Sono disposto a diventare un poliziotto in questo spettacolo.
Sono disposto a credere di essere un vero poliziotto.
Sono disposto a eseguire tutti gli ordini per essere un vero poliziotto.
Eseguirò gli ordini al meglio delle mie possibilità e capacità.
Eseguirò gli ordini anche se mi sembreranno contraddittori.
Eseguirò gli ordini anche se mi sembreranno risibili.
…
Eseguirò gli ordini anche nel buio più oscuro.
Eseguirò gli ordini con freddezza sacerdotale, anche se non capisco questa frase.
Eseguirò gli ordini come una statua classica, anche se non capisco questa frase.
Eseguirò gli ordini come un antico scriba Sumero, anche se non capisco questa frase.
Eseguirò gli ordini come un serpente piumato, anche se non capisco questa frase.
Eseguirò gli ordini come fossi ferro-cianuro, anche se non capisco questa frase.
Eseguirò gli ordini contro me stesso, anche se non capisco questa frase.
…
Questo è parte dell’indice comportamentale consegnato a «ignari partecipanti», ovvero uomini presi dalla strada, come li definisce Romeo Castellucci, presi e portati in scena con l’impegno di eseguire gli ordini impartiti attraverso un auricolare. Infatti, per il debutto di Bros al teatro LAC di Lugano, non è stata fatta alcuna prova, se non tecnica. Il pubblico, d’altra parte, viene accolto da minacciose e rumorose macchine tra i vapori e la tenebra. Nel buio si riconosce il palco e la torre scenica: non si è in platea, ma su una tribuna nello scheletro del retroscena, e da molto vicino si assiste.
La prima parola pronunciata è Domini, un nome antico in una lingua morta. Il vecchio sacerdote in vesti bianche tiene un monologo in latino, come se ciò che dice non potesse essere detto in una lingua moderna. E qui, fin dall’inizio, emerge il grave rapporto che Castellucci tiene con la parola: mai presente come semplice discorso, quando c’è, la parola appare mutila o camuffata, e poi viene radicalmente bandita dalla scena rafforzandone la presenza – come un Socrate morente il vecchio riceve dai poliziotti un latte fatale, poi libato a terra, spegnendo ogni pronuncia.

C’è forse una sola cosa che, nel teatro di Castellucci, è più essenziale della presenza della parola incompiuta, anche se ad essa connaturata: la violenza dell’immagine. Dal dettaglio alla centralità dell’evento. Dall’omaggio al quadro della fucilazione del 3 maggio di Goya al fuoco di una torcia che lambisce un tubo al neon in un aspro legame: una vecchia luce sacerdotale costretta ad abbracciare la luce delle sale interrogatori, degli ospedali, degli obitori, delle celle frigorifere nelle macellerie. A tratti marcati si svela la natura cultuale del totalitarismo, e in veste grottesca appare poi l’idolo, sul pulpito, mentre i poliziotti in rango alzano le braccia verso questo fantoccio di legno dal corpo troppo minuto per un volto così severo. Quel che attendono è qualcosa dell’ordine del tremendum et fascinans. Il fantoccio, aprendo meccanicamente la bocca, lancia comandi tremendi, perché emessi da una voce tonante, spaventosa e senza significato. Ed è a questa voce che i poliziotti riferiranno ad ogni ordine – la si immagina nella loro testa quando si coordinano sul palco per dar forma a figure, scene totali o frammentarie con «freddezza sacerdotale».
Castellucci dichiara di accettare il disordine del caso, ma solo a patto che irrompa all’interno di una forte disciplina. E per questo, nonostante la serietà delle azioni, in scena non si avverte l’estetica militare secondo la quale i ranghi si riconoscono non solo dalle uniformi e dalla linea retta, ma anche dalle distanze regolari, dalla scala decrescente secondo l’altezza fisica degli uomini, nonché dal passo ritmato negli spostamenti di gruppo. Un’estetica dell’infrangibile, dell’organismo coeso. Qui invece traspare un individualismo che tradisce le diverse provenienze dei personaggi e la loro solitudine in scena («Non guarderò mai negli occhi i miei colleghi.»): a compensare gli anni di addestramento subentra la tecnica che permette precisi comandi in tempo reale; così l’automatismo, che matura nell’abitudine, viene restituito attraverso l’auricolare e l’ingaggio per la finzione teatrale.

Questi anonimi individui, accettando l’indice comportamentale, vengono liberati dalla responsabilità, dalla colpa, dalla vergogna e anche dal senso delle loro azioni. Dovranno simulare crisi epilettiche per diversi minuti, denudarsi, inginocchiarsi e omaggiare l’immagine di un babbuino, praticare la tortura dell’annegamento simulato su un collega. La procedura qui si trova nella zona più prossima al rituale: ciò che conta non sono gli obiettivi, bensì le modalità di esecuzione. E se il confine non viene varcato è solo perché il rituale tende alla perfetta coscienza, mentre le procedure tracciano le strade del regno degli automi. Là irrompe l’animale – costante nel teatro di Castellucci – come un collasso nella rappresentazione in qualità di presenza piena che non finge. La macchina e l’automa, l’animale, e nel mezzo l’uomo. Procedure, azioni formalizzate in cui l’animale è costretto dal guinzaglio, la macchina dal codice, e l’uomo?

Il bambino infine assicura il nuovo ciclo di violenza – De pullo et ovo – nella sua veste bianca che ricorda tanto il vecchio profeta che parla in solitudine una lingua che non ha scelto. Il vecchio abbandonato che guarda un cielo vuoto, freddo, e ripete con disperazione in latino le parole del dio scomparso: «Il Signore stese la mano e mi toccò la bocca, e il Signore mi disse: “Ecco, io metto le mie parole sulla tua bocca”» (Geremia 1.9). Un sacerdote rimasto solo dopo il crepuscolo, in attesa che vengano gli automi per impartire la dura punizione per il tradimento dell’alleanza, punizione alla quale il vecchio Geremia si arrende di buon grado. Siamo qui sotto questo cielo vuoto, restiamo confusi e spaventati, «questo è il tempo della vendetta del Signore» (Geremia 51.6): un tempo desolato dove non ci sono dèi a cui sacrificare; ed è questo, per Castellucci, il tragico.
Bros
Concezione e regia: Romeo Castellucci
Musica: Scott Gibbons
Motti: Claudia Castellucci
Dialogo drammaturgico: Piersandra Di Matteo
Spettacolo debuttato al Teatro LAC di Lugano il 9 ottobre 2021
In scena dall’11 al 14 novembre al Teatro della Triennale di Milano
Immagine di copertina: ©Stephan Glagla