«Sto lavorando su Steinberg, sto consultando quanto più attentamente possibile il dettaglio del suo lavoro. […]. Qual è l’idea generale che ho di quest’opera? A prima vista è un’idea aggettiva: ricopro Steinberg di aggettivi». Così Roland Barthes scriveva nel 1976, subito ammettendo, però, che la colluvie di aggettivi ch’egli sgrana non avrebbe comunque potuto esaurire la polisemia della sua opera. «L’idea generale che ho di Steinberg è ch’egli è, alla lettera, inesauribile» – concludeva Barthes, fornendo una chiave interpretativa che sarebbe diventata canonica nell’accostarsi al «grande cartoonist» (la definizione è di Nabokov) rumeno di nascita, italiano di formazione, americano di nazionalità. Lo stesso Steinberg ha del resto incoraggiato una lettura dei suoi lavori il più possibile libera da “scopi” e significati definitivi. In un’intervista del 1954 – una delle molte raccolte nel nuovo (assai più ricco rispetto a quello apparso nel 2005) numero di «Riga» dedicato a Steinberg – è non a caso esplicita l’ammissione d’una predilezione per l’arte dell’«eccetera», mot-clé d’una semiosi illimitata, quale presa di congedo da ogni referente, in favore d’uno slittamento continuo degli interpretanti.
Proprio seguendo l’idea echiana per la quale «l’enciclopedia è dominata dal principio della semiosi illimitata», la grande mostra Saul Steinberg. Milano New York, allestita presso la Triennale di Milano, vien fatta accompagnare da un catalogo compilato sotto forma di singole voci distribuite in ordine alfabetico, pregevolmente impaginato per i tipi di Electa, e scrupolosamente curato da Marco Belpoliti (cui si deve altresì l’edizione di «Riga») e Italo Lupi. Lo stesso allestimento della mostra, al primo piano dell’edificio progettato da Giovanni Muzio, si vale di un criterio tassonomico o, meglio, di un criterio quanto mai aperto rispetto al semema che l’opera di Steinberg contempla. Il percorso espositivo intende includere il più alto numero possibile di connotazioni, di sensi accessori, dipendenti dalle diverse denotazioni che – come ha scritto Hubert Damisch – i lavori di Steinberg lasciano unicamente «supporre», poiché il «vedere» non basterebbe a esaurire l’elemento significativo ch’essi esprimerebbero.
Dopo una ampia rassegna di testimonianze fotografiche e letterarie, la mostra si compendia in una serie di teche luminose e tavoli orizzontali, ma soprattutto in una grande libreria che segue l’andamento curvilineo dell’emiciclo, la cosiddetta Curva, ospitando e svelando le diverse opere, lasciandole bagnare soltanto dalla luce artificiale. A dominare l’allestimento una scultura sospesa di Alexander Calder, prestito della GAM di Torino, omaggio all’amicizia che unì Steinberg a Calder e che li vide altresì collaborare, alla fine degli anni Quaranta, nella realizzazione di alcuni manufatti per l’erigendo Terrace Hotel di Cincinnati.

Di Calder, nel dicembre 1976, Steinberg farà l’elogio funebre, vincendo – confesserà ad Aldo Buzzi, suo corrispondente d’elezione per oltre cinquant’anni, come testimonia l’ampio carteggio (per excerpta pure presente alla mostra milanese), pubblicato da Adelphi nel 2002 – «tutti i dubbi di tutti i generi, incluso [sic] la paura di paralisi, svenimento, riso isterico, etc.». È, quello di Steinberg, un italiano maccheronico, rubato al parlato ed alla memoria degli anni trascorsi a Milano, dove frequenta la facoltà di architettura, collaborando con il «Bertoldo» di Zavattini e «Settebello», palestre per quella intensa attività d’illustratore per il «New Yorker» che lo renderà celebre a partire dagli anni Quaranta. Sono, le lettere a Buzzi, i cascami di una singolare, affascinante imprecisione, affidata alla grazia miracolosa di parole “trovate”, come si trovano frutti, stupefatti animali, nuvole. In questa prosa ciangottante, stenta, consumata, a tratti cantilenante è forse più facile che altrove ravvisare quell’analogia con i suoi disegni, nel loro essere anzitutto – l’ha notato Italo Calvino – scrittura.
Portando idealmente a compimento un itinerario che prenderebbe le mosse dalle «penne isbigottite» del sonetto XVIII delle Rime di Cavalcanti e proseguirebbe fino al Barone rampante, passando per il Dialogo dei Massimi Sistemi di Galileo e il Tristam Shandy di Sterne, il tratto grafico di Steinberg, «corre e corre e si sdipana e avvolge un ultimo grappolo insensato di parole idee sogni». La linea grafica, nel suo segnare il passaggio dallo statico al dinamico, percorre il testo, lo solca e lo movimenta, finendo per farsi ghirigoro (lemma, nel catalogo, sapientemente specillato da Simonetta Nicolini): traccia lineare ai margini del foglio, fantasticheria oziosa, che come già in certi documenti notarili, da Steinberg volentieri imitati con estro giocosamente truffaldino, consente allo stilo di sfuggire al rigore dettato dalla norma tediosa delle scritture legali. O di condensarsi in “simil-scritture”, nelle quali non parrebbe esserci niente da decifrare.

In segreta sintonia con Friedrich Schlegel, per il quale «l’essenza della forma del moderno […] è l’intrigo», di cui il ghirigoro sarebbe emblematica, ironica sintesi – «sintesi assoluta di antitesi assolute» –, Steinberg con una delle sue amate stilografiche era solito accondiscendere alla piacevolezza riposata infusa dal concedersi alla forma senza contenuto degli intrecci capricciosi delle linee. Se ne ha traccia in alcuni dei suoi esercizi di doodles più significativi, come quelli tracciati sulle pagine di un taccuino telefonico (ora a Yale, dove è conservata gran parte del lascito steinberghiano), o quelli che campeggiano sulle copertine del «New Yorker» del 2 marzo 1963 o del «Time» del 14 maggio 1965. In tal senso Marco Belpoliti, nel primo «Riga» consacrato a Steinberg, ha potuto sostenere che la sua profondità è tutta nella superficie dei suoi graffiti, come esemplarmente dimostrato dai quattro disegni preparatori – nucleo centrale della mostra milanese – ciascuno composto da una striscia di carta piegata a fisarmonica lunga una decina di metri, che, ingranditi fotograficamente, vennero incisi con la tecnica a sgraffito sui muri ricurvi del Labirinto dei ragazzi, progettato dallo studio d’architettura BBPR (lo stesso della Torre Velasca) per la X Triennale di Milano, nel 1954.
Nei voluttuosi rigiri e rabeschi ch’egli disegna si troverebbe quella «derivazione del disegno dal disegno» ch’egli dichiara – ricorda Harold Rosenberg nella sua importante introduzione al catalogo della mostra al Whitney Museum (1978) – essere il suo modo di ragionare sulla carta o, meglio, di inchiostrarla: «la mia linea vuole ricordare costantemente che è fatta d’inchiostro». Nondimeno, chiosa Gombrich, «pur ricordandoci in continuazione che le sue linee sono di inchiostro, non riesce mai a convincercene completamente. Per quanto ci sforziamo, non riusciamo a vedere solo inchiostro».
O forse sì.
Il non riconosciuto, del referente, dell’oggetto concreto, diventa sovente, nell’esegesi d’un testo come d’una immagine, lettura metaforica che nasconde l’aporia ermeneutica. Si concede volentieri al traslato ciò che rimane impercepito o incompreso nella sua “oggettività”. E tuttavia, se si vogliono scongiurare le derive interpretative cui potrebbe condurre una concupiscente gastrimargia ermeneutica, alla quale innegabilmente, ma controvoglia, l’opera di Steinberg sollecita, si potrebbe non trascurare quella che Gian Luigi Beccaria ha chiamato l’«eleganza del referente», come traspare una volta che ci si intenda soffermare sul «proprio della cosa e dell’opera». Il «centro riconoscibile» dell’opera di Steinberg potrebbe allora essere quella perfection du noir cui egli dà corpo, letteralmente. Accade così – seguendo la campionatura compilata da Valentina Macchia alla voce «inchiostro» del Catalogo milanese – in un disegno conservato a Brera, dove si impone una vistosa pennellata di inchiostro; o in The Passport, dove l’inchiostro si avviluppa in spire calligrafiche e in astratte parafe. O ancora in Tables, «dove l’inchiostro è costretto a scendere a patti con la pittura, con il collage, e soprattutto con il trompe-l’œil e a farci dimenticare il suo ruolo della creazione delle figure». E maxime in Summer Table, dove l’inchiostro diventa addirittura oggetto fisico, densa vernice in una latta piena di pennelli.

Ma l’inchiostro funge anche da fragile evocatore di arcane suggestioni, come Steinberg stesso confessa ad Aldo Buzzi, nel novembre 1994, dopo aver ricevuto in dono delle bottiglie di inchiostro viola, simile, nell’odore acre, «un po’ velenoso», a quello degli anni della sua infanzia rumena; ma di colore differente. Era, quello, «moiré, una qualità di nacre, madreperla», per i cui riflessi egli nutrì sempre una nostalgia pura, perfetta, insolubile, implacabile – più cogente a ogni tratto.
Saul Steinberg. Milano New York
A cura di Italo Lupi e Marco Belpoliti con Francesca Pellicciari
Milano, Triennale, fino al 13 marzo 2022
Steinberg A-Z
a cura di Marco Belpoliti
Electa, 2021, pp. 584, € 42
«Riga» 43. Saul Steinberg
a cura di Marco Belpoliti, Gabriele Gimmelli e Gianluigi Ricuperati
Quodlibet, 2021, pp. 536, € 27
In copertina: Saul Steinberg, Parade 7, 1950 ©The Saul Steinberg Foundation