sapeva esattamente dove si trovasse quel punto, aveva studiato la questione nei minimi dettagli, mi aveva inviato vecchie mappe d’anteguerra, altre tedesche, dell’occupazione, e altre ancora, recenti, aggiungendo di aver effettuato più volte lo stesso percorso su Google Maps. Ricordo che allora, tanto tempo fa, mi aveva detto: «Si stanno avvicinando al primo posto di blocco», — ovviamente non aveva detto proprio così; aveva utilizzato la parola Außensperre, perché parlavamo un salvifico miscuglio di lingue, tedesco per via dei documenti e inglese, l’inglese che tutto sopporterà. Quando chiesi a Ray come facesse a sapere che quelle persone sentivano già gli spari, mi rispose che era cresciuto in una fattoria del Tennessee e conosceva bene le qualità acustiche della loro diffusione nello spazio.

Forse, questa è anche la storia di chi non riesce più a uscire da quella folla neppure dopo tanti anni, la storia di Ray che alla metà degli anni Novanta era capitato a Kiev e dopo quel viaggio aveva cominciato a interessarsi alla guerra o, più precisamente, all’Olocausto. Allora «Olocausto» era per noi una parola nuova, perfino un po’ indecente nella sua nuda, sterile chiarezza — e sembrava che chiunque se ne occupasse avesse le sue buone ragioni genetiche, l’alibi di essere ebreo o tedesco, per sempre stregato, prigioniero di quella guerra, di quella catastrofe da cui non si riesce a uscire. Ma Ray col suo ranch pareva al di sopra di ogni sospetto, non era ebreo né un discendente dei diretti partecipanti, e per questo già allora, negli anni Novanta, mi sentivo un po’ a disagio all’idea che un ragazzo di Chattanooga si occupasse dei crimini compiuti dalla Wehrmacht nella mia terra e andasse a lezione di yiddish da un’insegnante di nome Ester. Solo per il fatto di stare a Kiev e di dedicarsi a tutto ciò a cui non mi dedicavo io, stabiliva un legame per me enigmatico che noi  — o, almeno, molti di noi, — diretti discendenti di quelle tragedie, abitanti della città, non eravamo in grado di attuare — o, semplicemente, non ne avevamo la forza.

La foto è stata trovata in un archivio della Germania meridionale. L’ha scattata un ufficiale del 303esimo battaglione della polizia di Brema, che aveva preso parte alle operazioni speciali in Ucraina all’inizio della guerra. E, di nuovo, come da un megafono, sento la voce che, dopo lo sterminio degli ebrei di Kiev alla fine di settembre, annuncia a Berlino che l’operazione è stata portata a termine con successo. Ma piuttosto no: il termine utilizzato doveva essere reibungslos — in modo inappuntabile, senza complicazioni, liscio come l’olio.

E anche il fatto che a scattare questa foto sia stato un abitante di Brema non mi dà pace, perché Brema è cara a tutti noi per via della favola (e per di più a Brema si trova uno dei migliori archivi dedicati all’Europa orientale, che ospiterà anche l’archivio di mio padre). Un’inquadratura sola — ed è come se la città si contraesse, prima dello «sparo». La fotografia è una caccia pericolosa, può sempre succedere di diventare cecchino senza volerlo o di cadere vittima di qualcuno. Questo rischio si riflette nella lingua: in tedesco e in inglese il verbo «fotografare», schiessen o shoot, è identico a «sparare». La lingua stessa cela in sé il delitto.

Queste persone vanno verso l’incrocio di via Mel’nikov con via Degtjarëvskaja, il punto di raccolta per il «trasferimento degli ebrei», era stato annunciato proprio lì, ed era laggiù che bisognava presentarsi con le proprie cose. Nella folla ci sono donne e bambini (quasi tutti gli uomini erano in guerra), donne e uomini anziani — «patriarchi biblici», ricorda una testimone oculare, come da tempo non se ne vedevano in giro. Non vigeva alcun divieto di guardarli ma, dopo le esplosioni sul Kreščatnik e l’incendio scoppiato in centro, Kiev era come colta da paralisi, pietrificata dal terrore, e le strade erano quasi deserte. Molti però erano alle finestre, a osservare quel fiume interminabile di famiglie al completo, ragazze e bambini. La gente guardava e poi scriveva — sono rimaste in tutto alcune testimonianze —, scriveva scontrandosi con l’impossibilità di comprendere e di raccontare cosa stesse accadendo.

Guardo questa foto troppo contrastata e le sue macchie bianche iniziano ad accecarmi, come se un vuoto ignoto avanzasse verso quelle persone e cercasse di inghiottirle, come l’oblio, la solitudine a cui furono condannate allora, e poi ancora a lungo dopo, nella memoria generale. Quasi il processo fotografico, con queste macchie bianche, sovraesposte, fissasse il loro essere stati abbandonati da tutti. «Nell’infinita processione del proprio funerale» — oddio, ma chi l’ha detto?! — stanno arrivando a Babij Jar che, dopo il loro assassinio, passerà alla storia come luogo della più grande fucilazione di massa di tutto l’Olocausto (la mia città ha di che andare orgogliosa).

Quest’anno il 29 settembre è semplicemente una data, ma allora, il 29 settembre del 1941, cadeva lo Yom Kippur — il Giorno dell’espiazione, il Giorno del perdono universale per il giudaismo. Chi sta espiando qui e che cosa, chi deve perdonare chi? E poi cosa può accadere di brutto nel Giorno del perdono universale? Che idea geniale da parte degli occupanti («diabolica» suona troppo frivolo, superficiale) usurpare il potere sul calendario ebraico, come se tutto ciò non fosse organizzato da loro, ma avvenisse per volontà superiore dello stesso dio degli ebrei. Anche se molti non credevano più in lui, si sentirono comunque tenuti a presentarsi con le proprie cose.

È noto che le testimonianze visive di questo genere, tranne rarissime eccezioni, sono state realizzate dai carnefici stessi. Guardando queste persone assumiamo il punto di vista degli assassini, la loro ottica? E, in generale, si possono pubblicare queste foto all’interno di un flusso in rapida successione di immagini e pubblicità variopinte, così, come se nulla fosse? Pubblicare foto i cui soggetti stanno andando verso la morte a cui sono stati condannati da chi adesso li sta fotografando? Eppure, scattandole, costoro hanno prodotto una testimonianza materiale per la memoria. E qui, praticamente, non riesco più a fare passi in avanti.

Da una parte mi sembra indispensabile mostrare quest’immagine e incarnare l’esistenza di coloro che vanno, onorarli almeno in questa maniera goffa, perché soltanto così, sebbene si tratti di una nostra illusione, possiamo allungare un pochino la loro esistenza, rimandando l’istante della morte. Dall’altra però mi invade una sensazione tremenda di disagio, come se mostrando questa foto diventassi testimone di ciò che sta avvenendo. Come se mi trovassi non solo sul ciglio della strada, ma addirittura tra gli assassini, poiché nessuno se non loro poteva scattare questa foto. L’uomo con la macchina fotografica qui è parte della macchina di morte e violenza del Terzo Reich, l’apparecchio fotografico lo rende immune ai sentimenti umani, perché lui è soltanto parte di un sistema, di un gigantesco meccanismo ben oliato.

Forse, l’atto stesso di osservare è una manifestazione di libertà, e qui, inaspettatamente, ci viene incontro un’altra macchina, il computer, permettendoci di ingrandire e di avvicinare l’immagine, di distinguere i particolari, di indugiare, di farla entrare in noi, senza uscire da casa. Forse è proprio la cattiva qualità di questa fotografia a umanizzare lo sguardo, a creare una cortina di pudore. È la nebulosità di quest’immagine fuori fuoco che contiene qualcosa di pauroso, d’incomprensibile, a darci la possibilità di scivolare via.

Io non voglio, eppure non posso non guardarle, queste persone con i fagotti che spingono il carretto, questa vecchietta dall’andatura buffa, questa donna anziana col cappotto scuro sottobraccio a una giovane col cappotto chiaro, vorrei riconoscere qualcuno — un desiderio assurdo, come quando negli elenchi dei condannati a morte dei tempi passati quasi automaticamente cerchiamo il nostro cognome.

Vedo le rotaie del tram. Il camion va controcorrente. Porta via gli oggetti dei fucilati? Ecco una donna che si è voltata indietro. Una ragazza ben vestita sembra come slanciarsi in avanti. È la più vicina al fotografo, gira quasi la testa verso di lui, sugli occhi cade un’ombra, la mano sul cuore. Domanda qualcosa? Ha freddo? Accanto a lei avanza una vecchietta magra, deperita, sembra un’ombra, — si sono ritrovate vicine soltanto per caso, ma il loro destino è lo stesso. Non ho la forza di concentrarmi su ciò che le aspetta, e penso agli indumenti invernali che hanno indossato tutti, ai fazzoletti sulle loro teste, mi chiedo se facesse effettivamente così freddo. Forse si sono vestiti così per essere meno carichi, o magari perché avevano ordinato loro di presentarsi con le cose di valore, ad esempio le pellicce? Guardo la povertà che trapela qui e penso: camminano e intanto pensano a che cosa li attenderà, quando arriverà davvero l’inverno.

(traduzione di Valentina Parisi)

Il testo originale russo è uscito il 28 settembre 2021 su «Bird in Flight»

Immagine di copertina: Staatsarchiv Amberg, Staatsanwaltschaft Regensburg 9294/32

Katja Petrowskaja

nata nel 1970 a Kiev in una famiglia di origini ebraiche, ha studiato filologia e slavistica all’università di Tartu, terminando poi gli studi a Mosca e nel 1999 si è trasferita a Berlino. Il suo romanzo d’esordio “Forse Esther” (Adelphi 2014) ha vinto l’Ingeborg-Bachmann-Preis, l’Aspekte-Literatur Preis, l’Ernst-Toller-Preis e il Premio Strega Europeo. Sua è l’introduzione alla prima edizione italiana del libro di Pavel Muratov, “Immagini dell’Italia” (Adelphi 2019). Vive tra Berlino, Tbilisi e Kiev. (ph. Sasha Andrusyk)

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