Con la sistemazione della Galleria del Futurismo, lo scorso 30 settembre è stato portato a compimento il nuovo allestimento della collezione del Museo del Novecento di Milano voluto per il decennale del Museo. È di prossima pubblicazione il volume Il Museo del Novecento, Milano. Un nuovo racconto (Silvana editrice), che comprende la documentazione fotografica degli allestimenti delle ventotto sale del percorso più le introduzioni esplicative alle singole sale, a cura di Flavio Fergonzi, Antonello Negri e Maria Grazia Messina, precedute da una presentazione di Anna Maria Montaldo, direttrice del Museo. Non si tratta né di un catalogo delle opere né di una guida manualistica, ma di una vera e propria narrazione, fra informazione scientifica e divulgazione, di quanto accaduto nelle arti visive in Italia, fra 1910 e 1980, a partire dalla collezione del Museo. Ogni sala affronta un tema o un frangente storico-culturale, e il testo che la introduce dà ragione di come le opere selezionate e riallestite possano esserne l’illustrazione visiva. Per la cortesia del Museo, dell’editore e dell’autrice proponiamo ai nostri lettori uno dei testi di Maria Grazia Messina, quello che introduce alla saletta dedicata a Carol Rama.
Nel dicembre 1969, Alberto Burri espone alla Galleria Notizie di Torino le sue opere recenti, i Bianco Plastica o Bianco Nero, nude superfici in cellotex su cui si assemblano, in partiture essenziali, riquadri di plastiche combuste con sagome elementari curvilinee o rettilinee, campite in acrilico nero. Poco dopo, nell’estate 1970, la mostra curata alla Galleria d’arte Moderna dal giovane critico Germano Celant, Conceptual Art, Arte Povera, Land Art, presenta i lavori, di ragione opposta, dell’Antiform statunitense, le monumentali cascate di strisce di feltro di Bob Morris e i cascami di cinghie di gomme, o Belt Pieces di Richard Serra. Negli stessi mesi, un’artista torinese, Carol Rama (1918-2015), lavora appartata, nella propria casa studio di via Napione 15, oscurata da pesanti tendaggi neri, intesi a tener fuori qualsiasi spunto che non sia quello del proprio immaginario interiore.

Avvia una nuova stagione di ricerca dopo la serie dei Bricolage, su cui si era concentrata nel decennio precedente, tele dove su fondi campiti a macchie o spruzzi di colore, memori della pittura informale, aveva inserito oggetti di riuso i più vari, come grovigli metallici, tappi, occhi di bambole, perfino siringhe, in un’iconografia addensata che muoveva da personali ossessioni, dalle memorie di un’adolescenza difficile, entro una famiglia segnata da rovesci finanziari. Ora, invece, introduce come privilegiato strumento espressivo le camere d’aria delle biciclette, tagliate in strisce regolari e ordinate a delineare semplici figure geometriche entro nitide scansioni spaziali. Certo c’è la personale memoria della ditta paterna che negli anni Venti produceva componenti per automobili e aveva brevettato un modello di bicicletta; ma Rama vive in un isolamento apparente, è artista quanto mai prensile, informata e aggiornata, per nulla indifferente a quanto poteva vedersi a Torino, sul versante di uno sperimentalismo di qualità, quale quello allora testimoniato da Burri, così come dagli artisti dell’Arte Povera o dell’Antiform.

All’epoca Rama, rappresentata dalla storica Galleria La Bussola, ha un proprio collezionismo, ed è nota anche per suoi tratti eccentrici e trasgressivi, che in realtà dissimulano una personalità vulnerabile, confitta in un proprio senso di inadeguatezza. Per tale motivo, il nuovo ciclo delle gomme, appare esprimere al meglio una sua vena di scarna espressività, tutta concentrata sulle pure ragioni – dal progetto alla manualità – del fare pittura in sé, usando le camere d’aria, lise, o rattoppate, o scurite e crepate, invece che i pigmenti, per ottenere le gamme cromatiche predilette, i bruni, marroni, grigi. La tela Arsenale ne è un esempio di eccellenza, il titolo può riferirsi alla personale strumentazione di lavoro, i ritagli di gomme diverse, scalati in sottili modulazioni tonali, come in dipinti di Klee, e ordinati in figure dai leggeri scompensi o asimmetrie, come in quelli di Licini: si tratta del resto di due artisti molto amati, e testimoniati da tante monografie e cataloghi conservati nella biblioteca dell’artista. Il fondo è per lo più inesorabilmente nero, il colore/non colore più amato da Rama, come spiega in un’intervista raccolta da Corrado Levi, dove si sofferma sul valore psicoaffettivo da lei attribuito ai colori. A fronte del congeniale marrone, tutt’uno coi ricordi negativi che le intessono la vita, del grigio, emblema di quella cultura o stile cui aspira, del rosso, “un eccitamento erotico” che si insinua vitalmente nel lavoro, “il nero è quello che mi aiuterà a morire, dipingerei sempre tutto in nero, è una specie di incenerimento, di agonia meravigliosa, il nero è sempre stato una pièce, un mezzo per dipingere e anche sentirmi un po’ regista” (in Carol Rama, catalogo della mostra di Amsterdam, Stedeljik, a cura di Cristina Mundici e Paolo Fossati, Charta 1998). Il nuovo ciclo è presentato in una personale del 1971 alla Bussola, con un’introduzione di un amico di sempre, il poeta Edoardo Sanguineti, che sottolinea l’intento dell’artista di fare ormai pittura pura. Si tratta di “respingere ogni tentazione di racconto o di confessione”, tanto che “le opere recenti di Carol sembrano contenere la crisi del quadro, come istituzione normale alla pittura del nostro ieri, e citare infine, prima che le ‘cose’, prima che il ‘procedimento’, proprio il quadro per sé”.

Nel lavorare alle nuove tele, l’artista teneva accanto a sé, accumulate e cascanti su un cavalletto, diversi campioni di camere d’aria, come testimoniano fotografie della casa studio prese nel corso degli anni Settanta; solo nel 1986, in un’importante personale curata da Corrado Levi al PAC di Milano, il cavalletto con le gomme diviene opera in sé col titolo Presagi di Birnam. È un letterale riferimento al passo del Macbeth di Shakespeare, in cui, alla vigila della battaglia finale, Macbeth vede avverarsi la profezia delle streghe: sarebbe stato vinto soltanto dall’avanzare del bosco di Birnam, in realtà si tratta dei nemici che per dissimulare l’attacco incedono protetti da rami e fronde tagliati al bosco. Tale titolo, che compare fin da alcuni lavori con gomme appese a un gancio, della fine degli anni Settanta, è probabilmente ideato dal nuovo gallerista e sodale dell’artista, Gianfranco Salzano; l’allusione può risiedere nelle gomme/lingue delle streghe, ma soprattutto nell’incombere di un’inquietante minaccia o ossessione, esorcizzata proprio col formalizzarla così, visivamente. Come confessa la stessa artista, i colori e consistenza delle gomme, evocano sensualmente pelli, carnalità; fino a, potremmo aggiungere, sessi esposti, qui dissimulati, quanto oscenamente esibiti in serie di acquarelli, con cui l’artista si afferma definitivamente nel corso degli anni Ottanta, quando il suo lavoro verrà frainteso nell’ottica di un’arte proto femminista, intesa ad aggressiva denuncia dei pregiudizi e soprusi patiti dalle donne. In realtà, l’artista stessa dirà di “dipingere per guarire”, di una propria, esclusiva vocazione al lavoro quale risorsa per affrontare le proprie angosce e paure, guarendosi grazie alla sola trasgressione espressa da uno sperimentalismo costante.
In copertina: Carol Rama, Dorina, 1940 (particolare)