È arrivato al suo terzo libro, Matteo (Nomì Kawuki Asmò Piaos But. Quando abitavo a Kabul il mio passero da combattimento si chiamava Cipolla. Cinquantacinque poesie di Matteo Boetti, Todi, CollAge, 2021,pp. 303 ill. col., € 36). Ma non è il suo Paradiso (anche perché ne prepara già di ulteriori). Cosa sono, allora, questi suoi libri? Semplici raccolte di poesie, risponderebbe lui. Che in quest’occasione le correda delle loro date di stesura, come appunto in un diario poetico. Ma basta aprirli, i libri, per capire subito che sono qualcos’altro: in un certo senso qualcosa di meno (programmaticamente vi latita ogni organizzazione, appunto ogni composizione-di-libro: si capisce, allora, come quella del diario sia la formula loro più congeniale) nonché, con tutta evidenza, qualcosa di più. Nei tre fuoriformato tra loro rigorosamente uniformi (già questo un paradosso) si susseguono immagini – disordinatamente trascelte dall’immenso archivio paterno ma anche regalate dagli artisti sodali, trovate qui e là, collezionate in più vite di vagabondaggio –, testimonianze amicali, citazioni da maestri grandi e piccoli, conversazioni intemperanze sproloqui. Soprattutto immagini dall’album di famiglia: e che famiglia. Zibaldoni efflorescenti di una disperata vitalità nel cui caos, a tratti, all’improvviso s’intravede, o si sospetta, qualche withholding pattern: sorprendente quanto – boettianamente – inevitabile.
A voler restare sul piano strettamente poetico, il repertorio d’elezione del Matteo di oggi – fra la Beat Generation e Charles Bukowski – non si può dire sia la mia tazza di tè. Ma i suoi esordi – documentati dal testo per suo padre, risalente a un quarto di secolo fa, che apre quest’ultimo capitolo – erano ispirati a una musa ben diversa, cantilenante-lancinante e dolcemente crudele, che residua anche in certe iuncturæ più recenti («soniche e toniche serotonine», «croniche e foniche moine», «melanconica melatonina») e fa venire in mente un precedente preciso, chissà se e quanto frequentato da Matteo: quello di Aldo Palazzeschi. La «scuola dell’ironia» di una vena crepuscolare, che mitiga e introflette l’espansività di queste «bohème degradatissime e scritture torrenziali», di questa «vita assai fotonica […] grezza e vera e viva e cacofonica», si vede anche da un’assonanza interna, «Bowery : Bovary», che non può non ricordare il topico «Nietzsche : camicie» di Gozzano.
In un testo per il fratello, riportato nel secondo capitolo della trilogia, Tell my lover I’m a poeta t night, Agata Boetti si chiede: «ma cosa nasconde l’ostrica? Cosa nasconde Matteo?». È un interrogativo in qualche misura paradossale, riferito a una personalità tutta estroflessa, tutta in «estimità» come quella di chi firma questi testi. Eppure è proprio questa, l’unica domanda da fare. Le autodefinizioni sono talmente frequenti («personaggio performer paroliere», «teatrante gallerista», «fosco mesto cavallaro», frontman in una rockband e coltivatore di rose e di ulivi, poeta e mercante) da elidersi l’una con l’altra, spingendo la «fluida vocazione» dell’autore in un limbo d’indeterminazione: forse felice, e invece forse disperata. Lo dice perfettamente il chiasmo fra i titoli dei primi due titoli: il primo si preoccupa che l’intellettualissima madre Anne-Marie scopra la sua professione diurna di «cowboy» (Don’t tell my mum I’m a cowboy in the morning), il secondo fiero dichiara alla propria amante la sua notturna vocazione poetica (Tell my lover I’m a poet at night). Sin troppo facile evocare lo Shaman/Showman di Alighiero: ma era questa pure la natura «ambidestra» (da Matteo riferita a un caro amico che abbiamo in comune, dalla personalità ancor più esibitamente scissa della sua) del «carissimo Aldo», che intitolava in forma interrogativa il proprio autoritratto del 1909, Chi sono?: «Son forse un poeta? / No, certo. / Non scrive che una parola, ben strana, / la penna dell’anima mia: / “follia”. / Son dunque un pittore? / Neanche. Non ha che un colore / la tavolozza dell’anima mia: “malinconia”. / Un musico, allora? / Nemmeno. / Non c’è che una nota / nella tastiera dell’anima mia: / “nostalgia”. Son dunque… che cosa? / Io metto una lente / davanti al mio cuore / per farlo vedere alla gente. / Chi sono? / Il saltimbanco dell’anima mia». Un grande lettore di Palazzeschi, Luigi Baldacci, evocava quel vecchio numero di varietà in cui il ballerino, vestito da un lato da uomo e dall’altro da donna, vorticando su sé stesso dava al pubblico l’impressione di incarnare, da solo, i movimenti di una coppia danzante. E si conosce bene il valore d’esorcismo sentimentale, il Controdolore del riso sfrenato del «saltimbanco» d’un secolo fa.
Si capisce allora come l’estroversione “beat” abbia a sua volta valore d’esorcismo nei confronti del DNA di famiglia, tanto giocoso quanto cerebrale: «Bukowski e Boetti entrambi da Oscar», «Bu e Bo così dissimili in sostanza / Eppur uguali ed epurati in sagacia e in pregnanza». L’identikit di M.B. si riassume forse, allora, in questa formula: «da John Fante all’elefante». Dove all’umanissima trasandatezza, al disordine vitalissimo del primo fa da contraltare la presenza enigmatica, per non dire misterica, del secondo (e allusivamente, nel libro, a questi versi corrisponde una foto in cui A.B., proprio, sfida l’amico Giulio Paolini a issarsi in groppa a un elefante da circo). Un poeta che immagino distante dal gusto di Matteo, Vittorio Sereni, aveva trascelto anche lui una citazione-emblema, da Montaigne, per licenziare il suo ultimo libro, Stella variabile: «La vita fluttuante e mutevole». Ma ben può concordare, su questo, chi scrive che «i versi sono come i cavalli e come le rose / Sempre uguali come il mondo / E disuguali come onde».
Andrea Cortellessa

Per Alì Ghiero
Oggi 20/1/96
aspettando Luca
il mio pensiero
per Alì El Mansur
Viene sempre quel momento
Presentito un po’ cruento
Da domare in ogni senso
Setacciare tutto a tempo
Cavalcarlo è un portamento
Alle volte è un alito lento
A ridotto scartamento
Che non scorda mai un momento
Neanche piccole bugie
Perciò vorrei
Baciarti ancora sulle tempie
Dirti tutto aspetta te
Le tue piantine preferite
I meli in fiore e Nefertiti
Tremila odori e i tuoi cantori
Ogni passo ha il suo bel peso
Tutto il peso ad ogni passo
Non mi sento mica a spasso
Sono in fondo ad ogni tonfo
Me lo ha detto proprio lei
Che qua attorno ci si perde
Piedi freddi pietre calde
Le mie piante sul viale
Sulle orme già ormeggiate
Sono mosse dall’autore
Delle onde di quel viaggio
Ombre dense di rumori
Brevi sensi da morire
Mi rimandano ad un ruolo
Che più gioco non si può
Brucio cauto la bandiera
Della canna da bambù
Ora è un cono per coniarsi
Ora è un gesto che è come starci
E ogni volta che sta acceso
Apro brecce in al di qua
Lo riaccendono di lampi
Le vampate dei miei sbagli
Sulla cresta opposta vedo
La sua testa ancora in fiamme
Due pupille rosse e tese
Tra i cipressi che son sette
Questo cero che passando
Tra gli ulivi mi consola
Altri ceri che pensando
In mezzo ai pini arrotolava
E ogni volta che lo accendo
Mi richiedo come adesso
Quest’idea da dove viene?

9-4-19
Dico sempre, ansimante e rincorrente
Trafelato un po’ impaziente
C’ho ’na prescia che ardo
Dico sempre, sbadigliante e gorgogliante
Inerpicato tipo bardo su di un cardo
C’ho ’na fame che abbaio
Diminuire le sigarette
Intanto da ventotto a ventitré, intanto
Un tumorino sul labbro ha detto Giampaolo
Senza tappo corneo si è dissolto
Le pasticche alla nicotina mi danno noia
Noia nausea e Nausicaa
E singhiozzo molesto
Guardare un film di Jim Jarmush
È come ricordare solo un verso
Di una poesia perduta
Se poi c’è anche John Lurie
È un piacere un po’ perverso
C’era però un giapponese poeta
Con taccuino su panchina nel parco
Ricordava che William Carlos Williams e Allen Ginsberg
Sono di Patterson, New Jersey
E io? Sono forse musicista?
No, cantante pallottoliere
Sono forse gallerista? Non mercante, paroliere
Contadino? No, potatore
Poeta? Sono visioni folgorate e bisturi e disturbi e fatiche epifaniche
Sono cowboy poeta putto potatore
16 giorni e saranno 25 anni senza cinquepercinqueventicinque
I miei ragazzi, non li vedo da mesi
Non mi parlano più
Il dottore dice a me: tumore al labbro
Catrami e vapori e sole e combustioni
Per trentadue anni Robert Carlyle dice al figlio:
Sono ancora tuo padre se questo conta qualcosa
Steven Tyler dice al mondo:
“Pink this is my new obsession / Pink it’s not even a question”
Mi sbeffeggia l’oste Cibocchi:
Magni l’agnello pe’ mondatte li peccati?
Dio cane! Ha da magnanne ’n gregge!!!

18-5-20
A Tommarco Colapincio
Per un inventore venditore di senso e nonsenso
Creatore di fumo e di arrosti, di musica e suoni
Di lingua e concetti, di forme e precetti
Di immagini e non-detti
Di storia e scorie progetti e balletti
Lo stile è tutto
Il tono è tuono
Come il Groove per una band, ce l’hai o non ce l’hai
E Tommaso Pincio ce l’ha
Il suo Hotel a zero stelle ha cerchioni danteschi
Cromati dentati ambigui e pazzeschi
Dove ruotano Parise e Pasolini
Kerouac e Warhol, Burroughs e Boetti
E rimembranze del One Hotel di Alighiero
Nel quale la non-clientela era di pari risma
Insieme selva oscura e paradiso ricusato
Quattro piani di limbo
Pincio è sempre in Bolina
Scazza la ganza e smazza la benza
Il suo lieve veliero è già oltre Lisbona
Pincio armeggia con agio
E si innesca all’ormeggio
Si destreggia fra giade e pulegge
Sfregiate illusioni e integri fallimenti
Tommaso si muove con tatto e destrezza
Ci smuove estraniante da altrove a sinistra
Da vero scrittore Tommaso è ovunque
Da vero scrittore ha il talento ambidestro
25-7-20
(Me, myself and I)
Le rose profumano per mestiere
Nelle sere profane di triviali avieri
Chi risolve i problemi e ne crea di nuovi
È chiamato ibridatore anche detto ottenitore
Il nome è tutto per una rosa
A ogni epiteto corrisponde una performance
È forse la metafora più adatta
Per descrivere anse e sponde della trance
Della trascendente luminescenza dei tramonti
Delle ondivaghe dinamiche dell’esistenza
Sapevo cantare ma nell’alveo identitario
Del personaggio Matteo performer paroliere
Da 27 anni produco e curo mostre
Ma nel contesto appassionato del teatrante gallerista
Ho imparato a potare i miei 321 ulivi
Ma niente gioviali e vili ovini nella mia fattoria
Ho preso il brevetto da guida equestre
E allevo i miei spolledranti puledri in santità
Sono buoni come il pane o un vol au vent
Fanno la spola tra fiori e pistilli sfioriti
E spore di trekking campestri a Spoleto
Sono idranti drenanti per gli ormoni miei santi
Sono tiranti e danzanti come un pelo di fica
Mi spolpano l’anima con i loro moniti tiranni
E salpano verso lidi puliti con freschi nitriti
Miro all’opale del lupo dalle nitide manie
Ai monili diligenti e ai mirati timoni
Il verso sovverte e soverchia la retta via
E rifugge dagli incipit triti e ritriti
Il mio romantico stallone senza aloni
È il mio tiepido Tiepolo aquilone
I versi sono come i cavalli e come le rose
Sempre uguali come il mondo
E disuguali come onde
Ne ricavi il ricavo con fatica medievale
Sono soniche e toniche serotonine
Miste a croniche e foniche moine
Versi ed equidi come melanconica melatonina
Fucking Lonesome Cowboy nell’horror vacui
La cui fluida vocazione quo vadis nevica
C’è la rosa Pierre de Ronsard la più poetica pop
La cavalla Ferragamo dalla doppia corolla violacea
Il mini verso tipo lucciola zoccola arbustiva gialla
C’è la rosa Tempi Moderni e la Sans Souci
Che se ne sbatte nella sua indifferenza color crema
La rosa delle farfalle e quella rugosa
La poesia spinosissima dagli aculei ornamentali
La Gabriele d’Annunzio rossa e vellutata
Disponibile dall’anno prossimo anche senza Vittoriale
E poi ci sono io fosco mesto cavallaro
Scovo assonanze per maestosi mestoli per vellutate
Di zucca e valuta, di cazzi e pistoni, ex vergini e prigioni
Estraggo da cave vegane rollè di vacca utopici e seriali
Mi affido alle muse alle Dafne alle ninfee
Trasecolo di fronte ai gigioni stonati dagli stoppini spenti
La mia gioia e tormento è esser poeta
La mia croce e letizia è il fomento di arte e cavalli
Desisto dal perseguire il buongusto museale
Assisto seduto in cavea alla mia sparizione
Allo spegnimento inattuabile della mia fugace feroce combustione

8-3-21
I want to cum in your heart
“Don’t you mock me, in any sort” gli rispose forse Andy
Guardando il quadretto multivision di modesto formato
Poesia visiva di John Giorno sempre in calore
Evasivo finto sciapo da presepe del dolore
Frocio con la toga come gatto in amore
Anche quando dorme duro per almeno cinque ore
Nell’inerte film di Warhol nell’esangue video Sleep
Adornato di sogni era John
Bramoso di soldi e fama era Andy
Dormivano assieme nella New York sempre sveglia
Miravano al seme della morte come isteriche zitelle
Giorno è poeta di notte e amante di giorno
Il suo pezzo migliore è Dial – a – poem
Numero attivo H24
Dove ascolti una voce recitante e ansimante
Versi di Ginsberg, Philip Glass e Patti Smith
Viveva sulla Bowery che ricordo come ieri
Disperato Bovary come sordo come in fieri
Un lato strada è una riva di salvezza meno sordida
Barbieri italiani, take away cinesi e varia umanità
E magazzini all’ingrosso e puttane all’ingrasso
E studi di artisti e altre amenità
Altro lato è solo un rivolo di pusher e tossici e ci si tocca
E finestre sfondate o murate o riaperte a sassate
Vicino all’asilo dove odori di tempura imperavano
Ogni giorno una performance di rape che impestavano
La didattica? Saltare su luridi materassi al ritmo dei Pink Floyd
Boetti e family vivevano lì
Alighiero e Annemarie lì sognavano i confì
Della Torino aristocratica
Di Parigi la bohème
E aspettavano i soldini di John Weber gallery
Loft immenso e denso e senza arredi
Solo un tavolo un frigo tre sedie e un Mao di Andy
Tanti Tavor per la rota e la fame come un diesel
Si saliva in monta-carichi salivando sempre dandy
Niente porta né chiavi né citofono
Né tarocchi né futuro né Viakal né linfociti
Quella vita assai fotonica
Era grezza e vera e viva e cacofonica
Lì vicino Giorno accoglieva artisti inferociti
John Cage e Jasper Johns e Diane Arbus
Round the corner suonavano i Talking Heads e i Ramones
Anche Rothko e Léger ci piantarono le tende
Burroughs himself adorava drogarsi in quel bunker
Tra pistole e puttane e artisti guasti
Dipinti sparati ditirambici tirapiedi e divelti stipiti
Lì Giorno faceva telemarketing di poesia
Lì Boetti covava pindarici istrionici istrici
Lì mia madre curava canestri e ciribiri coccole
Lì la storia allevava disparati tipi mistici

15-3-21
Cento anni fa nasceva Bukowski
Ottantuno anni fa, mio numero feticcio, nasceva Boetti
Ventisette anni fa svanivano assieme
Conclusa la mescita e ucciso il tamagotchi
Salparono su vascelli chevalier
Fra lisce lische e nessun pourparler
I restanti viventi come venti evanescenti
Ogni astante presente non germoglia nella mente
Ogni istante gaudente non pretende conferme
Il demente non discerne ciò che in fondo lo concerne
Ogni orrore ne discende
Ogni ramen sa di menta
Ogni escort sa di rental
Ogni errore che trascende
Dal detective Jacques Clouzot
Bu e Bo così dissimili in sostanza
Eppur uguali ed epurati in sagacia e in pregnanza
L’importanza dello stile
La baldanza della danza
L’acutezza del pensiero della sua supremazia
Entrambi schiavi degli istinti
Entrambi schivi eppur distinti
In bohème degradatissime e scritture torrenziali
Da John Fante all’elefante
Da Steinbeck a Steinberg alla galleria Stein
Tutti rallegrati dall’intuito di Albert Einstein
Gran lezione da tutti quanti: Non c’è nulla di spontaneo
Vivere è creare e imbastire non cercare
Anche sordidi ed equivoci, abbaglianti loro demoni
“… Mentre per tutto il tempo missili, lampi e catene
Svolazzano come pipistrelli” scrive Hank
Come Bu tendo a fare di me stesso il filtro di ogni storia
Come Bo sento il vento non afasico
Viro in extremis sto in sottosterzo
Così faccio la mistress e ri-ascolto la scoria
La disciplina estetica è l’unico credo
L’unico faro da cui spremo liturgia
Catechismo chirurgico di cui sono il display
Hank e Alighiero odiavano gli hippy
Troppo scarno il primo, troppo nobile l’altro
Detestavano il loro life style comunitario
Gli pestavano lesti le sfere e gli steli
Assestavano colpi da felini ferini
Non sopportavano il loro idealismo
Bukowski e Boetti entrambi da Oscar
