‘Tatay’ o il con-tatto con il mondo. Una conversazione con Marina Ballo Charmet

08/11/2021

Negli ultimi anni ho avuto la fortuna di seguire il lavoro di Marina Ballo Charmet, di scoprirne le fasi preparatorie e le evoluzioni continue. I suoi progetti hanno la loro radice nella professione di psicoterapeuta infantile che le consente di esplorare il territorio dove realtà e percezione si fondono nelle prime esperienze affettive. Il preconscio del bambino tratteggia l’identità come possibilità di relazionarsi al mondo ed è questa lieve soglia a cui Marina vuole dare rappresentazione. Nel riformulare quell’apertura le ricerche si moltiplicano con soluzioni fotografiche, video-installative, performative e partecipative. Per avvicinare l’enigma dell’esperienza l’artista indaga gesti e icone ancestrali, raffigura le atmosfere emotive e associative che accompagnano ogni relazione oggettiva.

Il cantiere visivo di Marina Ballo mostra la familiarità dell’artista con la materia di cui sono intessute le immagini, un’intimità che ha radici nella sua prima infanzia. Figlia del critico d’arte e poeta Guido Ballo, fin da piccola Marina ha avuto un rapporto con l’arte del Novecento, con gli oggetti, i segni, i colori del futurismo, dell’espressionismo, dell’astrattismo, delle ricerche contemporanee. Le inquiete variazioni della sua opera offrono un sotterraneo rimando a quel bagaglio raffinato e molteplice, una consuetudine che non è mai citazione, una profonda confidenza con la sintassi dell’arte, le sue trame e le sue forme. Da qui nasce la sicurezza nell’adottare posizioni inattese, l’abilità spiazzante nel percorrere diverse soluzioni per raccontare la nostra esperienza del luogo e dell’altro, una ricerca di cui l’istallazione audiovisiva Tatay (2021) – in anteprima alla Triennale di Milano – è l’ultima sorprendente evoluzione.

Giuliano: Qualche anno fa è uscito il tuo Con la coda dell’occhio, scritti sulla fotografia, per l’editore Quodilibet (edito anche in inglese), un volume importante dove racconti anche la tua formazione, la tua infanzia tra gli artisti. È da questa esperienza originaria con l’arte che vorrei ripartire per avvicinarmi progressivamente al tuo ultimo lavoro, Tatay.

Marina: Quando ero molto piccola sono vissuta in mezzo agli artisti perché mio papà era un critico e uno storico dell’arte molto importante. Ricordo Lucio Fontana, Dadamaino, Gastone Novelli, Emilio Isgrò, Ganni Colombo, Carla Accardi e tanti altri… erano sempre a casa, anche a mangiare, a chiacchierare, era difficile non partecipare ed era molto interessante conoscere questi personaggi. C’è un aneddoto di quando avevo  sei o sette anni, venivano a casa dei compagni di scuola che mi chiedevano cos’era il quadro con i buchi… era complicato da spiegare al compagno di scuola, era molto divertente.

La sfera dell’arte coinvolgeva la famiglia, all’inizio del ginnasio andavo tutte le sere in cineteca con mio fratello che poi divenne film-maker e studioso di cinema, erano gli anni della contestazione e la cineteca era un punto di ritrovo. Andavamo anche al cineclub Nuovo Teatro che Franco Quadri aveva messo in piedi a Milano e dove aveva portato tanti autori come Jonas Mekas, Stan Brakhage e Andy Warhol di cui vedemmo Eat ed Empire. Me li ricordo molto bene, un discorso sulla luce e non solo sulla luce, così come La Région Centrale di Michael Snow, un film veramente speciale. Parliamo della Milano degli anni Sessanta e Settanta ma frequentavo anche le Biennali di Venezia e il festival del cinema di Pesaro che presentava cose molto particolari, da Glauber Rocha ai lunghissimi film di Jacques Rivette.

Marina Ballo Charmet, Con la coda dell’occhio, #57, 1993-1994

Giuliano: Che studi hai fatto?

Marina: Dopo il liceo frequentavo filosofia, in quei anni alla Statale insegnava il fenomenologo Enzo Paci. Ero molto presa dallo studio della filosofia, ed era il periodo della contestazione e delle lotte femministe.

Giuliano: Ma in tutto questo la fotografia?

Marina: Il fratello di mio padre, Aldo Ballo, era un grande fotografo di design, però la passione è venuta dopo, a metà degli anni Ottanta, e di lì a poco ho messo su la camera oscura. Non mi interessava la fotografia analitica che descrive minuziosamente l’oggetto, cercavo l’incerto, l’ambiguo. Il mio primo lavoro in bianco e nero parte dall’idea della luce e del limite/ non-limite tra cielo e terra; volevo un’immagine che desse l’idea di essere dentro a luogo, in rapporto con la cosa che stavo fotografando, e qui ci si può collegare al concetto di “campo” che ho molto esplorato.

In quegli anni i due riferimenti più importanti sono stati Gabriele Basilico e Lewis Baltz con cui ho fatto dei workshop e che ho continuato a frequentare. Nel mio libro ci sono anche altri riferimenti, quelli storici che si legano al mio modo di pensare la fotografia, come Henri Le Secq, la sua natura, la terra, i campi, le inquadrature che sembrano venir fuori da sole, hai in mente Le Secq? È veramente straordinario. Nel paesaggio Timothy O’Sullivan e Eugène Atget prima ancora di Robert Adams e del gruppo dei New Topographics, poi i coniugi Becher, Dan Graham, gli artisti della  land art e i concettuali.

Giuliano: Mi parlavi anche delle avanguardie storiche, del lavoro di Raoul Hausmann, soprattutto vorrei capire da te come funzionano questi riferimenti nel tuo lavoro.

Marina: Quello che mi interessa è studiare il linguaggio, un’attenzione che ho sempre avuto anche quando andavo al cinema. Sono arrivata alla fotografia con grande passione però sempre accompagnata da questo modo di leggere le cose, cercando di capire a che cosa servisse usare un certo linguaggio e che tipo di linguaggio volevo costruire. Per questo mi interessa vedere come il mondo dell’arte usa la fotografia; Richard Long, Robert Smithson, Douglas Huebler e Gordon Matta-Clark li sento vicini ai miei progetti. Tra gli italiani ci sono delle figure legate all’arte come Pino Pascali e nel suo lavoro c’è una parte di fotografia straordinaria.

Giuliano: Come rielabori questa costellazione di riferimenti artistici nel tuo immaginario?

Marina: Uno dei punti centrali è l’associazione tra il pensiero psicoanalitico e il pensiero della creazione e delle avanguardie. È un processo che procede per associazioni, anche filosofiche. Quando ho presentato il mio lavoro Con la coda dell’occhio (1993-94) Piero Quaglino, storico dell’arte e amico, mi ha suggerito di approfondire il pensiero di Anton Ehrenzweig studioso di psicanalisi e professore di arte a Londra. Lui ha lavorato molto sulla percezione periferica e sull’espressionismo astratto e diceva ai suoi allievi che per imparare l’arte bisogna amare l’inconscio.

Con Ehrenzweig ho capito meglio quello che stavo facendo, il mio interesse per la percezione laterale. Ho teorizzato il vedere periferico, quello che scorgiamo sempre di sfuggita e non guardiamo mai attentamente, la mia fotografia è uno specchio del rapporto empatico con il luogo e con l’oggetto: dare importanza a questo vedere/non vedere dà l’idea dello stare dentro il luogo, mostrarne il senso. Dal punto di vista linguistico evito l’estetizzazione dell’oggetto: solo in quel caso emerge il vedere periferico laterale che con l’uso dell’empatia apre la dimensione del preconscio.

Giuliano: La fotografia che realizzi allora non rappresenta ma mostra un luogo, potremmo dire che è luogo essa stessa?

Marina: Hai ragione è proprio un mostrare, cioè l’essere dentro, presentare e non rappresentare. Direi che è uno stato dell’essere dentro il mondo, quindi uno stato delle cose. Non è la rappresentazione della cosa in sé, non c’è il controllo sull’oggetto o sul paesaggio perché non stai guardando il mondo, il mondo è intorno non davanti a te.

Giuliano: Se la tua fotografia non è indice di una realtà esterna “oggettivata”, allora è un icona? In qualche modo è una realtà a sé, oppure una traccia della tua esperienza? Come la definiresti?

Marina: Non è traccia della mia esperienza perché poi ho la pretesa che sia un’opera. Alla fine del lavoro diventa una realtà a sé, un’opera come immagine di un risultato visivo. Ovvero, l’opera vuole dare il senso del luogo. Vorrei che venisse fuori l’essenza del “campo” come immagine di sintesi, non analitica, un’immagine sintetica.

Giuliano: Come nasce Con la coda dell’occhio (1993-1994)?

Marina: Con la coda dell’occhio è nato dalla committenza per il Festival culturale Europeo di Graz, un lavoro sulla città. Ho cominciato a girare, mi sono messa bassa, ad altezza di bambino e lì ho cominciato a costruire questo discorso del periferico, il guardare le cose con una visione non dell’adulto che controlla tutto. Dalle prime serie di immagini capii che c’era qualcosa che potevo portare avanti e farne un lavoro. Spesso parlo del controllo sull’oggetto e riprendo il discorso di Raoul Hausmann sulla verticalità. Credo che superare questa dimensione verticale sia fondamentale per ottenere un rapporto diverso, un immaginario dell’esser prossimo.

Giuliano: Proprio per questo nei tuoi lavori non c’è un’inquadratura in senso tradizionale: la mancanza di inquadratura canonica non significa un tuo “gusto” soggettivo o la ricerca di un “effetto” onirico, quello che ti interessa è arrivare a una soggettività preconscia.

Marina: In generale lavoro con la camera a mano ma in un senso particolare – penso a Dan Graham dove c’è quest’aspetto della macchina senza lo sguardo dell’autore – l’estremizzazione di questo discorso lo trovi in Passi Leggeri (1999), un video sul mio camminare quotidiano in casa dove avevo semplicemente legato la videocamera alla vita.

Nel 2004-5 ho fatto un workshop con dei bambini molto piccoli che poi ho intitolato Il campo. A questi piccoli avevo dato delle macchine fotografiche usa e getta, ne sono uscite delle fotografie straordinarie dove si vede la forza di certe immagini, emerge il discorso sul campo che non è più un quadro, un’inquadratura: lì c’è qualcosa come il tatto, il contatto direbbe Merleau-Ponty con il mondo.

Giuliano: Se capisco il luogo esiste nel momento in cui lo esperisci con una visione periferica, a quel punto in qualche modo riesci a fotografarlo… come nasce ad esempio un lavoro come quello sui parchi?

Marina: Quando vengono bene le immagini dovrebbero dare l’idea del senso del luogo. Il progetto Il parco (2006-2014) è nato in maniera incredibile: qualche anno fa sono tornata a vivere a duecento metri da dove ho vissuto fino ai venticinque anni d’età. Da piccola andavo sempre a giocare al parco Sempione di fronte casa. Quando finalmente ci sono tornata ho sentito una cosa molto diversa di vissuto, c’erano moltissimi stranieri e mi ha colpito un gruppo allegro che danzava con una musica molto triste. Ho capito che era successo qualcosa, un cambiamento enorme rispetto a quello che era il contenitore del parco. A quel punto ho fatto le riprese e ho cominciato il progetto sui parchi. Anche qui, come vedi, non mi interessa la scena o il dettaglio ma l’abitare il luogo dello spazio pubblico che è diventato una possibilità di esperienze, di vissuti, d’incontri veramente diversi da quelli che erano prima. Ho pensato che fosse interessante fotografare i parchi di diverse città. L’archivio di questo progetto è enorme, sono migliaia di fotografie, ho lavorato in otto città europee e al Central Park di New York.

Marina Ballo Charmet, Il parco, Paris, Les Buttes Chaumont, trittico, 2006. Installation view, Sguardo terrestre, a cura di Stefano Chiodi, MACRO, Roma, 2013

Non ho voluto usare il banco ottico né potrei lavorarci perché per fare un’inquadratura devi controllare lo spazio. Io progetto l’idea, spesso molto prima, è un lavoro pensato però quando sono lì non deve essere troppo controllato. Il progettare la cosa è molto diverso dal controllarla. In queste immagini l’inquadratura sembra che non ci sia, in realtà è il mio preconscio che inquadra, il lavoro mostra delle immagini in cui il parco, questo luogo, è come se venisse fuori da solo. Volevo ottenere quello che avviene nella nostra percezione che è disattenta, procede a salti e non ha una logica anche se sembra averla.

Il trittico del Parco che era alla mostra del MACRO (2013) ha fatto venire in mente ad Andrea Cortellessa il concetto del defotografare, legato alla denarrazione. In effetti in quel trittico – come nel resto del lavoro – c’è un salto della narrazione, nel senso che non è cinetico, non c’è uno spostamento da sinistra a destra o viceversa, la prima immagine – quella di sinistra – potrebbe essere anche l’ultima.

Giuliano: C’è un’altra questione che mi interessa, come procedi per decidere la dimensione delle stampe?

Marina: In Con la coda dell’occhio ho scelto di fare un formato uno a uno, ho scelto di ricreare l’esperienza vissuta lì davanti, all’interno di questo luogo. Sono immagini di un metro e trenta per un metro, come se fossero viste dall’occhio di un bambino piccolo. Soprattutto Primo Campo (2001-2003) è il punto di vista di un bambino. Rispetto alla grandezza della fotografia penso che le immagini piccole ti facciano vedere le cose più da lontano, come descrizione, non c’è la prossimità, l’aspetto della vicinanza. Più l’immagine è grande più in qualche modo ci sei dentro.

Marina Ballo Charmet, Primo campo, #13, 2001

Giuliano: Vorrei ora chiederti di questo ultimo lavoro che presenti attualmente in Triennale a Milano, Tatay, un’installazione che prevede un video e una complessa amplificazione sonora con voci che si intrecciano tra loro. Il soggetto è un padre che culla e addormenta un bimbo molto piccolo (credo massimo di sei mesi) cantandogli una ninnananna. La particolarità sta nel fatto che utilizzi le voci di padri di lingua diversa. Come nasce questo progetto?

Marina: L’idea è collegata al mio lavoro psicanalitico e psicoterapeutico, al fatto che ho lavorato tanto coi bambini piccoli negli asili nido con le loro mamme: negli ultimi decenni ho visto anche il cambiamento del ruolo del padre. Oggi è una figura molto più relazionale di trent’anni fa, è un padre disponibile a un rapporto di tenerezza e di contatto, a tenere il bambino in braccio, ad accudirlo, quindi a costruire un rapporto con il corpo. Detto in modo sintetico, il padre prima era quello che faceva paura, mentre ora è quello che aiuta a rilassarsi, che tranquillizza.

Era un po’ di tempo che giravo intorno a questo tema, avevo fatto già alcune fotografie e ho pensato di fare anche un video. Cercavo qualcosa che fosse legato al quotidiano del papà col bambino, ho pensato a varie situazioni, poi è venuto fuori il momento del sonno, del cullare, soprattutto del tenere e del contenere. Da lì l’idea di riprendere il momento della ninnananna: mettere insieme questi padri che cantano con la lingua del loro paese d’origine. Attraverso amici e mediatori culturali sono riuscita a trovare dodici padri che provengono da varie parti del mondo.

Giuliano: Tra gli aspetti che indicano il passaggio da una cultura ad un’altra c’è il modo di onorare i morti e di educare i bambini. Perché ricorri a lingue e a culture così diverse per parlare del nuovo padre che è un fenomeno credo soprattutto occidentale?

Marina: Vorrei fare una premessa, le persone che ho contattato vivono in Italia e non sono attori ma padri che hanno accettato di partecipare al progetto, hanno accettato di cantare la ninnananna perché abitualmente lo facevano. Il padre egiziano, il senegalese, il brasiliano, il cinese, il giapponese, il filippino, l’indiano hanno partecipato con quella che è la loro realtà, non ho forzato le cose, cantavano la ninnananna al loro bambino e spesso era quella che aveva cantato loro la madre, come nel caso del padre russo, quindi sono partita da un dato che esisteva.

Sicuramente quando parliamo di nuovo padre ho in mente quello che è stato il cambiamento culturale in Occidente, non ho approfondito altre situazioni culturali specifiche. Ciò detto è chiaro che questo lavoro non è sociologico o antropologico, è un lavoro artistico che indaga il prelinguaggio: è un lavoro sul suono, sui canti che diventano un canto unico, ancestrale. I genitori parlano, dicono delle cose, ma la cosa importante è il motivo, il canto: il bambino non capisce e non si interessa a cosa si dice, in gioco c’è il suono, il riconoscimento di quella voce, di quel tono.

Giuliano: Quindi per te il padre contemporaneo non è immagine e parola ma voce e gesto.

Marina: “Il papà col bambino in braccio”, per affrontare un tema del genere abbiamo di fronte varie strade, quello che mi interessava era il punto del con-tatto, cioè il tatto, ma anche la voce che contiene, che è corpo, voce come elemento prelinguistico: il bambino è già abituato sin da quando sta nel ventre materno alla voce della mamma. Anche nel mio libro ho scritto molto della prelingua, di quello che viene prima del linguaggio, riprendendo la differenza tra la parola e l’urlo descritta da María Zambrano. Per me la voce, il canto, è qualcosa che ci situa proprio nell’area del contatto, della relazione. L’immagine video è molto scura per dare l’idea di quello che vede (e non vede) il bambino che è in braccio: la cosa importante è il gesto del padre che si ripete da sinistra a destra.

Giuliano: Se capisco è un’immagine video che si ripete in loop, quindi una specie di andamento ritmico di movimento, tutto molto scuro, quindi una percezione labile di movimento accompagnato da questa nenia che però, appunto, si confonde, nel senso che si fonde assieme: quasi un’ipotesi o ricerca di quella che può essere la percezione del bimbo.

Marina: Esatto, è l’esperienza che vorrei dare. Ho scelto uno spazio non tanto grande, una zona buia, in cui si veda bene questo video che è molto scuro e quindi dovrebbe darci un’esperienza di quello che il bambino sta vivendo. Noi siamo in questo spazio nero con otto casse che scendono dal soffitto e ognuna ha una voce, la voce di una lingua. Le voci poi sono dodici e passano in queste casse separatamente, però sono unite perché le casse sono a distanza di circa un metro l’una dall’altra. Saranno distinte ma insieme, come in una fuga… e poi vengono le altre e spesso le ho tenute insieme, diciamo un coro di voci.

Giuliano: Quindi questa riflessione sul nuovo padre ti ha portato a un discorso ancestrale, per raccontare il nuovo ci mostri le radici più profonde…

Marina: Il papà che canta al bambino dice delle parole, ma queste non sono il punto centrale. Il canto è una cosa diversa dalla parola, qualcosa che viene prima. Anche il titolo viene più dal suono che dal significato: tatay vuol dire padre in filippino, ho cercato nelle diverse lingue registrate la parola padre e ho scelto tatay perché mi piaceva molto il suono.

In questo lavoro ho puntato molto sul sonoro, volevo mettere insieme queste voci, però vedevo che sommandone più di quattro non si sentiva più nulla. Allora Ludovico Einaudi, musicista e compositore a cui interessava questa mia ricerca– e che è un amico generoso – mi ha dato dei suggerimenti preziosi per mettere assieme i canti. In certi momenti inizia una sola ninnananna ma in generale sono più di una le voci che si sentono, proprio perché per me la cosa interessante era che questo insieme di voci diventasse come una voce unica, ancestrale, quindi qualcosa che viene da molto lontano e che parla dell’essere umano, dell’accudimento primario, del crescere il bambino, della vita.

Marina Ballo Charmet, Senza Titolo, dalla serie Tatay, 2021

Giuliano: È questa l’idea che guida anche il progetto sul padre che stai facendo con la fotografia?

Marina: Sono due lavori separati: la videoinstallazione con il lavoro sulla lingua mi è venuta in mente mentre avevo già iniziato a lavorare alla serie delle fotografie, ma sono due lavori che procedono parallelamente a partire dal medesimo soggetto.

Giuliano: Con le tue fotografie cerchi una nuova icona del padre o indaghi piuttosto la visione laterale?

Marina: Per le fotografie ho fatto un lavoro particolare sul colore. Se analizziamo questo tema abbiamo diverse iconografie consolidate: la Madonna col bambino, la pubblicità, le foto di famiglia. Sono questi i tre filoni principali secondo me, ed era importante fare qualcosa che desse l’idea di un’immagine diversa, creare delle icone appunto, qualcosa che vada al di là di quella scena lì: quando vedi il papà col bambino nelle mie foto non è quel papà con quel bambino – anche se magari era in piscina – ma diventa un’immagine, qualcosa che è quasi un’icona. Per questo ho usato molto il colore, la saturazione, la sovraesposizione; un lungo lavoro sia mentre scattavo che in post-produzione. Per le stampe ho progettato formati che variano a seconda dell’immagine: ingrandimenti importanti, altri formati medi e un formato piccolo di cinquanta centimetri di base. Adesso sto ancora scattando ma ho già una serie sufficiente per  fare un libro e una mostra.

A Milano in Triennale presentiamo la videoinstallazione perché è un lavoro autonomo, da sentire e da vedere, un’esperienza. Se dovessi esporre questi lavori insieme bisognerebbe che fossero in luoghi separati perché in comune c’è solo il tema.

Giuliano: Un’ultima domanda che poteva essere la prima, al centro del lavoro c’è la figura del padre, perché ti sei interessata a questo tema? C’è un’urgenza etica o anche in qualche modo politica nell’interrogarsi sulla figura del padre oggi?

Marina: Dentro al padre che accudisce c’è l’essere umano, c’è l’aspetto vitale, l’aspetto del crescere, dell’aiutare il piccolo, il cucciolo. In sostanza l’installazione parla anche della nostra vita, sicuramente della figura del padre, del rapporto, del contatto, però parla di qualcosa che è il contenere il cucciolo. In questo senso io credo che questo lavoro sia femminista in quanto il nuovo padre, cioè il papa che accudisce il cucciolo, è emerso anche grazie al cambiamento culturale che il femminismo ha portato nella famiglia. Però non è un “saggio” sul nuovo padre, l’arte va oltre queste cose. Alla fine il papà egiziano fa la stessa cosa, accudisce il piccolo e canta la ninnananna, così come il senegalese, così come il cinese e così via, quindi si parla di qualcosa di universale che è l’accudire il cucciolo, farlo crescere con questo momento di contatto vocale che è il corpo come voce, qualcosa che precede la parola.

Marina Ballo Charmet
Tatay
Triennale di Milano
fino al 28 novembre 2021
accesso libero

In copertina: Marina Ballo Charmet, Tatay, videoinstallazione, Triennale di Milano, 2021

Giuliano Sergio

professore di storia dell’arte all’Accademia di Belle Arti di Venezia. Critico e curatore, tra le principali pubblicazioni: “Information document œuvre. Parcours de la photographie en Italie dans les années soixante et soixante-dix” (Parigi 2015) e “Ugo Mulas. Vitalità del negativo” (Milano 2010). Tra le principali mostre che ha curato e co-curato: “Le Pietre del Cielo. Luigi Ghirri e Paolo Icaro” (Fondazione Querini Stampalia, Venezia 2017-2018); “Julia Margaret Cameron, Florence Henri, Francesca Woodman. L’arte del femminile” (Villa Pignatelli, Napoli 2017), “La montagne de Venise di Yona Friedman con Jean-Baptiste Decavèle” (Venezia 2016), “Ugo Mulas La photographie” (Fondation Henri Cartier Bresson, Parigi 2016), “Luigi Ghirri. Pensare per immagini” (MAXXI, Roma 2013 e IMS, San Paolo e Rio de Janeiro 2013-2014).

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