‘A Night at the Opera’. Ekphrasis

Esiste dunque una Zattera della Medusa in miniatura, acconciata incautamente da alcune figure chimiche pigiate nella cabina di un Transatlantico. Del mare in burrasca, del cielo plumbeo sull’oceano, nulla ci è dato sapere. Siamo chiusi in un interno, galleggiamo ancorati alla banchina. Nella stanza lo spazio è esiguo: letto singolo, oblò, telefono, ventilatore sopra la porta d’ingresso, un  baule ciclopico sotto la mensola. L’incubo di ogni scapolo. Spalleggiato da tre sodali imboscati, l’uomo che la occupa si è limitato a ordinare l’intero menu, compreso un numero sproporzionato di uova sode. Nondimeno, in sequenza, un drappello di persone lì si sono date appuntamento, anche se nessuno le ha convocate. Bussano alla porta inattese. Alcune sono giunte per svolgervi i mestieri. Tre cameriere chiedono di rifare la stanza. Si palesa il tecnico del riscaldamento munito di attrezzi. Pronta per una seduta di manicure, l’estetista anticipa di pochi secondi il corpulento assistente del tecnico. Altre invece si sono perse: una ragazza in trench sta cercando zia Minnie e senza indugio è invitata a entrare. Così, lei ne approfitta per fare una telefonata. La donna delle pulizie mastica chewingum imbracciando lo spazzolone.

E noi quale spazio potremmo occupare? Alcuno. Lì dentro a malapena si respira. Seduti, ci limitiamo a osservare questa specie di naufragio dentro uno sgabuzzino. Ci vuole tempo per riuscire a districarsi tra i movimenti aberranti che le figure compiono. Impossibile coglierne la fluttuazione corale. Dunque un uomo fa da usciere, mentre un altro si sveste dietro al baule, e un altro ancora, sorvegliato da una sorta di promoter con cappellino a punta, viene sollevato dal letto in stato di semi-incoscienza, come un sacco di patate, e finisce sulle spalle di una cameriera, provocando insieme a lei un match di wrestling nello stesso istante in cui una seconda cameriera sale coi piedi sul letto, occupando il medesimo spazio attraversato per un attimo dal tecnico del riscaldamento, prima che questi svanisca sommerso da una massa umana, a due passi della terza cameriera, proprio nel momento in cui la manicure varca la soglia accostandosi alla parete, poco spostata dal nostro sonnambulo, che slitta instabile sulla cameriera, poggiato su un cuscino, sostenuto dal promoter, agguantato pure dall’uomo nascosto dietro al baule, che lo issa sul letto facendolo oscillare come una banderuola, nello stesso istante in cui fa irruzione pure l’assistente corpulento e, improvvisamente, tutti hanno modificato la loro posizione. Lo spazio sembra oscillare. Il punto di vista flette. Ci troviamo quasi frontali all’ingresso, mentre la ragazza alla ricerca di zia Millie sguscia dentro. Per un microsecondo, il tempo di uno stacco di montaggio, qualcuno deve aver manomesso il mobilio, spostato queste marionette dentro a un teatrino, giocandoci uno scherzo. L’universo ha sparigliato le sue coordinate. Ma, intanto che la donna delle pulizie fa il suo ingresso, e la ragazza in trench si avvicina al telefono, tutto sembra essere tornato al proprio posto, come se fossimo stati testimoni di un movimento rotatorio in grado di creare una specie di curva sull’asse: la manicure contro la parete, il sonnambulo sul letto con la cameriera, l’assistente del tecnico che svetta, batte il martello contro il tubo, mentre il suo collega riemerge dal fondo, e, al centro, la donna delle pulizie intenta a spazzare, affiancata dallo strambo promoter che, fuori equilibrio, strattona la cameriera che, con effetto domino, rovina sulla ragazza al telefono, nel momento in cui l’usciere è spalmato sulla porta.

Quest’insieme di azioni, queste concatenazioni corporee, impossibili da cogliere nella loro simultaneità, potrebbero essere state orchestrate con perizia, coreografate al millimetro, insomma destinate a formare una “figura”, quella che ci accingiamo a fissare in un fotogramma: pre-finale in anticipo sulla catastrofe. Ecco qualcosa di simile a ciò che Lessing chiamava “istante fecondo”. Zattera della Medusa in un interno, comico Laocoonte, le mosse compiute da queste figure bislacche sono certamente più intriganti delle “situazioni costruite” dal soporifero Tino Sehgal. Questo strano balletto di corpi colloidali che premono, si torcono, oscillano e si piegano, ruotano, si urtano con nonchalance, contiene qualcosa come l’essenza del burlesque. «Sta tutto qui il burlesque? o la sua legge? Cioè: l’azione è tenacemente normale, semplicemente ostinata in un universo polimorfo, perché questo universo è fatto del solo scatenarsi degli elementi, e perché lo sconvolgimento dell’ordine cosmico qui è paragonabile alla turbolenza in una stanza», scrive Jean Louis Schefer in una pagina mirabile del suo L’uomo comune del cinema.

È un po’ ciò che osserviamo qui, nello spazio compresso di una cabina, prima che ogni cosa finisca a gambe levate.

In copertina: un fotogramma tratto da A night at the opera di Sam Wood (1935)

scrive, traduce e svolge attività di programmazione cinematografica. È interessato alle frontiere disciplinari. Collabora con la Cineteca di Bologna, per la quale ha curato il dvd “Histoire(s) du cinéma” di Jean-Luc Godard, oltre che rassegne su diversi filmmaker. Il suo ultimo libro si intitola “Copie originali. Iperrealismi tra pittura e cinema” (Johan & Levi, 2014).

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