Ne abbiamo viste e sentite tante, ma ancora oggi ogni stranezza nel mondo dell’arte puzza di fregatura. Sembriamo non imparare molto e distinguere l’onestà artistica dall’impostura pare ancora difficile. Nella musica è accaduto tante volte (Satie, Cage, Scelsi… originali geni o fortunati truffatori?) e tra le ultime vittime di questo grande dubbio c’è stato certamente Sylvano Bussotti, guardato talvolta con sospetto anche dai più fanatici del contemporaneo.
Avendo sviluppato la sua creatività in un ambito dell’avanguardia che promulgava l’aleatorietà, l’indeterminatezza, il soggettivismo, in un periodo (quello di Fluxus, per intenderci) in cui il pubblico partecipava all’opera d’arte al punto da diventarne coautore e il neodadaismo si rendeva spesso identificabile con il totale relativismo estetico (anything goes), la sua figura (come pure quella di Giuseppe Chiari) ha finito per essere ricondotta alla deriva dell’antiprofessionismo.
Ma l’idea di un Bussotti autodidatta, che fosse riuscito chissà come a imporre i suoi capricci artistici al severo establishment intellettuale dell’epoca, è vera solo in parte. Bussotti aveva grandi consapevolezze tecniche e culturali, apprese da studi accademici (interrotti, banalmente) e frequentazioni nobilissime (i corsi di Darmstadt, per dirne una, che tuttavia non amò affatto). Bussotti sapeva disegnare, dipingere e comporre, e le sue bizzarrie non devono essere necessariamente prese come un alibi dei propri limiti. Lo testimonia un bel saggio (illustrato, ma non quanto ci si aspetterebbe, con audio Cd allegato) di Renzo Cresti, Sylvano Bussotti e l’opera geniale, che esce giusto giusto per il novantesimo compleanno del compositore (il primo ottobre) da festeggiare necessariamente in absentia visto che – quasi come un’ultima boutade – Bussotti ha abbandonato questo mondo, lo scorso 19 settembre, appena prima delle celebrazioni. Firenze e l’Italia lo onoreranno naturalmente comunque con concerti, mostre e iniziative di vario tipo.

La locuzione «opera geniale» non è soltanto un modo per mettere in risalto la poliedricità e l’originalità di un artista complesso e sorprendente, ma è anche un tentativo di sostituire quella più consueta di “opera totale” di cui Bussotti è certamente un tipo di rappresentante. Attore, pittore, musicista, drammaturgo, sembra racchiudere in sé tutte le caratteristiche per essere egli stesso l’opera. Ma la totalità qui non va intesa in senso wagneriano, ossia nella necessità di un’unità drammatico-poetica, bensì in un bisogno espressivo che sta in ogni capacità – ogni vizio e capriccio – del singolo, l’uomo e artista Bussotti, il quale semplicemente è di talento multiforme e non può esprimersi diversamente. Per Bussotti la compresenza di arte figurativa, poesia e musica non è un indirizzo estetico da proporre come strada per il futuro, bensì è soltanto il suo modo di manifestarsi. Da qui il genio, singolare, sfrontato, ovviamente discutibile. Che comunque aveva scelto la musica come mezzo principale, forse anche perché in questa vedeva qualcosa di più che una semplice formulazione sonora: si trattava forse di un’arte generale capace di tenere insieme tutte le altre. Così almeno sembra averla trattata.
Impensabile svincolare l’opera bussottiana dal teatro implicito che reca con sé. Ogni sua musica è propriamente gestuale, in particolare quella vocale; eccede sempre il fatto puramente acustico. E certo il suo è un teatro straniante ed eterodosso che però avanza un’idea di un “anti-teatro” non nel senso politico-ideologico di Luigi Nono, per esempio, piuttosto in quello un personale gesto spontaneo di un artista davvero libero. Pericolosamente libero, poiché Bussotti sa benissimo di fare ciò che fa perché semplicemente “gli va”, e questo crea forti idiosincrasie, rifiuti, sospetti, accuse di presunzione. Ma la sua è una domanda “americana” (è agli americani del primo Novecento infatti che, per carattere, è più accostabile), ossia: «perché no?». Aleatorietà, apertura al possibile, nuove tecniche di scrittura musicale, inusitata gestualità. Gestualità che parte dalla mano sul foglio. Il tratto è fondamentale in Bussotti. La figura è un termine medio di traduzione in un processo che vede identificarsi causa iniziale e finale, con l’unica differenza del mezzo per comunicare il messaggio musicale dalla testa del compositore all’interprete: musica-figura-musica.

Tutto si fa composizione (testi, suoni e immagini), eppure tutto al contempo va destrutturato, decomposto e rimesso insieme nel mentre si esegue. L’azione di Bussotti è dotata di un certo erotismo, si accostuma e poi diventa scostumata, muovendosi nella sapienza della seduzione. Esagerazione e sorpresa grazie a una serie di mezzi tecnici di chi la sa lunga. Il suo strumentario è doppio: c’è quello il bagaglio di conoscenza delle regole della musica e degli strumenti musicali; e c’è la cassetta degli attrezzi del pittore, del grafico: matite, carboncini, pastelli, pennini, inchiostri, carte, tele… La varietà e la stratificazione dei gesti rende più complessa e al contempo più diretta la comunicazione dell’opera.
Bussotti è, insieme con John Cage, forse il più interrogante dei compositori, colui che maggiormente (ci) ha domandato cosa sia un’opera musicale. Di più: cosa sia un’opera d’arte; ma ancora oltre: cos’è un’opera. Chi sarebbe cioè, in una condizione di apertura e possibilità infinita di interpretazione, l’autore dell’opera? Quando inizia, dove finisce? E chi ne fruisce è davvero soltanto un destinatario passivo? In molta della musica d’avanguardia, e totalmente in quella di Bussotti, una definizione di opera, di musica, di arte, è messa sempre in discussione.
A usare categorie presocratiche, diremmo che la sua opera è un divenire. Per questo è incoglibile, per questo la sua discografia (e la grafia!) è un problema: è un problema fissarne la musica, è un problema espungerne la dimensione visuale. Per entrare nel suo mondo bisognerebbe sempre ascoltare, vedere e leggere. A volte il paradosso, per quest’ultima azione, è che la sua scrittura si avvicina a un analfabeta musicale più di una partitura classica. Interpretare un gesto grafico, un colore, un dettaglio lessicale, riesce più naturale a un qualsiasi lettore, piuttosto che individuare altezze e ritmi su un puro pentagramma. È la poetica del gioco – un gioco serissimo – che Bussotti cavalca e richiede. Si traduce – come si può, come si capisce, come l’autore suggerisce – la traccia sul foglio in un gesto musicale sul palco. A chi assiste, se non conosce la fonte (la partitura), basti sapere che il risultato musicale (musica che è già di per sé più del suono, nel caso di Bussotti è arte completa) è effetto sensibile e in movimento di quel segno su carta soggetto alla consunzione del tempo.

Bussotti, come altri che erano usciti dal sistema di segni convenzionale (e per forza di cose limitatissimo) della scrittura musicale, sembra aver voluto tracciare la natura più sfuggevole della musica, il suono. Il suono (nella sua particolarità del timbro) infatti non si può scrivere. La notazione tradizionale offre espedienti grafico/simbolici per le altezze, ritmi, tempi… Ma non per la pasta del suono, né per il gesto che lo deve rivestire. Con il colore, le linee, le parole, le sovrapposizioni, il collage, Bussotti prova a mettere su carta una dimensione spaziale, tattile e visiva che noi percepiamo acusticamente. Da un lato quindi le partiture del compositore fiorentino possono essere considerate come opere d’arte a sé stanti, dall’altro come dispositivi musicali paradossalmente più “sonanti” di quelle classiche. Va rivista, con lui, tutta una semiologia della musica che si fonda una disposizione cartesiana delle note su una griglia piuttosto semplice e circoscritta (il pentagramma). Non soltanto la bussola è infinitamente orientabile (perché, ci si può chiedere, non girare il foglio o leggere da destra verso sinistra?), ma anche – e qui già Cage aveva insegnato – i significati musicali vanno ridiscussi alla luce di un principio di indeterminatezza che oggi definiremmo “liquido”. Questo segno, fissato e convenzionalmente comprensibile alla luce del carattere di Bussotti, della cultura del suo tempo e delle tecniche odierne, è infinitamente interpretabile in una catena di ermeneutica che si mostra più lunga di quella che lega gli esecutori e musicologi alle opere – per dire – di Beethoven. Forse è (soprattutto?) per questo che difficilmente diventerà un classico. Ciò che è sempre in movimento – e in discussione: in quanti considerano Bussotti musicalmente irrilevante! – non può diventare un classico, se non in senso eracliteo, da rinnovare di volta in volta («suonate e cantate Bussotti!», si potrebbe chiedere, poiché non è abbastanza classico da potersi permettere di diventare lingua morta). Monello, più che modello.
A ogni modo adesso Sylvano Bussotti è morto, e vedremo quale sarà il suo posto – se saprà star fermo – nella galleria di busti dei compositori. Ma il nostro non ci pare tipo da gipsoteca.
Renzo Cresti
Sylvano Bussotti e l’opera geniale
Maschietto Editore, 2021, pp. 280 ill. a col. con cd, € 39
In copertina: ©Sylvano Bussotti, Solo, 1967