Yannick Haenel in conversazione con Matteo Martelli
In occasione della pubblicazione di Solitudine Caravaggio (Neri Pozza, traduzione di Margherita Botto, p. 256, € 19) dello scrittore francese Yannick Haenel, già premio Médicis con Tieni ferma la tua corona, abbiamo incontrato l’autore per parlarci di questo nuovo libro dedicato all’opera e alla vicenda artistica di Michelangelo Merisi, a 450 anni dalla sua nascita. Come un personaggio dei suoi romanzi, Haenel propone al lettore un’immersione nelle opere del pittore lombardo guidato da uno sguardo poetico e filosofico insieme che ne restituisce una visione inedita e viva, in un libro che attraverso la pittura non smette di interrogarsi sulla scrittura e i suoi legami con il visibile.
Matteo Martelli: Yannick Haenel, in Solitudine Caravaggio proponi al lettore un’avventura dello sguardo e del desiderio: lo sguardo poetico attraverso cui ti muovi tra una serie di dettagli, scene e illuminazioni nelle opere e nel percorso artistico di Michelangelo Merisi e il desiderio che agita la tua scrittura di fronte ai lavori di questo pittore. È del resto su questi due temi che il libro si apre quando, verso i quindici anni, molto prima di incontrare il nome stesso di Caravaggio, ti imbatti nella riproduzione di un particolare di Giuditta e Oloferne che avrà molte conseguenze nella tua vita.
Yannick Haenel: Quando l’editore francese mi ha proposto di scrivere la biografia di un pittore, ho scelto subito Caravaggio poiché, senza dubbio, è colui che ha avuto su di me il maggior impatto a livello biografico. La pittura mi interessa per l’impatto che ogni volta suscita ed è là, in quegli effetti e urti, che in fondo risiede l’avventura della mia scrittura. Quel che mi interessa è l’incontro con le opere d’arte e la maniera in cui ci raggiungono, ci toccano e colpiscono.
Così, poiché ho avuto una sorta di storia con un suo quadro, mi è sembrato giusto, quasi programmatico, raccontare in questo preludio come Michelangelo Merisi sia entrato nella mia vita e come la sua opera, in fondo, sia stata letteralmente un’apertura, al tempo stesso nel senso di una piaga, come se mi avesse ferito, e in quello di una metamorfosi. Anche se realmente accaduta, si tratta di una scena quasi allegorica che risale al tempo in cui studiavo in un collegio e, effettivamente, credo d’aver tanto più amato il poco che vidi del quadro poiché non sapevo fosse di Caravaggio. Non si trattava dunque di un’ammirazione dovuta, come a volte può capitare di fronte a un’opera che ci viene presentata come il capolavoro di un maestro dell’arte. Avevo scoperto quel viso femminile in una riproduzione in bianco e nero, tra le pagine di un’edizione divulgativa, molto povera, sulla pittura italiana (credo non si possa fare di peggio per trasmettere la pittura), e quel viso mi aveva letteralmente illuminato. Nient’altro che il volto di una donna (all’epoca ignoravo fosse quello di Giuditta) con le sopracciglia un po’ aggrottate. Mi piaceva come quell’espressione corrugata rimasse, per così dire, con un altro elemento della figura, i laccetti del corsetto che stingevano il seno mettendolo in valore, e come quel viso bellissimo, e in un certo senso puro e dolce, sembrasse tormentato da un compito misterioso che ne serrava i tratti.

Nel libro racconto la piccola avventura che per anni ho avuto con questa riproduzione, che strappai dal libro e rappresentò per me la prima seria fissazione erotica, ciò che ha definito i lineamenti della mia ossessione estetica a venire. Solo quindici anni più tardi, durante una vacanza a Roma, mi trovai di fronte al quadro, e seppi allora che quello che avevo visto non era che un dettaglio di un’opera immensa, Giuditta e Oloferne, di un certo Caravaggio. Quindi, ero ossessionato, ed ero stato ossessionato per anni, dal volto di una donna che, senza che lo sapessi, stava uccidendo un uomo.

Mi piaceva l’idea di aprire il libro raccontando come i corpi delle donne di Caravaggio, dai tratti marcatamente sensuali (si parla spesso delle sue figure maschili, ma anche le poche figure femminili, quasi sempre le stesse, la stessa modella, hanno caratteristiche simili) siano deflagranti, e vedere che tutta la sua opera per me fosse già lì, nel rapporto tra erotismo e morte. Inoltre, esponendo questa scena, questo piccolo romanzo d’appendice, racconto in qualche modo anche il mio orizzonte di attesa nei confronti delle opere d’arte: ossia, che mi piace farne uso.
MM: All’inizio della nostra conversazione, dicevi che l’editore francese ti aveva proposto di scrivere una biografia, ma la solitudine che dà il titolo al lavoro non si riferisce a questo aspetto. Raccontare quella solitudine, affermi, per te significa tentare di scrivere l’esperienza interiore di Caravaggio mentre dipinge, avvicinarti con la parola verso il gesto stesso della pittura.
YH: La biografia in effetti mi sembrava troppo facile, o possibile, e inoltre la vita di Caravaggio è stata raccontata innumerevoli volte, in italiano, francese, inglese e ancora in molte altre lingue. Alla fine, bisogna dire che su Caravaggio abbiamo poche notizie d’archivio, e al contrario molti fantasmi, un’intera leggenda sul pittore che ho cercato di eludere.
Quel che mi interessa del rapporto tra scrittura e pittura è cercare di indovinare, quasi poeticamente, grazie al potere del linguaggio, ciò che non ha testimoni e sfugge a ogni testimonianza, ossia l’atto di creazione. La mia ambizione, la mia follia anche, poiché so bene che si tratta di qualcosa di impossibile, ma è appunto per questo che la scrittura deve andare in quella direzione, la mia ambizione o follia sarebbe dunque quella di mettere delle parole su quell’istante (un istante che può durare a lungo poiché Caravaggio poteva dipingere un quadro a volte per mesi) che sfugge al pubblico, alla rappresentazione, la solitudine del pittore nel suo studio. La mia idea è che Caravaggio passasse molto più tempo a dipingere che a battersi o bere nelle taverne e quando leggo le biografie che gli sono dedicate mi esaspera il modo in cui si metta sempre in primo piano il lato bad boy del pittore. Era certo un personaggio esuberante, pieno d’eccessi, un individuo che non si risparmiava ed era afflitto da una negatività permanente. Ma per me rimane prima di tutto qualcuno di estremamente concentrato nel proprio lavoro: è l’opera di Caravaggio che mi interessa, non il pittoresco del suo racconto.
Ho cercato allora di smontare la leggenda e mi sono sbarazzato della sua biografia velocemente, facendone un riassunto un po’ insolente all’inizio del libro, anche se poi seguo comunque il suo itinerario, che è molto breve. Ma anche in questo itinerario quel che cerco è ciò che Jean-Christophe Bailly chiama un punto di solitudine. Bailly usa quest’espressone a proposito degli animali che, nella loro evasività, nelle loro fughe, nel modo in cui di contino si nascondo (come fa la natura stessa, dice Bailly), raggiungono un punto che si sottrae a ogni sguardo. Per me i pittori sono in effetti come animali selvatici, esseri che si nascondono in un studio, in una grotta, come a Lascaux, o comunque in un luogo poco illuminato per quanto riguarda Caravaggio, per cercare di trovare un punto nella notte dove qualcosa accade, e può accadere solo lì, al di fuori della società.
Scrivere di pittura significa cercare di trovare o indovinare questo punto di solitudine del pittore e, con Caravaggio, tutto questo per me appare in maniera ancora più violenta ed evidente, poiché si tratta di un individuo in continua lotta contro il mondo e in fondo contro se stesso. Il vero oggetto del libro è questa solitudine e scrivendolo ho avuto la sensazione che in quel punto di solitudine, nel momento della pittura, si ritrovasse anche la sua spiritualità.

MM: Tu scrivi che «mai nessun artista si è tanto logorato i nervi nel tentativo di cogliere la verità in pittura», sottolineando come Caravaggio sia «il primo pittore che prenda sul serio il nulla». Forse per questo nel libro metti da parte il dibattito sul chiaroscuro, per indagare invece l’uso dei neri, potenti e sempre più scuri negli anni, come se quel modo di dipingere avesse per te una portata ontologica. In questo senso, il tuo percorso su Caravaggio si intreccia anche con una ricerca sulle soglie del visibile e del rappresentabile, come quando ti soffermi su un riflesso di luce, un piccolo quadrato bianco che emerge misteriosamente dallo specchio che troviamo nella Conversione della Maddalena.
YH: È vero che ho scritto un libro che è forse il solo su Caravaggio in cui non si parla mai del chiaroscuro. È del resto un’espressione che mi irrita perché non appena si nomina Caravaggio, la reazione è di identificarlo con questa tecnica, mentre trovo che l’intera pittura mondiale sia attraversata da un lavoro o da un’interrogazione sul chiaroscuro, o almeno per me questa è la definizione stessa della pittura: una tavolozza è fatta per far lavorare la luce, le tenebre, il nero, il bianco… Così ho messo da parte questa idea.
Invece, in maniera molto violenta, mi sembra che il fondo stesso, quasi cosmologico, di ciò che Caravaggio dipinge sia il nero. Qualcosa si è abbattuto sul mondo, una chiusura. Potrei dirlo con Bonnefoy e molti altri: è la fine del Rinascimento. Ciò che accade nei quadri di Caravaggio è contemporaneo a Shakespeare, ad Amleto, a quella bella frase d’Amleto che dice che «il tempo è scardinato» e qualcosa di mostruoso si diffonde. Caravaggio, ed è questo il suo genio, capta una materia incosciente del suo tempo.
Se inizialmente la sua pittura presenta ragazzi incoronati d’edera, Bacco arroganti o lascivi, nel percorso della sua opera, Caravaggio si confronta sempre più con le pitture sacre, ovviamente anche perché i grandi committenti vengono da istituzioni religiose. E mi pare che attraverso i soggetti religiosi Caravaggio sia giunto a fissare, a volte in dettagli, quel che ne è del miraggio stesso della pittura e anche del suo miracolo. Penso che non si possa concepire la pittura di Caravaggio immaginandolo anacronisticamente come un individuo semplicemente ateo, poiché l’ateismo come lo intendiamo noi è qualcosa che non poteva esistere realmente in quel momento. Quel che mi sembra di vedere nella sua pittura è invece un conflitto, non tanto tra materia e spirito, ma un conflitto tra impulsi opposti, tra il suo rifiuto dell’autorità, diciamo l’autorità religiosa, e il suo amore per Cristo. E penso che in lui l’esistenza del sacro abbia a che fare con l’esistenza della violenza, con il sacrificale, il coltello, la ferita, l’omicidio. Penso che qualcuno come Caravaggio, la cui vita era molto dissoluta, una vita violenta che ha incontrato il crimine, abbia trovato nella rappresentazione del sacro una risposta ai suoi impulsi.

Allora, effettivamente hai ragione quando ricordi quel piccolo dettaglio della Conversione della Maddalena, il piccolo rettangolo bianco, in cui si afferma o si riflette qualcosa che è la traccia di una trascendenza, ma nella materia stessa. Cosa sta catturando in effetti Caravaggio nella rete della rappresentazione? Questo rettangolo bianco, che sembra emergere come un buco nel reale lacaniano e inghiottire tutto il resto, sembra dirci che forse è il momento stesso del miracolo che sta avvenendo, una lacuna nella rappresentazione: il fatto che la rappresentazione stessa non cerca di rappresentare ma di riunire ciò che non si vede.
Ricordo che quando stavo lavorando sul libro ed ero andato a rivedere questo quadro a Milano, alla mostra Dentro Caravaggio, quando sono entrato nella sala il piccolo rettangolo bianco ha beneficiato, per così dire, di un afflusso di luce che lo ha fatto brillare. Non avevo mai veramente visto questo dettaglio prima di allora. Ricordo di essermi detto, quasi scherzando, questo è Dio, ma è anche il nulla. Tutto questo per dirti che penso che tu abbia ragione. La rappresentazione è sempre una messa in scena in difetto su se stessa. I grandi pittori, i grandi creatori attirano il nostro sguardo verso un particolare, un luogo che va ben oltre la rappresentazione, e porta l’invisibile nel visibile.
MM: La violenza, a cui hai fatto cenno poco fa, è un tema che attraversa i tuoi libri e che indaghi non tanto per la sua rappresentazione, ma per la sua portata, la sua ricaduta per l’esistenza stessa. Penso ad esempio alle pagine che consacri al Martirio di San Matteo, in cui mi ha colpito la tua attenzione verso la figura e il grido del bambino che, scrivi, «nella convinzione di allontanarsi dalla scena del crimine, ci avvicina a essa e, attraverso la sua emozione, ci apre al pensiero, perché testimonia, soprattutto attraverso la sua paura, un evento che è una rottura metafisica». Questo grido per te non è diverso da quello delle figure di Poussin o di Francis Bacon, è un grido che attraversa la pittura stessa; anzi, è ciò che «si deve assolutamente dipingere», l’istante che «solo la pittura può descrivere».

YH: Nella Cappella Contarelli di San Luigi dei Francesi, c’è in effetti un dettaglio del Martirio di San Matteo che mi sembra darci, diciamo così, il posizionamento metafisico di Caravaggio. Si tratta appunto del bambino sulla destra che attraverso quel grido, aprendo in quel modo la bocca, si estrae dalla scena del crimine e al tempo stesso chiama lo spettatore. È il testimone desolato. Ma è anche un bambino, e continua a portare con sé una sorta d’innocenza, pur se ha assistito al male. Penso che Caravaggio sia come quel bambino, qualcuno che non ha distolto il suo sguardo dalla violenza, ed anzi vi assiste (lui stesso si rappresenta nel quadro), ma ha cercato al tempo stesso un altrove del quadro che in fondo sarebbe una sorta di trasmissione. E questo altrove è lo spettatore.
La bocca del bambino, quel grido silenzioso che distrugge la notte, mi pare inaugurare tutta una forma di pittura occidentale che ritroviamo in effetti fino a Francis Bacon. Bacon, si sa, cominciava sempre i suoi quadri con un tondo che delineava la bocca di un personaggio. Ogni sua figura prendeva così inizio con un buco, una fessura, che alla fine non è altro che il buco del mondo, il sifone della vasca o della doccia attraverso il quale il mondo si svuota; ma anche l’orifizio sessuale e la deflagrazione.

Per tornare al Martirio, quel che Caravaggio fissa è il mistero d’iniquità di cui parla di San Paolo, ossia un crimine all’interno di un santuario, di una chiesa, dove i criminali si ritrovano al posto del prete per ucciderlo. Un tale crimine non è solo diretto contro un uomo, ma contro la possibilità stessa che si possa essere indenni: attraverso San Matteo, è l’innocenza stessa a essere presa di mira. In tutto questo c’è qualcosa di una prefigurazione quasi nietzschiana della morte di Dio. Gli assassini di Dio sono là, li vediamo, e vediamo che sono solo uomini, ma anche che sono uomini belli e desiderabili. Siamo dunque al tempo stesso nell’affermazione fisica e mostruosamente bella del crimine, con questa specie di angelo sterminatore, e nell’orrore sacro che la bocca aperta del bambino afferma.
Effettivamente, anche se la pittura è sempre muta, nell’opera di Caravaggio questo grido si fa sentire. In moltissimi suoi quadri le bocche sono aperte: a volte si tratta di bocche di seduzione, come nelle figure giovanili di Bacco, in cui richiamano la corruzione e l’atto sessuale, altre volte si mostrano in una contorsione violenta, come quella di Oloferne mentre viene ucciso da Giuditta. Credo in fondo che il grido sia ciò che si sottrae al linguaggio e forse, paradossalmente, è ciò che si avvicina maggiormente alla pittura, che eppure è muta.
MM: La tua scrittura si concentra su dettagli, illumina particolari della materia pittorica come se ne cercasse i rilievi sensibili e al tempo stesso come se fosse mossa da una sorta ipersensibilità di fronte ai quadri. Leggendo il libro, mi è tornato in mente un bel saggio di pochi anni fa, Éloge d l’hypersensible, in cui l’autrice, Evelyne Grossman, ne parla come di «uno strumento di esplorazione critica del mondo». Mi pare che tu proceda nella stessa direzione quando scrivi che nella pittura è presente un ampliamento della finezza del sentire che si oppone alla perdita delle sensazioni.
YH: Guardare i quadri, andare nei musei a cercare i dettagli che ti piacciono, significa esercitare l’occhio. Significa perfezionare il proprio modo di vivere, di sentire, di scrivere, di amare. Ricordo che la prima volta che vidi la Canestra di frutta di Caravaggio a Milano, sentii davvero, fisicamente, stando davanti a quella cesta per quasi un pomeriggio, non solo una sensazione di piacere, ma un effetto filosofico. Quella Canestra mi ha offerto una forma di pensiero tanto quanto la lettura di Spinoza.
C’è qualcosa nel piacere e nel desiderio che si può avere per le opere d’arte, nel godimento che si ha nel dettagliare le sfumature, nel far parlare ogni pigmento di un quadro, anche in silenzio, nel parlare all’infinito con un solo quadro, qualcosa che tocca realmente una forma d’amore. È solo davanti a certi quadri che trovo l’acume percettivo di cui sono capace in amore, nella relazione d’amore, quel momento in cui le sensazioni si aprono, così come la capacità di sentire e di allargare le sfumature. Di fronte a un quadro avviene la stessa cosa. Per me, di fronte a Caravaggio, ma non solo lui, anche di fronte a Rembrandt, Tiziano, Bacon, Delacroix, di fronte a tutti i pittori che amo e che sono pittori dell’esacerbazione della sensazione, pittori violenti, di fronte a questi pittori, per dirlo con una parola molto vecchia, raggiungo una forma di conoscenza che non trovo nella realtà.
Penso che la pittura ci mantenga vivi e ci chiami; ci indichi un luogo dove possiamo ancora non essere alienati da quel cattivo linguaggio che ormai è diventata la nostra stessa la società. Sono opportunità di rinnovamento, di rinascita. Per me, la pittura è sempre un luogo di freschezza, un luogo afrodisiaco anche, un luogo che restituisce il desiderio al pensiero.

MM: Quanto dici mi pare sia un aspetto che si ritrova anche nei tuoi romanzi, letteralmente attraversati da opere d’arte, come se nelle frasi, attraverso linguaggio, tentassi di comporre un museo personale, o immaginario, per riprendere Malraux, entro cui rilanciare di continuo quel desiderio. In questo accumulo di opere, mi sembra che non sia presente solo il tuo amore dichiarato per le arti visive, ma anche una sorta di posizione etica, o forse politica, da parte tua, che emerge dall’incontro, non solo della scrittura, con le arti.
YH: Diciamo che per me il leggibile ha a che fare con il visibile. Riferendosi all’opera di Virgilio, all’inizio dell’Inferno, Dante parla del «largo fiume» del linguaggio. Questo fiume del linguaggio per me scintilla sui volti e sulle figure dipinte. Dal momento in cui apro gli occhi e cerco di articolare delle frasi, quel che in primo luogo mi viene incontro sono volti che arrivano da molto lontano, forme che emergono da grotte primordiali. I musei sono come riserve di animali selvatici dove le impronte della storia sono stampate, quasi fotograficamente, sui muri; un luogo in cui le opere respirano, come si dice per gli affreschi, la pittura appunto a fresco. Questi volti mi animano come tante voci ed echi di tutti i tempi. Appena inizio a scrivere, è come se intoro a me sentissi il fruscio di questi frammenti e dettagli di opere d’arte o vedessi illuminarsi come lampi quei volti che ermergono dal tempo. Per me la letteratura è un modo di attraversare il fiume di cui parla Dante; un fiume che però va verso il futuro, proponendo una traversata continua e ininterrotta dove siano presenti tutti i volti del mondo. Quando scrivo è in fondo come se saltassi sopra l’Arca di Noè e continuassi questo viaggio.
Le arti visive per me non sono solo essenziali, ma anche legate alla scrittura. A volte scrivo libri dedicati alla pittura, ma il più delle volte quadri, fotografie o film si dissolvono nella scrittura dei romanzi. Sento fortemente il bisogno di questo tipo di lavoro, di questa disposizione, e anche il bisogno di proseguire nella costituzione di questa riserva o scorta di opere. Non so se è perché ci sia qualcosa da salvare, anche se devo dire che non mi interessa il dovere della memoria, l’imperativo del ricordo, ma la mia etica personale, la mia politica, come dici, è difatti quella di portare con me sempre più opere nel viaggio della scrittura. Credo che nell’incontro, anche notturno, nel sogno, tra un quadro o una fotografia e la scrittura, si componga uno scambio elettrico di sfumature e dettagli che è forse una forma di magia bianca, qualcosa che può realmente inventare una via d’uscita dall’infamia politica e dall’incubo storico in cui viviamo. Sento che ci sono cose piene di futuro che giacciono nelle opere d’arte e aspettano solo uno sguardo e le frasi che lo accompagnano per uscire dal loro sonno, da una sorta di guscio che le protegge. Diciamo che ho più fiducia nelle opere d’arte, di ogni epoca, che in qualsiasi programma politico. Penso ci sia ancora molto da ottenere dalla nostra decifrazione di dipinti, sculture, fotografie o film, e ci sia più speranza e sensibilità di vivere, godere e amare in Pasolini, Tarkovskij, Godard o negli ottimi film di oggi, così come anche nelle pitture paleolitiche di Lascaux o in quelle esposte nelle gallerie di Roma, Parigi, New York, che nelle parole dei politici. Il «miele poetico» credo sia davvero la politica a venire e alla quale dobbiamo tendere.

In copertina: Caravaggio, Bacco, 1598 ca., Gallerie degli Uffizi, Firenze (particolare)