Contro la moda. La filosofia del vestire di Oscar Wilde

03/12/2021

Da un libro che ha per titolo Filosofia del vestire ci si aspetterebbe un’apologia della moda. Tanto più che il suo autore, Oscar Wilde, è inserito tra i massimi esteti che abbiano calcato la terra di Albione. Eppure, il lettore, scorrendo le pagine di questo volume, si accorgerà che non vi è nulla di più osteggiato, nell’argomentazione wildiana, della moda. La moda è la negazione di ogni bellezza.

La moda è, infatti, legata alla storia, all’effimero alterarsi del gusto e di un gusto schiavo del conformismo sociale. In questo senso, affidarsi alla moda, seguire la moda, significa abdicare alla propria libertà. Detto, altrimenti significa rinunciare alla bellezza. “La bellezza dell’abito, come la bellezza della vita, viene sempre dalla libertà”.

Se, certamente, Wilde qui rifiuta, in filigrana, l’idea baudelairiana di bellezza moderna, quale punto di equilibrio tra l’istante e l’eterno – e la rifiuta, seguendo la grande scuola inglese che va da Ruskin a Pater, in nome di un’idea imperitura di bellezza, di una forma atemporale e astorica che, potremmo dire, coglie l’essenza immobile dell’esistenza – è anche vero che questa forma ideale si sovrappone, per lui, con l’esperienza stessa della libertà. Libertà e necessità, all’interno di questa linea di pensiero, coincidono nella bellezza.

Si potrebbe dire che Wilde sia un classicista libertario, cioè uno spirito libero che rifiuta di piegare l’oggi all’estemporaneità di gusti infondati, per legare invece la contemporaneità all’attualità, cioè alla riattualizzazione infinita di una forma immobile. La forma del bello non è fissata una volta per tutte e non si tratta di riprodurla indefinitamente in modo identico. Questo è il sogno nostalgico del reazionario. La forma del bello o il bello in quanto manifestazione della forma richiede, invece, un atto, un’azione capace di riattivare, nel tempo, ciò che è al di fuori del tempo e, dunque, al riparo da ogni moda. “Le epoche vivono nella storia attraverso i loro anacronismi.”

In questo senso, anche il vestire, come ogni altro ambito che abbia una relazione con il bello (ma quale ambito dell’esistente può essere escluso da un tale rapporto?), non dovrebbe in nessun modo essere un dominio della moda ma, semmai, dell’arte, proprio perché l’arte mira alle leggi universali della forma e non al capriccio del gusto. L’arte non ha alcuna necessità di evoluzione – come invece ha la moda nel susseguirsi vertiginoso di figli che divorano i padri – perché si pone al di fuori del tempo e cerca, anzi, proprio ciò che si sottrae alla durata e quindi alla fine. “Perché quella bellezza che l’arte sottende non è un mero accidente dell’esistenza umana che si può prendere o lasciare, ma una concreta necessità della vita, se vogliamo vivere come la natura ci ha voluto, ossia se non ci accontentiamo di vivere al di sotto del livello umano.”

Solo attraverso questa inversione prospettica, Wilde riesce a liberare l’individuo da una uniformante indistinzione, dettata da fattori spesso deprimenti, quali l’economia industriale e il dominio della medietà. “L’industria è la radice di ogni bruttezza.”

L’arte del vestire è quella prassi che, al contrario, “permette, anzi, ordina, a ciascuno di loro [agli individui] quella perfetta libertà che deriva dall’obbedienza alla legge, e che è qualcosa di gran lunga più benefico per l’umanità della tirannia delle stringhe del corpetto o dell’anarchia delle tinture all’anilina”. 

La moda imbriglia l’individuo in un gusto che non gli appartiene e che, surrettiziamente, gli viene imposto; l’arte sviluppa, in ogni uomo o donna che si sottoponga alle sue leggi, il senso della propria individualità, della propria unicità insopprimibile. Perché la bellezza possa trasparire nel vestire, come in ogni altro aspetto della vita, “sarà necessario che in ogni uomo e in ogni donna sia insito un senso di individualismo, perché questa è l’essenza dell’arte”.

La moda è, dunque, il gran nemico dell’arte, in quanto generatrice di bruttezza e di schiavitù. E questo era vero per la società tardo ottocentesca di Wilde, così come è vero oggi. È, quello che emerge da queste pagine, uno Wilde, come sempre, anticonformista, attento, lucido, incapace di piegarsi alle mezze verità del proprio tempo. Ed è sicuramente questo l’Oscar Wilde che più ci tocca e che più ci dà da pensare. Si tratta di un pensatore di un’estrema lucidità, ancora più efficace in un tempo come il nostro.

Wilde è, in fondo, una sorta di antidoto alla stupidità e, a maggior ragione, di quella stupidità che si vuol agghindare con gli abiti dell’intelligenza, apparendo come avanzata, come adeguata ai tempi; meglio sarebbe dire, alla moda. E davvero poco importa se la moda assuma, allora come oggi, tratti moraleggianti, quei tratti, tanto più fastidiosi quanto più ipocriti (visto il mondo industriale, cioè votato esclusivamente al profitto, da cui nascono), dove si nasconde la reale ingiustizia mondana sotto l’apparenza di inclusione del diverso. E nessuna importanza ha qui se la diversità sia di razza, di genere, di specie. Anche su questo punto, Wilde aveva visto lontano: “attualmente i giornali stanno facendo di tutto per indurre il pubblico a giudicare uno scultore, per esempio, mai in base alle sue statue ma in base al modo in cui tratta la moglie; un pittore in base a quanto guadagna e un poeta in base al colore della cravatta”. Anche se Wilde si stupirebbe di quanta strada abbia fatto quel puritanesimo, oggi ormai di destra e di sinistra, nel mondo contemporaneo; e quali tragicomici disastri culturali e sociali stia producendo un pensiero che ritiene di dover giudicare il bello e l’arte (e il pensiero) sulla base di comportamenti morali. Come certo sulla base di convincimenti morali profondi, fu condannato Wilde a marcire nelle prigioni del Regno Unito.

I moralisti, da sempre, sono incapaci di cogliere il proprio moralismo conformista, perché, da sempre, sono ciechi all’enormità, all’essere fuori da ogni norma, dell’individuo. E poiché i moralisti non vedono questa enormità e non colgono come questa enormità sia, però, sottoposta a una legge universale dettata da una forma autostrutturantesi in modo poietico, ricoprono l’infondatezza del proprio argomentare con cliché, parole d’ordine, pensieri alla moda, cioè con forme di coercizione, di fatto, violente e omogeneizzanti. La morale come antitesi della verità dell’individuo, cioè come antitesi della verità tout court.

A partire da questi presupposti, si può comprendere perché Wilde affermi, in uno dei suoi testi capitali, Declino della menzogna, che l’intera esistenza dovrebbe essere riportata a ciò che in modo più autentico riesce a mostrarla, l’arte. L’arte, che non è mai imitazione della vita, ma sua creazione, sua messa in forma. La vita, in quanto dimensione naturale, non è nulla, semplice coacervo di forze senza senso, di cui la moda, nelle sue forme migliori, è solo specchio. L’arte vive invece della propria libera autonomia agente e plasmante. Guarda al di là del dato e cerca la forma. L’arte è immaginazione creativa. Una vita degna di questo nome è, quindi, una vita che imita l’arte, cioè che trova espressione nell’arte o, per dir meglio, vi trova un’espressione formale, una forma bella. Solo in questo modo l’energia insensata dell’esistenza attinge una propria dimensione di senso e una bellezza indefinibile e non replicabile nella sua unicità.

Se l’arte, dunque, per il senso comune, crea un mondo non vero, a fianco di quello reale, del mondo della dura realtà dei fatti, allora questa menzogna, questo artefatto che cerca in se stesso la propria legge ed è quindi autonomo da ogni condizionamento, è il fine ultimo dell’arte. Ed è il fine ultimo dell’arte perché, in fondo, è la sola verità possibile, la sola verità degna di questo nome. Una verità che si forgia nel cuore stesso della vita, rendendo alla vita la propria unicità irripetibile.

La bella menzogna dell’arte è, in realtà, la verità più profonda dell’esistenza: è una verità incarnata e declinata in ogni aspetto della vita di un individuo. Il resto è solo l’inutile sommarsi di opinioni alla moda senza realtà, destinate ad amplificarsi nella massa e a durare solo una stagione, per essere sostituite, data la loro inconsistenza, da altre opinioni, altrettanto inconsistenti. Poiché “una verità cessa di essere tale quando vi crede più di una persona.”

Una verità, detto altrimenti, ha sempre un corpo. O, per ritornare all’inizio, ogni verità è un habitus, i greci dicevano un ethos. Una filosofia del vestire diviene così un’etica dell’esistenza o un cammino nella verità. Una vita all’altezza della verità è, inevitabilmente, un’opera d’arte totale. O, per dirla con Wilde, “si dovrebbe essere un’opera d’arte, o indossarne una.”

Oscar Wilde
Filosofia del vestire e altri scritti sull’estetica del quotidiano
A cura di Alessandra Salvini
Lanfranchi, pp. 130, € 20

Federico Ferrari

(Milano, 1969). Insegna Filosofia dell’arte all’Accademia di Belle Arti di Brera. Tra i suoi ultimi libri: “L’insieme vuoto. Per una pragmatica dell’immagine” (Johan & Levi, 2013), “L’anarca” (Mimesis, 2014; 2a ed. Sossella, 2023), “Oscillazioni” (SE, 2016), “Il silenzio dell’arte” (Sossella, 2021), “L’antinomia critica” (Sossella, 2023) e, con Jean-Luc Nancy, “Estasi” (Sossella, 2022).

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