Fuori il lago è ricolmo di luce. Visto dall’alto sembra una porzione stagnante di cielo. Uno specchio di luce versata.
Sto rimandando queste parole da alcuni giorni. Forse per timore d’intaccare l’immagine del nostro incontro. Alcune cose dovrebbero restare nel silenzio. Unicamente lì, dove sono accadute. A maggior ragione quando si tratta di una situazione come questa.
Forse ancora oggi non so cosa ci siamo realmente detti durante quell’incontro. L’unica cosa certa è che qualcosa di inaspettato sia successo. So solo questo.
Avanzo ancora di qualche passo. E scendo lentamente i gradini. Bettina mi accoglie ed entriamo in casa. I suoi occhi sono limpidi e chiari.
Io non riesco a vedere nulla. Il passaggio dalla luce netta verso l’interno rende i corpi opachi e gli oggetti incerti.
Paolini attraversa la stanza uscendo dalla penombra. Fatico a vedere il suo viso, socchiudo le palpebre. La finestra alle sue spalle manda un forte chiarore. La figura si è parzialmente eclissata. È questione di un momento. Dopo un breve passaggio graduale, appena fuori dal cono d’ombra, tutto ritorna normale.
È lì, davanti a me. Lo incontro. Sorride.
Ci avviciniamo al tavolo, dove tutto è già disposto e ordinato. Non devo più pensare. Appoggio i miei fogli e ci sediamo uno di fronte all’altro.
Per qualche istante restiamo paralleli.
Ho portato con me con me una fotografia che gli vorrei affidare. Paolini ha tra le mani una delle sue opere grafiche, una litografia.
Prende la matita e la avvicina ai bordi bianchi dell’immagine per scrivere il nome e una dedica. Non pensavo a nulla di simile. Anche io ho la matita tra le dita, ma aspetto un istante. Non ho la sua dimestichezza.
Affrontare il bianco non è mai semplice. Contaminare il bianco.
Osservo la sua mano destra muoversi sul foglio di carta, immediatamente si affaccia-no alla mia mente immagini delle sue opere. Ante litteram: una mano di gesso aperta, con il palmo rivolto verso l’alto, collocata all’interno di un cubo trasparente, sembra sorreggere appena al di sopra, nel vuoto, una pila di frammenti. Sono calchi di gesso, profili di statue, corpi bianchi.
Una sola parte che regge tutte le forme, a mezz’aria, sospese nel tempo.
È su quel vuoto che si innesta l’interrogativo. È la mano dell’autore, di Paolini, o è la mano, la prima e l’ultima di tutta la storia? E di quale storia? Quella dell’arte che scrive se stessa senza che l’autore possa o debba intervenire, figurare.

Ho lasciato a Paolini un’opera in cui il calco del mio volto è spezzato in molte parti
come frammenti di cocci lasciati a terra in un piccolo cumulo. E ancora qualcosa si scorge tra il vuoto e l’intero frantumato. Il profilo di una fronte, l’incavo degli occhi, lo spessore delle labbra.
Ricongiungere i pezzi, i frantumi, ricostruire la figura, l’autore? Impossibile. Oppure è forse qualcosa che semplicemente ci riguarda.
Paolini è il primo a dirci che è accaduto qualcosa, qualcosa che non ci appartiene eppure ha il nostro volto. O il volto senza nome – figura di figura che somiglia soltanto. Ancora una volta presente e assente. Come in Delfo, in cui l’autore appare e scompare, cancellato dal suo stesso esistere, dal suo agire, dal suo ritrarsi. Forse vedere è l’unica possibilità data all’autore. Vedere ancora prima e nel tempo che segue l’opera.

Paolini dice: Vedo (la decifrazione del mio campo visivo) – nell’opera in cui delinea un paesaggio puntinato e multiforme dove lo sguardo si autodetermina lasciando dietro di sé, o meglio davanti a sé, la proiezione residuale della sua ampiezza ponendoci innanzi ad una costellazione di microsegni, un braille muto che ci indica la dimensione del guardare e dell’agire.

Una volta attraversate tutte le figure e le forme resta il vedere stesso come primo ed ultimo atto, sul confine dello sguardo, in cui spettatore e attante, colti in un perpetuo gioco di specchi, finiscono per coincidere in un’unica figura guardante.
Immagino Paolini di fronte ad una sua opera. Forse dispone se stesso su di un perimetro invisibile, mentre misura le distanze e i bordi, osserva i margini e le soglie, perché il pensiero non ceda al desiderio di lasciare una traccia.
Lo immagino inscrivere se stesso in un punto preciso dello spazio entro il quale incorrono i vertici, le proporzioni e le loro mute relazioni.
Ogni cosa deve essere, ma solo nel momento esatto in cui sta per scomparire.

Forse non si dovrebbero usare immagini e nemmeno parole. Forse, semplicemente, non si dovrebbe fare nulla.
Quando guardo le sue opere so di sbagliare. Il bianco avvolge ogni destinazione e ne resta la dimensione finale. Anche lo sguardo ne è escluso. Non è ammessa alcuna in-trusione.
Guardarsi guardare equivale a scomparire. Non è una questione temporale, forse bisogna solo aspettare che la forma si fissi al suo apice. È allora che la matita potrà toccare il foglio.

Ora tutto rientra sommessamente e senza sforzo in un quadro prestabilito.
Dopo aver scritto alcune parole, due date e i nomi – le coordinate che domani ci permetteranno di ricordare – ritorniamo a noi. Ci alziamo e camminiamo nella stanza guardando le opere appese alle pareti.
Nella distanza ci è concesso di guardare. Ritrovo immagini che conoscevo, le prospettive, le stelle fisse, i suoi corpi celesti – i momenti in cui si è affidato all’immobilità del cielo. Tutti i punti da cui si dispiegano le forme e il disegno.
Nelle sue opere ogni cosa è accaduta nel momento di massima visibilità, nell’istante in cui si è fatta più luminosa, un attimo prima di sottrarsi e scomparire.
È un’Elegia muta quella di Paolini, è quella che nega il canto eppure riluce del suo silenzio. Una Eco che diparte dagli occhi e arriva alle corde liberando le prospettive dal peso della voce.
Ora la sua mano destra sta lentamente seguendo un profilo, ci spostiamo di fronte alla grande vetrata. Guardiamo davanti a noi, verso il lago. Socchiudo le palpebre. La luce si fa rosa, mentre tutto intorno restano poche cose. Alcune tracce. Solo prospettive controluce del presente.
Sì, perché Paolini sa che nel mondo delle immagini
non c’è una realtà che non ne nasconda un’altra.
Per questo ci guarda, sorride poi tace.
Elenco delle opere riprodotte:
Elegia, 1969
Calco in gesso con frammento di specchio, 15 x 15 x 11 cm
Opera realizzata in 3 esemplari
Foto © Paolo Mussat Sartor. Courtesy Fondazione Giulio e Anna Paolini, Torino
Ante litteram, 1985
Calchi in gesso, teca di plexiglas, base bianca, 160 x 90 x 50 cm
Opera realizzata in 6 esemplari. © Giulio Paolini
Foto courtesy Fondazione Giulio e Anna Paolini, Torino
Delfo, 1965
Fotografia su tela emulsionata, 180 x 95 cm
Walker Art Center, Minneapolis, Gift of the T. B. Walker. Foundation by exchange, 2003
Foto Francesco Aschieri. Courtesy Fondazione Giulio e Anna Paolini, Torino
Vedo (la decifrazione del mio campo visivo), 1969
Matita su parete, 225 x 375 cm
Collezione privata. © Giulio Paolini
Foto Anna Piva. Courtesy Fondazione Giulio e Anna Paolini, Torino
Eco e Narciso, 1980-1981
Tela preparata, fotografia lacerata, matita su telaio, 187 x 112 cm
Collezione privata, Firenze. © Giulio Paolini. Foto Serge Domingie. Courtesy Fondazione Giulio e Anna Paolini, To-rino
In copertina: La pittura abbandonata, 1985, Litografia e disegno, 50 x 66 cm, 70 esemplari in numeri arabi. Realizzazione: Marilena Bonomo ed., Bari, 1985 © Giulio Paolini. Foto © Luca Vianello. Courtesy Fondazione Giulio e Anna Paolini, Torino