È uscito da Fabrizio Serra Editore il secondo numero di «Immagine & Parola», la rivista diretta da Giorgio Patrizi della quale già abbiamo segnalato l’esordio. Il fascicolo è dedicato all’antinomia «Visibile/Invisibile» e dopo un’introduzione di Patrizi reca contributi di Amador Vega Esquierra, Massimo Carboni, Antonio Valentini, Marcello Carlino, Alessandro Alfieri, Elisa Coletta, Giorgio Rimondi, Daria Farafonova, Vega Tescari e Claudia Cieri Via; Lucia Corrain recensisce Vedere ad arte del compianto Paolo Fabbri. Per la cortesia del direttore della rivista e dell’autore proponiamo i nostri lettori il contributo di Victor Stoichiţă (aggiornamento di un testo publicato già in spagnolo e inglese nel catalogo della mostra La Sombra, Museo Thyssen-Bornemisza, Madrid e in francese nel suo ultimo libro, Des Corps. Anatomie, défenses, fantasmes, Ginevra, Droz, 2019), nella traduzione di Bianca Concolino Abram e Giorgio Patrizi. La rivista verrà presentata il 2 dicembre, alle 17, a Palazzo Barberini a Roma, da Flaminia Gennari Santori, Piero Boitani, Francesca Cappelletti, Stefano Chiodi, Andrea Cortellessa e Marco Ruffini.
Uno dei pellegrini che facevano sosta a Emmaus è rimasto a bocca aperta (fig. 1, copertina). Vuole alzarsi, ma rimane inchiodato, in uno stato di incertezza, paralizzato dallo stupore. Nemmeno il suo compagno più anziano crede ai propri occhi. Allunga la mano come in cerca di prove, ma il suo gesto si blocca, poco prima di toccare l’uomo che, seduto a destra, è diventato l’oggetto di tutti gli sguardi, di tutte le meraviglie, ma anche di tutte le incertezze. È attento, il pellegrino, a non toccare quello che dovrebbe rivelarsi nella propria verità corporea solo attraverso la vista. Fugge dalla tentazione di Tommaso, il fratello incredulo, che, «otto giorni dopo», dovrà «toccare per credere» (fig. 2).

Nell’affrontare due scene del ciclo delle «Apparizioni» di Cristo, il pittore neerlandese Matthias Stom si confronta con due delle sfide più difficili che un pittore abbia mai conosciuto: tradurre in pittura un testo evangelico che tematizzi l’ambiguità della vista e entrare in competizione, o addirittura superare, uno dei pittori più rinomati per il successo di questa impresa, Caravaggio.[1]
Iniziamo con la prima sfida e rileggiamo il racconto dell’incontro e della cena a Emmaus, come è stato impostato da Luca:
Quello stesso giorno, due discepoli stavano andando in un villaggio chiamato Emmaus, che era a sessanta stadi da Gerusalemme; e conversavano tra loro di tutto quello che era accaduto. Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro. Ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo. […] Quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano. Ma essi insistettero: «Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto» […] Quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero; ma egli sparì dalla loro vista (et aperti sunt oculi eorum et cognoverunt eum et ipse evanuit ex oculis eorum).[2]
La scena, nella descrizione che ne dà Luca, si svolge al crepuscolo. Stom la rende notturna: al centro del tavolo troneggia una candela che dà corpo e volume al pane diviso e illumina dal basso verso l’alto i volti dei presenti. La presenza di Cristo gode dello stesso grado di realtà degli altri personaggi, e il “riconoscimento” avviene alla luce di una candela che accende e allo stesso tempo “iconizza” il suo volto. Tuttavia, parte del corpo di Gesù rimane annegata in un’ombra profonda. Una delle trovate più notevoli di questo pittore consiste nel modo in cui si avvicinò al punto più delicato e scabroso della storia di Luca. Questo punto riguarda il rapporto dialettico tra la comparsa e la scomparsa che Stom esegue attraverso il chiaroscuro pittorico. Il Cristo emerge dalle tenebre, in piena luce, ma l’ombra profonda che domina tutta la parte destra del dipinto, può inghiottirlo da un momento all’altro. È un tentativo piuttosto audace di dare al chiaroscuro, a parte le sue ineliminabili qualità pittoriche, qualità narrative: «i loro occhi si aprirono e lo riconobbero; ma egli sparì dalla loro vista».
Nella pittura, apparizione e sparizione introducono luce e oscurità nella narrazione. La sfida è ancora più grande perché tradurre in pittura un testo evangelico che tematizzi l’ambiguità della vista deve rendere credibile ciò che appartiene all’ordine del prodigio, cioè dell’incredibile. Questo è ciò che emerge dallo stesso episodio, molto più concentrato (senza essere più povero), come è narrato in Marco:[3]
[Gesù] apparve sotto un altro aspetto a due di loro (post haec autem duobus ex eis ambulatibus ostensus est in alia effigie), mentre eranoin cammino versola campagna. Anche essi ritornarono ad annunciarlo agli altri, ma credettero neppure a loro.[4]
Questa volta, il testo non parla né del calare del sole, né della cena o della sua gestualità rituale, né del rapporto fluttuante tra apparizione e scomparsa. Dice solamente – ma è già molto, cioè immenso – che «Gesù si è mostrato in un altro aspetto».
Cos’è questo «altro aspetto» (in alia effige / hétera morphé)? Quale è il suo grado di visibilità? E come rappresentarlo nella pittura? Questa domanda, latente in tutta l’iconografia delle “apparizioni”, emerge con tutta la sua forza, e come formulata per la prima volta con tutta la dovuta gravità, nella pittura di Caravaggio. Le fonti scritte insistono sul fatto che il pittore ha dipinto due versioni della Cena a Emmaus [5], leggermente differenti:
[…] al Marchese Patrizi [egli fece] la Cena in Emmaus, nella quale vi è Christo in mezzo che benedice il pane, & uno de gli Apostoli a sedere nel riconoscerlo, apre le braccia e l’altro ferma le mani sù la mensa, e lo riguarda con maraviglia: evvi dietro l’hoste con la cuffia in capo & una vecchia, che porta le vivande. Un’altra di queste inventioni dipinse per lo Cardinale Scipione Borghese alquanto differente; la prima più tinta, e l’una, e l’altra alla lode dell’imitatione del colore naturale; se bene mancano nella parte del decoro, degenerando spesso Michele nelle forme humili, e vulgari. [6]

Chiosando i due dipinti di Caravaggio (fig. 3 e fig. 4), Gian Pietro Bellori, critico e storico della pittura di gusto classicista, richiama l’attenzione sui problemi pathognomici della “scena di riconoscimento”, accentua la tematizzazione dello “sguardo sorpreso”, insiste sul “realismo”, cioè sulla volgarità di certi dettagli, esaltando al contempo il carattere sperimentale dei colori caravaggeschi. A un’attenta lettura della biografia che Bellori dedica al pittore lombardo, ci rendiamo conto che la ricerca intorno al “colore naturale” è l’elemento fondante di una “rivoluzione” pittorica e che porta a tutta una serie di novità:
Il Caravaggio […] facevasi ogni giorno più noto per il colorito, ch’egli andava introducendo, non come prima dolce, e con poche tinte, ma tutto risentito di oscuri gagliardi, servendosi assai del nero per dar rilievo allì corpi. E s’inoltrò egli tanto in questo suo modo di operare, che non faceva mai uscire maniera di campirle entro l’aria bruna d’una camera rinchiusa, pigliando un lume alto che scendeva a piombo sopra la parte principale del corpo, e lasciando il rimanente in ombra à fine di recar forza con vehemenza di chiaro, e di oscuro. Tanto che li pittori all’hora erano in Roma presi dalla novità, e particolarmente li giovini concorrevano a lui, e celebravano lui solo, come unico imitatore della natura, e come miracoli mirando l’opere sue, lo seguitavano à gara, spogliando modelli; & alzando lumi; e senza più attendere a studio, e insegnamenti, ciascuno trovava facilmente in piazza e per via il maestro è gli esempi nel copiare il naturale. La qual facilità prendendo gli altri, solo i vecchi pittori assestati alla pratica, rimanevano sbigottiti per questo novello studio di natura; nè cessavano di sgridare il Caravaggio, e la sua maniera, divolgando ch’egli non sapeva uscir fuori dalle cantine, e che povero d’invenzione, e di disegno, senza decoro, senz’arte, coloriva tutte le sue figure ad un volume, e sopra un piano, senza degradarle. Le quali accuse però non rallentavano il volo alla sua Fama.[7]

Confrontando questi due passi di Bellori, comprendiamo come l’approccio al tema della Cena di Emmaus fosse del tutto congeniale allo spirito di Caravaggio, perché coinvolgeva lo studio dei corpi in uno spazio chiuso, utilizzando una drammatizzazionedel rapporto tra ombra e luce, culminata in un vero e proprio “miracolo pittorico”. Ma comprendiamo anche la sfida che questa scena lanciava a un pittore che si voleva principalmente“imitatore della natura”. Come rappresentare la fugace apparizione del Cristo risorto, nella sua doppia qualità, in quanto “presenza reale” e, allo stesso tempo, nella sua radicale alterità. Cioè come rappresentarlo alla stregua del Vangelo “in un’altra forma” / in alia effigie / hetera morphé.
Altri pittori[8], prima di Caravaggio (Tiziano, Veronese), scelsero la soluzione piuttosto semplice della testa aureolata o sfocata con una luce diffusa al momento dell’epifania. Altri (Moretto da Brescia, Zurbaràn) hanno fatto o faranno ricorso a un travestimento di Cristo, che si mostra così in incognito, “sotto un altro aspetto”, nei vestiti di un povero pellegrino. In Caravaggio non c’è luce soprannaturale, ma piuttosto, come dice Bellori[9], «un lume alto che scendeva a piombo sopra la parte principale del corpo». Nella Cena della NationalGallery di Londra (fig. 3), probabilmente la prima in ordine cronologico delle due tele che Caravaggio dedica al tema, si può cogliere un intero lavoro sull’illuminazione, attraverso un gioco dinamico di ombre proiettate. Qui, il linguaggio dei segni («prese il pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò») presenta un alto grado di ambiguità[10]. L’azione rivelatrice della fractio panis[11] non è in effetti rappresentata direttamente, e anche il pezzo di pane – elemento simbolico fondamentale dell’antica iconografia della Cena di Emmaus – è così ben nascosto che lo spettatore deve fare un vero sforzo per scoprirlo, seminascosto dietro un pollo arrosto che troneggia al centro della tavola. Cristo stesso si mostra “in un altro aspetto”, vale a dire imberbe, apollineo, senza tempo[12]. Sulla sua testa, invece dell’aureola, si coglie un gioco di ombre. Questa “anti-aureola” deve essere intesa come segno ambiguo di una reale presenza di Cristo tra i suoi discepoli[13]. Cristo è “là”, in tutta la sua presenza e, nello stesso tempo, in tutta la sua alterità.

Imparare a manipolare e utilizzare le ombre proiettate(gli sbattimenti d’ombra)[14] è stato senza dubbio uno degli aspetti importanti della formazione culturale di Caravaggio. In uno studio fondamentale, Luigi Spezzaferro dimostrò il debito che il giovane pittore esule dal Nord aveva nei confronti dell’ambiente intellettuale del cardinale Francesco Maria del Monte, suo protettore romano. Il fratello di quest’ultimo, Guidobaldo del Monte, era autore di un testo approfondito sulla prospettiva (1600), in cui la presenza delle ombre proiettate occupava uno dei capitoli essenziali. (fig. 5) Nella descrizione del “metodo Caravaggio”, prima citata, Bellori probabilmente si riferisce a lui e un altro accenno si legge in filigrana all’ incisione[15] che pone all’inizio della biografia di Caravaggio, nelle Vite dei pittori moderni del 1674 (fig. 6).[16]

Questa incisione ha tutta l’aria di un programma. Illustra «la pratica dell’imitazione delle cose naturali», opponendosi così alla ben nota incisione, che inaugura il manifesto della pittura idealista, il cui araldo era lo stesso Bellori (fig. 7). Questa incisione e il testo che l’accompagna parlano della capacità della pittura di andare oltre le apparenze terrene, della sua capacità di catturare «i corpi celesti», di trascendere il mondo in basso, in nome della bellezza ideale.[17]

Considerata in questo contesto, la prima versione della Cena di Emmaus di Caravaggio si rivela essere un’esperienza di grande complessità, perché ciò che questo dipinto propone è infatti la cattura di un celeste corpo (il corpo del Cristo risorto) come forma naturale. La sua presenza alla “Cena” è, al tempo stesso, reale e simbolica.
In uno studio pubblicato nel 1977, Charles Scribner ha fatto un ulteriore passo nella ricostruzione delle questioni iconografiche di questo dipinto, evidenziando le sue connotazioni eucaristiche[18]. Con grande precauzione, relega il punto più delicato della sua interpretazione in una nota a piè di pagina. Questo punto si riferisce alla natura morta con fichi, melograni e uva in primo piano del dipinto, su cui Bellori si era già soffermato, e si concentra soprattutto sull’ombra che questa natura morta proietta sulla tovaglia bianca (fig. 8), che potrebbe suggerire la forma di un pesce, antico simbolo cristico.[19]

Ci si può giustamente chiedere fino a che punto sia possibile, se non necessario[20], una lettura emblematica dell’arte di Caravaggio e la cautela con cui viene presentata l’ipotesi di Scribner e Liedtke in questa nota dovrebbe senza dubbio essere accolta con favore. L’allusione al simbolismo paleo-cristiano del pesce (IHTUS) rimane una mera ipotesi, senza una soluzione reale, e i dubbi che suscita hanno comunque il merito di attirare l’attenzione sulla necessità di approfondire la riflessione su come Caravaggio abbia affrontato il problema della somiglianza. Il caso della Cena di Emmaus è particolare, perché la rappresentazione della “somiglianza” riguarda qui una storia di apparizione / scomparsa: Cristo appare come “somigliante”, “in un’altra forma”, solo per sparire subito dopo.
Le ombre proiettate devono essere comprese in questo contesto e il successivo dipinto di Caravaggio le riformula. Più tardi Matthias Stom darà il suo contributo alla pratica del chiaroscuro caravaggesco. Nella sua Cena di Emmaus (fig. 1), Cristo emerge dal nulla oscuro che potrà inghiottirlo da un momento all’altro, mentre nell’Incredulità di Tommaso (fig. 2), il Salvatore viene messo in scena in modo tale che la sua “presenza” si propone piuttosto come un “passaggio”, lasciando al suo corpo la dovuta consistenza, capace di trasformarlo, per un momento, in un vero e proprio “schermo” su quale si proietta un’ombra, quella dell’incredulo.
I pittori della generazione successiva si mostreranno estremamente attenti a tutti questi aspetti. L’esperienza di Rembrandt è forse la più originale delle tante esperienze che derivano dalla rivoluzione di Caravaggio. Nel corso della sua vita e in varie forme, il pittore olandese ha affrontato il tema della Cena di Emmaus, spingendo al limite il mistero espresso dal gioco di ombre e luci. Non si tratta di discutere qui tutta la serie di disegni, dipinti o incisioni di questo pittore, che testimoniano la sua quasi-ossessione[21]. Tuttavia, è necessario fermarsi sulle immagini, dove lo spirito scrutante e innovativo di Rembrandt appare nella sua più grande complessità.

Si può iniziare da uno dei disegni attribuiti al tempo giovanile del maestro di Leida (fig. 9). Realizzata con grande economia di mezzi figurativi e tecnici, questa scena di “riconoscimento” è comunque una grande iperbole. È il risultato di un vero e proprio crescendo di studi intorno all’effetto delle emozioni sul viso e sul corpo umano, già evidente in Caravaggio o nei Caravaggeschi di Utrecht. In questo piccolo disegno, la sorpresa di uno dei pellegrini, a destra, braccia e mani alzate, è abbozzata con pochi tratti. La presenza dell’oste al centro è ancora più ridotta, grazie agli strumenti figurativi, ma tuttavia i due o tre tratti che delineano questo personaggio rendono il brivido da cui viene attraversato. L’apparizione di Cristo, a sinistra, ancora nell’ombra, segnala il momento chiave della storia: lo spezzare il pane sembra innescare l’esplosione luminosa che illumina la testa del Salvatore accecando i commensali.
In un altro disegno, più tardo (figura 10), Rembrandt centralizza la scena e dà alcune indicazioni sullo splendore del corpo miracoloso, attenuandone però le ombre. Questa riduzione corrisponde probabilmente all’insolito modo in cui il disegno visualizza l’apparizione del corpo di Cristo. Egli è lì, in un atteggiamento eucaristico e “in un altro aspetto” (in alia effigie), coperto da un drappo/sudario, vero «revenant divino», come avrebbe detto Fromentin se avesse conosciuto il disegno[22].

Intorno al 1629-30, poco prima della sua partenza da Leida per Amsterdam, Rembrandt realizzò un piccolo dipinto con il tema La Cena di Emmaus, conservato oggi al Museo Jacquemart-Andrédi Parigi (fig. 11). La scena è divisa. In primo piano c’è il miracolo dell’apparizione e del “riconoscimento”. Attraverso il vano della porta, in secondo piano, a sinistra, si può scorgere una cucina in cui una cameriera, ignara di ciò che sta accadendo in primo piano, prepara la cena. L’illuminazione dei fornelli l’ha ridotta a una silhouette, che non fa che aumentare l’effetto della grandiosa epifania che si svolge in primo piano. Anch’essa è conseguenza del controluce, ma in un ambito completamente diverso. Le due silhouette, quella del servo e quella del Salvatore, sono poste in un rapporto di “rima” figurativa, antitesi e iperbole[23].

Ciò che avviene in primo piano non appartiene all’ordine del quotidiano, ma all’ordine del prodigio. Lo straniero, compagno di un viaggio interrotto (una bisaccia è appesa al muro), sta per spezzare un pezzo di pane, quando… tutto scoppia. Non è chiaro da dove venga esattamente questa luce accecante che irrompe nella stanza. Non c’è illuminazione esterna al quadro (come in Caravaggio), né illuminazione artificiale interna come in uno Stom o come nei suoi colleghi di generazione. Eppure c’è una luce immanente, che può venire solo dallo strano compagno di viaggio o dall’azione quasi magica che sta eseguendo, luce tanto più paradossale in quanto trasforma immediatamente il corpo del risorto in un’ombra. L’alterità dell’apparizione di Cristo “in un altro aspetto” (in alia effigie) non avrebbe potuto essere espressa più sottilmente. Provoca il turbamento dei compagni: quello a sinistra ha lasciato che una sedia si capovolgesse, nello slancio di gettarsi ai piedi di questa impressionante apparizione, mentre l’apostolo del centro, abbagliato, si ritira in stato di shock dell’incontro, come per proteggersi da questo fantasma, ma anche, per vederlo meglio[24].

Questa apparizione è doppiamente al limite del visibile. Per noi, come spettatori del dipinto, questa “altra forma” è chiaramente un profilo d’ombra[25] (fig. 13), mentre per lo spettatore interno (l’apostolo stupito al centro della composizione)[26] (fig 12), si traduce – si può immaginare – in un lampo che terrorizza e che, per il suo eccesso, distrugge le somiglianze. La messa in scena di questa “sur-presenza” porta già in sé i semi della propria scomparsa. Questo è il modo figurativo più audace mai trovato per rendere il paradosso del testo evangelico: «…prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede a loro. Allora si aprirono i loro occhi e lo riconobbero. Ma egli sparì dalla loro vista»[27].

Un disegno più tardo, disolito datato alla fine degli anni ’40 del XVII secolo (fig. 14), mostra che Rembrandt era tentato di andare ancora oltre sul percorso delle sue ricerche. È uno dei pochissimi esempi conosciuti nella storia dell’arte, dedicato alla rappresentazione dichiarata non dell’apparizione di Cristo davanti ai pellegrini, ma della sua scomparsa. Se in tutta l’iconografia della Cena di Emmaus la “scomparsa” era, per così dire, dialetticamente integrata nella messa in scena dell’apparizione, in questo disegno è affrontata direttamente. La sedia su su cui avrebbe dovuto aver luogo l’epifania è abbandonata. Il resuscitato ha lasciato dietro di sé un sudario che poggia sulla sedia ormai vuota e un bagliore che ancora aleggia nell’aria. La messa in scena della “sur-presenza” della Cena del museo Jacquemart-André fa posto qui a una “sur-assenza”. Si tratta di una “assenza forte”, e il matrimonio tra l’iperbole e il paradosso è qui senza dubbio voluto. Questa “assenza forte” è testimoniata non solo dal sudario dimenticato e dalla meteora che tarda a lasciare la stanza, ma anche dall’ombra che questo ancora getta sulle pareti, ingrandendo all’eccesso la figura degli apostoli storditi. Che questa estrema esperienza sia rimasta un disegno, senza condurre ad una rappresentazione pittorica chiara e definitiva, rimane di per sé un fatto significativo, perché la rappresentazione dell’“effetto scomparsa” è una sfida che va oltre le possibilità della pittura.

[1] Maggiori dettagli in Benedict Nicolson, Stomer brought up-to-date, «The BurlingtonMagazine», CXIX (1977), pp. 230-245 e in Ivan Gaskell, Seventeenth-century Dutch and Flemish Painting: TheThyssen-Bornemisza Collezione. Londra, Sotheby’s, 1990, 516-519.
[2] Vangelo di Luca, 24, 13-16, 28-31. Da Vangeli e Atti degli Apostoli, nuovo testo CEI, Sei 2008, p. 229.
[3] Osservazioni importanti su questo passaggio in Lucia Corrain, Il velo dell’arte,Firenze-Lucca, Volo Editori, 2016, pp. 89-109.
[4] Vangelo di Marco, 16, 12-13, da Vangeli e Atti degli Apostoli, cit., p. 143.
[5] Lorenzo Pericolo. Visualizing Appearence and Disappearance: on Caravaggio’s London Supper at Emmaus, «The Art Bullettin», LXXXIX/3 (2007), pp. 519-539.
[6] Gian Pietro Bellori, Le Vite de’ Pittori Scultori et Architetti Moderni,Roma, Mascardi, 1672, p. 208.
[7] Bellori, La vita di Caravaggio, in Le vite, cit. p. 18-20.
[8] Vd. Giovanni Careri, Caravaggio. La fabbrica dello spettatore, Milano, Jaca Book, 2017, pp. 224- 234.
[9] Per l’iconografia di questa scena, v. il corpus raccolto da Lucien Rudrauf, Le repas d’Emmaus. Etude d’un thème plastique et de ses variatios en peinture et en sculpture, vol. 2, Parigi, Nouvelles Éditions Latines1956.
[10] Per problemi di cronologia, vedi Maurizio Marini, Michelangelo Merisi Di Caravaggio “Pictor praestantissimus” RomaNewton Compton Editori, 1989 (2e ed.), e Caterina Puglisi, Caravaggio, Londra Phaidon, 2000, pp. 209-213.
[11] Vangelo di Luca, VII, 28.
[12] Il dettaglio è già annotato da Bellori in un secondo passaggio della Vita di Caravaggio: «Nelle cena in Emaus, oltre le forme rustiche delli due Apostoli, e del signore figurato giovine senza barba, vi assiste l’Hoste con la cuffia in capo, e nella mensa vi è un piatto d’uve, fichi, melagrane, fuori di Stagione» (G. P. Bellori, op. cit., p. 118).
[13] Vedi Howard Hibbard, Caravaggio, New-York, Harper & Row, 1983, e Max Milner, Rembrandt a Emmaus, a cura di Carlo Ossola, Milano, Vita e Pensiero, 2006, pp. 50-51.
[14] Il miglior riferimento a questo proposito è sempre Thomas Da Costa Kaufmann, The Perspective of Shadows: The History of the Theory of Shadow Projection, «Journal of Warburg e Courtauld Institute»,XXXVIII (1975), pp. 158-187, e la versione aggiornata, The Mastery of Nature: Aspects of Art, Science, and Humanism in the Renaissance, Princeton, Princeton University Press, 1993, pp. 72 e sg. Vd. anche il saggio di Fernando Marias, Skiagraphia: las sombras del pincel, nel catalogo dell’esposizione La Sombra, Madrid, Museo Thyssen-Bornemisza, 2009, pp. 16-29 e 286-293.
[15] Luigi Spezzaferro, La cultura del Cardinale del Monte e il primo tempo del Caravaggio, «Storia dell’arte», 9-10 (1971), pp. 57-92, ora in Id., Caravaggio, a cura di Paolo Coen, Milano, Silvana, 2010, pp. 27-60.
[16] Su questo punto si veda anche Janis C. Bell,Luce e Colore in Caravaggio’s Supper at Emmaus, «Artibus et Historiae», 31/XVI (1995), pp. 158-159, e Andreas Prater, Licht und Farbe bei Caravaggio,Stuttgart, Steiner, 1992, p. 24.
[17] Vd. Oskar Bätschmann, Giovan Pietro Bellori Bildbeschreibungen, in Beschreibungskunst-Kunstbeschreibung. Ekphrasis von der Antike bis zur Gegenwart, Monaco, Fink, 1995, p. 279-300 e Victor I. Stoichita, Breve storia dell’ombra, Milano, il Saggiatore, 2008, pp. 87-91.
[18] Charles Scribner III, In Alia Effigie: Caravaggio’s London Supper at Emmaus, «The Art Bullettin», LIX/3 (1977), pp. 375-382: «[…] the shadow cast by the basket of fruit may have emblematic significance, for, as Professor Walter Liedtke has called to my attention, it describes the partial outline of a fish, the Early Christian symbol for Christ. The probability of a symbolic meaning here is strengthened by Liedtke’s further observation that the inkeeper’s shadow creates a naturalistic halo around Christ’s head. This dark, “negative” halo in the form of a foreshortened disc is effectively juxtaposed with Christ’s fully illuminated face – a clear indication of the metaphysical qualities of Caravaggio’s chiaroscuro». Vd. anche Susanne J. Warma, Christ, First Fruits, and Resurrection: Observations on the Fruit Basket in Caravaggio’s London Supper at Emmaus, «Zeitschrift für Kunstgeschichte» 53/4 (1990), pp. 583-586.
[19] Scribner III, op. cit., qui 376, nota 10.
[20] Maurizio Calvesi, La realtà del Caravaggio, Einaudi, Torino 1990.
[21] Vd. a questo proposito Wolfgang Stechow, Rembrandt Darstellungen des Emmausmahles, «Zeitschrift für Kunstgeschichte», n.f. III (1934), pp. 329-341 e il bello studio di Milner, op. cit., che ci sono stati costante fonte di ispirazione. Vedi anche il catalogo della mostra Rembrandt / Caravaggio,Amsterdam Rijksmuseum, a cura di Duncan Bull et al., Zwolle, Waanders, 2006, e Xander van Eck, Clandestine Splendor. Paintings for the Catholic Church in the Dutch Republic, Zwolle, Waanders, 2008.
[22] Eugene Fromentin, Les maitres d’autrefois, Parigi, Plon, 1876, p. 382, utilizza questa espressione a proposito della Cena di Emmaus del Louvre.
[23] Per i problemi di datazione e attribuzione di questo quadro, vd. A Corpus of Rembrandt Paintings, a cura di Joshua Bruyn, L’Aia, Springer Netherlands, 1982, pp. 196-201. La migliore descrizione e interpretazione è quella di Milner, op. cit.
[24] A questo proposito, vd. Michael Cole, The Demoniac Arts and the Origin of the Medium, «The Art Bulletin», LXXXIV/4 (2002), pp. 621-640.
[25] Milner, op. cit., passim.
[26] Per la tradizione e gli sviluppi della rappresentazione del profilo di Cristo, vd. Hans-Georg von Arburg, Las sombras en el umbral de su reproductibilidad técnica : la fisiognomía de Lavater y las fantasmagorías de Robertson / Shadows on the threshold of mechanical reproductibility : Lavater’s physiognomy and Robetson’s phantasmagoria, nel catalogo della mostra La Sombra, Madrid, Musée Thyssen-Bornemisza, 2009, pp. 38-51 e pp. 296-302.
[27] Vangelo di Luca, cit., p.230.
Elenco delle illustrazioni:
1. Matthias Stom, La cena di Emmaus, circa 1633-39, olio su tela, 111.8 x 152.4 cm, Madrid, Museo Thyssen-Bornemisza.
2. Matthias Stom, L’incredulità di San Tommaso, 1641-1649, olio su tela, 125 x 99 cm, Madrid, Museo del Prado.
3. Caravaggio La cena di Emmaus, 1596-1598, olio su tela, 139 x 195 cm, Londra, National Gallery.
4. Caravaggio La Cena di Emmaus, 1606, olio su tela, 141 x 175 cm, Milano, Brera.
5. Illustrazione per Guidobaldo del Monte, Perspectiva libri sex, Pesaro, Hieronymum Concordiam, 1600, p. 246.
6. Charles Errard, incisione per la «Vita di Caravaggio» in Gian Pietro Bellori, Le Vite de´Pittori Scultori et Architetti moderni, Rome, Mascardi, 1672, p. 201.
7. Charles Errard, incisione per «L’Idea» in Gian Pietro Bellori, Le Vite de´Pittori Scultori et Architetti moderni, Rome, Mascardi, 1672, p. 3.
8. Caravaggio, La cena di Emmaus, dettaglio.
9. Rembrandt (o scuola di?), La cena di Emmaus, 10 x 11 cm, disegno a penna in inchiostro marrone, evidenziazioni in pietra nera, antica collezione di Wilhelm von Bode, Cambridge, Harvard University Art Museum.
10. Rembrandt, La cena di Emmaus, disegno.
11. Rembrandt, La cena di Emmaus, 1628-1630, olio su carta incollata su legno, 39 x 42 cm, Parigi, Musée Jacquemart-André.
12. Rembrandt, La cena di Emmaus, dettaglio.
13. Rembrandt, La cena di Emmaus, dettaglio.
14. Rembrandt, La cena di Emmaus, disegno a penna in inchiostro marrone, luci bianche, 19,8 x 18,3 cm, 1648-1649, Università di Cambridge, Fitzwilliam Museum.
In copertina: Matthias Stom, La cena di Emmaus, circa 1633-39