Raschiate dal fondo: nature morte (viventi) di Alessandra Carnaroli e Anne Imhof

12/11/2021

Nel Giudizio universale di Michelangelo San Bartolomeo regge in una mano il suo corpo sventrato, nell’altra lo strumento del suo martirio: un coltello. La veste di pelle che pende nel vuoto ha il volto di chi l’ha dipinto. Martirio e creazione si incontrano nel gesto dello scorticamento. Lo stesso gesto che si riconosce nella raccolta di Alessandra Carnaroli, appena uscita per Einaudi: 50 tentati suicidi più 50 oggetti contundenti. 50 sono le pelli che Carnaroli ci mostra in una mano e 50 sono gli oggetti acuminati che espone nell’altra mano. Nessun martirio, però, se non quello etimologico della testimonianza, dal tono pungente, dissacrante. Le pelli che pendono sono quelle di 50 donne, 50 desperate housewives – si legge nella quarta di copertina, 50 vivissime scorticate (come le sorelle della fiaba di Basile di recente messe in scena da Emma Dante), alle quali sono affiancati 50 strumenti quotidiani e potenzialmente letali.

Prima di leggere questa raccolta, associavo alla poesia di Carnaroli un oggetto che mi sembra possa bene illustrare l’operazione in versi che la poeta compie. Si tratta della curette (da pronunciare alla francese), uno strumento chirurgico che l’autrice non nomina mai, sebbene il gesto al quale esso si collega sia impresso con forza nei suoi versi. La curette ha la forma di un cucchiaio, ma non assolve la funzione confortante di raccogliere il brodo. Il contorno è laminare, tagliente, il centro è spesso bucato. Il suono della parola è morbido, curativo, e stona con l’azione che la chirurga o il chirurgo compie: propriamente raschiare, scarnificare, scorticare (ma dall’interno, in maniera uterina). Un gesto invasivo e doloroso che a volte – c’è da dirlo manifestamente – cura.

Anche in questa nuova raccolta si compiono dei raschiamenti, sono materiali patologici a essere rimossi dal tessuto della realtà e mostrati. E la scrittura di Carnaroli fiorisce nel solco, rivitalizzando la necrosi. I suoi testi sono composti di poche linee, come i profili delle figure che lei stessa disegna, sparsi in rete e in alcuni suoi libri precedenti (ad es. In caso di smarrimento / riportare a oppure in Ex-voto). Sebbene nella raccolta appena uscita non siano presenti illustrazioni, il rapporto con le arti visive è fondamentale, in particolar modo con il disegno («il rasoio / da barba / per rifinire / il disegno / come le vuoi / le basette […] / la tua faccia / pagine / gli strati epiteliali / che sfoglio»). Carnaroli osserva i motivi geometrici della routine casalinga, come i segni che il ferro da stiro «lascia sulla pancia / la v / di vittoria / o vendetta / a seconda». Nei testi non c’è punteggiatura, non ci sono maiuscole, il testo si spezza quando va a capo, ma tira dritto, ricomponendo in un’unica figura le disiecta membra di una carneficina quotidiana:

20.
il cacciavite
accanito
a smontare spalle
cosce dalle anche
gira a vuoto
tra le ovaie spanate
cerco su google come fare
per svitare

C’è un video su Youtube nel quale Carnaroli legge un testo tratto da Sespersa, ritmando con la voce la mano che disegna. La penna tratteggia il contorno della figura, staccandosi dal foglio quando il ritmo rallenta o nelle pause. Nella maggior parte dei profili che traccia, il tratto si moltiplica all’estremità: dita e piedi sono disegnati con una linea nera convulsa, con un gesto singhiozzante descritto nel penultimo componimento della nuova raccolta: «tuo figlio era strano / mordeva gli altri bambini disegnava artigli nella mano». Silhouette su fondo bianco, anche le poesie di Carnaroli hanno unghie che graffiano la visione. Hanno unghie rosse, come quelle di molte delle figure che disegna, delle sue donne madornali, madonne carnali, madri del tutto reali che si scattano selfie con i propri bambini in braccio.

Il rosso del sangue colora anche quest’ultima raccolta, come le precedenti, a sottolineare evidenze disarmanti: «nel sangue tutti i pesci sono rossi». Un verso, quest’ultimo, che ha la forza di una delle più celebri immagini di Sandy Skoglund, ma invertita: in uno spazio completamente rosso sembrano scorgersi soltanto le sagome in movimento di pesci azzurrini, di «flip flop accendini cotton fioc / del sud del mondo», in un fluido denso fatto di «litri di sangue» nel quale, «con la testa rivolta al fondo», Carnaroli resta «in continua esplorazione dell’abisso», letteralmente under-ground in una ‘depressione’ fisicamente connotata. «Restare dentro / una sagoma rossa che pulsa» scrive a mo’ di proposito in un’altra poesia.

Come ha scritto Marta Fabiani in una raccolta che meriterebbe di essere ristampata (Maratona, 1977): «Il sangue è rosso perché tu lo veda», verso al quale fa eco quel «rosso che mi riempi i giorni» che scandisce Rosa rosse rosa (1986) di Alida Airaghi. L’allusione è al sangue mestruale, al quale Carnaroli stessa rimanda, attraverso una lingua che riveste una funzione evidenziale spiazzante perché composta di immagini ordinarie, generalmente non usate in poesia, accostate con esiti perturbanti:

questi pois bianchi su lenzuolo
dove ricalca la mia guancia
una forma di fetta
arancia o carne
fanno malattia infantile
lamento voglio pappa
la mia guancia dicevo
aderisce
come sangue
alla mutanda
solo con acqua calda
si leva
o sveglia

La poesia di Carnaroli è fisica, è flatus vocis corporeo, e raccoglie da sempre le voci di quotidianità marginalizzate. È una voce singolarissima e al tempo stesso collettiva, ma senza pretese universalistiche, senza quel paternalismo che connata tanta parte della scrittura sulla marginalità. L’orecchio raccoglie quello che sente e lo trasforma in una lingua personale, fatta di associazioni di suono e di senso disturbanti, le quali portano impressa la cifra della realtà quotidiana, di donne comuni che guardano le rubriche di cucina su Italia 1:

preparo il giorno
del mio trapasso stendo
la pasta sfoglia passo
passo
come dice benedetta
detto cotto
le presine da forno
sentiranno
la mancanza quando
cadrò
di sotto

Quando legge dal vivo, il corpo di Carnaroli sembra muoversi al ritmo del testo. E così i suoi versi si caricano di parole-rima che non solo scandiscono il movimento, ma agiscono come dei veri e propri strumenti contundenti, affilatissimi, in grado di raschiare il pensiero. Strumenti ben poco umani, verrebbe da dire, ma che in realtà segnano la cifra taciuta dell’umano. Carnaroli si fa carico di nominarli, di elencarli ordinatamente, numerandoli da 1 a 50, fissandoli con occhio fotografico sulla pagina. E lo fa dopo averci fatto osservare 50 scatti che riproducono altrettante posture di una violenza subìta, auto-inflitta o provocata:

nella gabbia dei leoni
coi bambini che guardano
la mia testa
muoversi
come coda di
lucertola il corpo
per inerzia continuare a scattare
foto ricordo

50 scatti di 50 suicidi/omicidi soltanto tentati, nei quali l’omicida/suicida finisce per fingersi morto come le lucertole («potrei fingermi morto / come lucertola»), per poi di nuovo tentare la morte, in un’infinita variazione del quotidiano modulata con ironico distacco:

cadendo all’indietro
da una sedia mentre rido
per una battuta
del collega in pausa pranzo
il capoufficio annuncia:
metteremo copertura
termosifoni come ai bimbi
imporremo il silenzio dopo le undici

Dopo il catalogo di posture immortalate che si dispiega nella prima parte, si spalanca un ripostiglio di attrezzi, di violenze propriamente “oggettivate” (o meglio, “oggettificate”). Disegno e fotografia sembrano costituire l’attrezzatura con la quale Carnaroli crea i suoi testi-immagine, dando loro la forma di vivacissime nature morte, specialmente nella seconda parte della raccolta, dedicata appunto agli oggetti contundenti:

La teiera
comprata dai cinesi al ristorante cino-giapponese
mangia quello che vuoi a dodici euro solo pranzo
avevamo mangiato tanto più del dovuto succede
sempre così dicevi ora sei muta
il beccuccio del bollitore boccuccia
la lingua è il filtro
piccole foglie di tè le papille

Trovo un’intensa consonanza tra la raccolta di Carnaroli e la mostra di Anne Imhof, che si è chiusa nelle scorse settimane al Palais de Tokyo di Parigi, e intitolata appunto Natures mortes. Creando un percorso labirintico dai toni dark e underground nelle sale serpentine di un Palais messo a nudo, Anne Imhof sembra rileggere l’affermazione di Susan Sontag, «c’è bellezza nelle rovine» (Davanti al dolore degli altri), schierandosi contro quella bellezza che Paul B. Preciado – il quale ha collaborato in prima persona all’installazione performativa di Imhof – ha definito come “disgustosa”. «La beauté est dégoûtante» perché esclude tutto ciò che ai margini è connesso, tutta la polvere di solito nascosta sotto al tappeto.

Se, come scrive provocatoriamente Preciado nel testo Après la beauté incluso nel catalogo della mostra, «la bellezza è sempre una natura morta», ciò che sembra suggerire Imhof, e con lei Carnaroli, è la necessità di trovare nuove forme che sappiano dar conto di quel cambiamento epistemologico che sta avvenendo e al quale si accompagna per forza di cose una mutazione estetica. Di quale mutamento si tratta? È di nuovo Preciado a risponderci: il passaggio «da una cultura scritta a una cultura cyber-orale, da una cultura dominata dall’architettura materiale a una cultura fatta fondamentalmente d’infrastrutture numeriche». Carnaroli e Imhof sanno dare nuova forma estetica a questo passaggio. Ed entrambe lo fanno lavorando sulla voce e sul suo rapporto con una materia che sta attraversando un processo di smaterializzazione, producendo cumuli e cumuli di scarti e al tempo stesso creando, paradossalmente, sempre più materia da sistemare, da assemblare. La lingua, nel caso di Carnaroli, è il filtro che trattiene i resti per donare loro nuova vita. In inglese “natura morta” si dice “still life” – è un Leitmotiv che ritorna (luminosamente esplicitato nel film Still life di Uberto Pasolini del 2013).

Da questa prospettiva acquisisce ancora più senso l’operazione che compie Carnaroli: passare in rassegna l’armamentario delle brutture del quotidiano non significa per forza di cosa perpetrarle, ma può voler dire trasformarle in organicità vitale, dando corpo alla viva voce di chi ci convive ogni giorno. «The only living thing is like the sound of my voice», ripete l’artista Eliza Douglas nella performance di Imhof mentre si muove tra le installazioni-nature morte insieme a un gruppo di skaters-zombie, spesso fisicamente trascinata sopra a casse acustiche che amplificano i suoni e modificano lo spazio, caricandolo di un’energia inattesa. Le casse che girano per le sale del Palais de Tokyo, spinte dai performer o fatte scorrere su binari comandati a distanza, vanno incontro agli osservatori e alle osservatrici, muovendosi con loro, trascinandoli in processione oppure sorprendendoli/e all’improvviso, come fanno le «casse / dello stereo / buttate addosso / così senza senso» che compaiono tra gli oggetti contundenti di Carnaroli.

Sia Carnaroli sia Imhof sanno costruire dei tableaux vivants di grande intensità, nei quali lo slancio vitale si solleva dal fondo, da quello spazio materico e organico proprio della cultura underground e popolare. In questo «paysage gravé», un paesaggio scalfito e raschiato – “graffiato” da una rabbia vitale, come le lastre d’alluminio che Imhof ha inciso per la mostra parigina o come molti dei graffiti esposti –, entrambe si muovono, racimolando i resti, gli scarti, accorpandoli per dare loro nuovo valore estetico e dunque politico:

per un cortocircuito 
di elettrodomestici
fili scoperti nell’amplificatore
karaoke di bar presso stazione
file di albanesi che vogliono
cantare ricchi e poveri cutugno
rettore è sufficiente una scintilla
per far scoppiare l’incendio
tra i vestiti sintetici e i buoni pasto

«Diventiamo insensibili» – potremmo chiederci insieme a Susan Sontag – davanti a queste immagini apparentemente mortifere, raschiate dal fondo di una realtà che parrebbe avere i connotati di «un film di violenza»? Il gioco è rischioso e la risposta non è scontata, ma la sensazione, dopo aver letto Carnaroli o osservato l’esibizione di Imhof, è di uscirne addirittura sollevatə (con tutto il senso civile che questo verbo può racchiudere).

Alessandra Carnaroli
50 tentati suicidi più 50 oggetti contundenti
Einaudi, 2021, pp. 120, € 11

Anne Imhof
Natures mortes
Palais de Tokyo (Parigi), 22/05/2021 – 24/10/2021

In copertina: Alessandra Carnaroli, Senza titolo, 2021 (particolare)

Sara Sermini

vive tra Milano e Parigi. Ha conseguito un dottorato di ricerca presso l’Università della Svizzera italiana di Lugano con un progetto intitolato “Dare voce. Poetiche e pratiche di povertà nell’Italia del secondo dopoguerra”. È stata Visiting doctoral researcher presso University College London e ora è Visiting research fellow presso l’Université Paris Nanterre. Ha dedicato una monografia alla figura e all’opera di Amelia Rosselli: “«E se paesani /zoppicanti sono questi versi». Povertà e follia nell’opera di Amelia Rosselli” (Olschki 2019). È autrice di una raccolta di poesie intitolata “Diritto all’oblio”, in parte pubblicata nel “Quindicesimo quaderno italiano di poesia contemporanea” (Marcos y Marcos, 2021).

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