con immagini di Linda Carrara
Come scrive Giovanna Rosadini presentando questo lavoro sul numero 103 della rivista «Atelier» (settembre 2021), rispetto alle prove precedenti di Maria Borio – per esempio quelle raccolte in Trasparenza, nel ’18 pubblicato nella collana «Lyra giovani» diretta da Franco Buffoni per Interlinea – Dal deserto rosso mantiene quell’insieme problematico di «limpidezza e chiarità» e «suggestiva impenetrabilità»; ma se ne differenzia per la «comparsa (non esclusiva, del resto) di un io lirico». Il che potrebbe anche sorprendere, in un testo tutto dedicato ai «limiti di percezione e refertazione dell’esperienza soggettiva»: mentre forse proprio il riferimento esplicito all’epocale film di Michelangelo Antonioni, a sua volta profondamente nutrito dalla poesia del tempo, spiega come la presenza grammaticale dell’«io» – questo feticcio ricorrente, e spesso oziosamente, in ogni discussione sul poetico – sia tutt’altro, qui, che garanzia di piena affermazione della coscienza individuale. Il testo incipitario della plaquette – tutta caratterizzata, come dice nella nota d’abbrivo il curatore di collana Maurizio Cucchi, da una notevole «compattezza materica» (per cui non gratuita risulta la collaborazione con un’artista che guarda anche a questo indirizzo, quale è Linda Carrara) – può allora ricordare un capolavoro della sperimentazione poetica come Rosso corpo lingua pope-papa scienza (1977) di Elio Pagliarani (che giusto nel ’64 di Deserto rosso s’era posto all’estrema avanguardia con un testo di rottura quale Lezione di fisica): «proviamo ancora col rosso: rosso, un cerchio intorno, poi rosso su rosso: Nandi ci fosse / col rosso un cerchio di rosso un punto sette punti di rosso». A conferma del fatto, già da un pezzo osservabile, che certe contrapposizioni “di bandiera”, risalenti ormai a sessant’anni fa, siano ormai – per i poeti delle ultime generazioni – solo un ricordo. Per fortuna.
A.C.
Sono un punto solo nel deserto rosso:
oggi è questa la mia dimensione, un punto
che non ha lunghezza, larghezza, profondità,
caduto dalla parte più alta del cielo su una terra
piena di silenzio e pura improvvisamente.
Ti scrivo da una zona rossa, ed è questa la verità:
i confini sono tracciati, il rosso ha riempito lo spazio,
vuoto, neutro, senza uscita, e tutti sono come me,
punti soli, senza illusione, nella prima primavera
del millennio che al tempo sta cambiando la faccia.
Ti scrivo e da questa stanza sussurro che se un punto
non ha dimensioni è perché forse le ha unite tutte in sé?
Pensarsi è unirsi – mentre la notte e il giorno
hanno un unico colore e impariamo a pensarci –
e un bene, come mai, nuovo?

Come capire la mappa? Le regioni sembrano quadri
di una scacchiera con pedine invisibili. C’è una parola
adesso sulla terra, che potrebbe piacerti, o una formula?
Una parola accurata, come la scienza – al tuo fischio
un uccello risponde dalla finestra aperta, la tua voce
strategica è con la sua: sillaba per le soluzioni.
Meno di una parola: un legame. In un alfabeto antico
lo scrivevano in forma di chiocciola, serpentello, osso
di pollo – συν – che diventa un disegno tentacolare
di cause e effetti: sindemia. Anche meridiani
e paralleli non si vedono, chiudono, controllano.
Ma la terra un giorno farà una rivoluzione più veloce,
le persone in una forma sospesa su un deserto cinetico,
rotazione impazzita, materia liquida, più levigata.
Ma qual era la parola?

La stanza è un eden selvatico. Ti scrivo?
Non so dove cresce il grano. Nell’aria di aprile
una forma, il campo in lontananza, le labbra.
Ma com’era la bocca sulla pancia, le punte
si piegavano nell’inguine? Il grano cresceva
sulle labbra, verde, minerale, denso – dico
altro? Non ho, non io, non sento – cerco
la schiena, stringo le ginocchia: cosa salva
le persone autentiche? Desideri un mondo
verde, minerale, denso – chiedi solo cura?
Allora ascolta aprile, ovunque, com’è caldo,
pazzo, violento, rimuovi ogni mancanza.
Resisti a occhi chiusi, non respirare, pensa
un deserto… non me, non ho, non sento
il grano fuori nel vuoto che lotta immobile.

Millennio di primavera
Oggi vedo cos’è la primavera –
i segreti si sentono, leggeri e puliti:
li guardi nel cielo su zattere di pino,
all’argine il biancospino dice sono qui.
Vediamo, desideriamo – forse non è
una stagione, ma l’ultima antropologia –
paura non del futuro, dell’amore…
Per cogliere il biancospino bisogna pungersi.
*
Si toglie il pigiama, è una mattina di aprile.
Dentro il corpo delle tortore può esserci
ogni ricordo, nella testa perfettamente tonda
negli aghi azzurri del pino perfettamente cuciti.
Nessuno vede chi eri, né i suoi desideri,
guardando le tortore nessuno può immaginare
una donna vestita da jogging e un uomo che porta
una sciarpa consumata – le tortore covano
e dimenticano quando le uova schiudono.
Come si dimentica? Cosa si desidera?
*
Nessuno può trovarti – ma quella cosa
crepita ancora come giocare al gioco di
non respirare e non parlare, che accade
sempre quando due iniziano a riconoscersi –
prima lei poi lui poi lui poi lei poi lei poi…
Tutti, prima o poi… nascondono una cosa –
nel vaso del basilico, uno dentro l’altro,
nell’uovo che cuoce, uno dentro l’altro –
e adesso, come la tortora prende l’erba,
adesso che la perde un po’ volando…
*
È stato appoggiare un piede sull’acqua:
il freddo all’inizio, poi l’abitudine,
la caviglia sul bordo e il nuovo habitat,
la piscina in circonferenze più grandi,
anelli, cerchi magnetici. Onde.
Era primavera. Nuotavamo con la cuffia,
il costume aderente a x dietro le spalle.
La fine e l’inizio: un habitat alterato
in una zona, diffuso in un’altra zona,
un posto più grande… Altre onde.
*
Avevamo perso i piedi nell’acqua –
fuori aprile schiarisce un po’ il prato –
le bracciate facevano sempre un suono
profondo, senza memoria, oscillante
come l’IBM nuovo e Paint dove disegnavi
un’altra piscina senza bordo. Il ricordo
un habitat? Ferma il piede sull’acqua:
c’è sempre una vita dietro… – il piede,
la freccia per disegnare… – alle spalle
chi c’è stato? Prova, conta. Ascolta. Salta.
*
Oggi è nato il fiore del rosmarino.
In questo millennio per la prima volta
vulnerabili ovunque, per la prima volta
non avresti creduto. I fiori non sono occhi.
L’umido della cornea fa trasparire i ricordi?
Allora lo sguardo più vero è solo quello
che raccontano dopo il bacio di Giuda:
la nostra specie, tutto il bene e il male,
forse solo nella primavera di un tempo
come questo, appare onesta. Silenzio.
*
La nostra specie crede alle macchine
e al destino, fermi, vuoti, per la prima volta,
come il Santo Sepolcro dalla peste del Trecento.
La nostra specie, la tentazione – “Ciò che è, è
– se non è, non sono stato, non sono, non sarò?”.
Ma come sono autentiche le persone
per un momento, più vere delle parole
di Elisabetta II, il pulito We’ll meet again.
Più della luna fresca e lucida al mattino…
e un uomo non sa se è la luna o il sole.
*
Oggi vedo cos’è la primavera… –
“Ciò che è, è – se non è, sono stato, sono,
sarò?”, a voce bassa Cesare e Napoleone
seduti insieme dall’altra parte della luna
– poi una donna, in controluce, arriva
alta dall’altra parte del sole, ripete
“verità” e “verità”, “eroismo spoglio…” –
e lei è solo una persona, e contempla, adesso.
Maria Borio
Dal deserto rosso
illustrazioni di Linda Carrara
“I quaderni della Collana”, Stampa 2009, 2021, 28 pp. ill. bn, € 6
In copertina: Linda Carrara, In fondo al pozzo, 2020, olio su tela, 70 x 104 cm (particolare)