Finalmente si torna a teatro seduti nella poltrona di una vera platea e non di fronte a uno schermo. Al Teatro India di Roma i Motus hanno portato il loro ultimo lavoro, Tutto brucia – che conclude il festival romano Short Theatre 2021 dedicato alla risonanza, alla voce e all’ascolto – non solo di fronte a una platea tradizionalmente buia, ma anche in una scena avvolta completamente nell’oscurità.
Lo spettacolo è – come si legge sul programma online – una riscrittura delle Troiane di Euripide, la tragedia in cui, sullo sfondo della città che brucia devastata dalla vendetta degli Achei, si sta per compiere il destino delle donne del popolo sconfitto: diventare schiave, essere private della dignità umana, diventare oggetto di scambio sessuale, perdere la loro stessa vita e quella dei loro figli. In scena si svolge la narrazione delle performer con dialoghi “montati” da Daniela Niccolò sul testo euripideo con inserti tratti dall’adattamento della stessa tragedia compiuto da Jean Paul Sartre e con altri scritti di Judith Butler, Ernesto de Martino e Donna Haraway. Il mito si sposta nella contemporaneità, trasformando la spiaggia di Troia in un luogo indefinito del Mediterraneo, che accoglie da secoli le spoglie martoriate di tante donne e bambini costretti a fuggire da guerre di conquista, quelle che oggi chiamiamo colonizzazioni. Del resto l’adattamento di Sartre, sul filo del quale si è orientata riscrittura dei Motus, era datato 1964, a pochi anni dalla guerra di Algeria, e aveva un’intenzione politica non dissimile da quella che aveva mosso lo stesso Euripide quando, nel 415 A.C. condannava la guerra di conquista del Peloponneso per opera dei suoi concittadini Ateniesi. Nel XXI secolo quella conquista può ancora evocare delle assonanze con parole come imperialismo e colonialismo, ma ogni confronto è rischioso, soprattutto quando è in gioco il corpo delle donne, la cui oppressione non avviene solo per mano degli eserciti invasori.
Ciò che però più “punge” in questo allestimento, se si vuole ancora dar retta alla metafora di Roland Barthes, non è tanto ciò che si vede sul palcoscenico, ma piuttosto ciò che non si vede, o meglio ancora, il fatto stesso che si faccia fatica a vedere. Tutto il palcoscenico, illuminato solo talvolta da rari tubi al neon, è coperto infatti di nera cenere polverosa e sul pavimento giacciono carcasse di giganti animali indistinguibili, tra cui si aggirano le due attrici, Silvia Calderoni nella parte di Ecuba e Stefania Tansini che interpreta prima la folle veggente Cassandra poi Andromaca e Polissena, mentre la voce tersa di Francesca (RYF) Morello tesse il racconto con un melodico oratorio in inglese sul suono dolcemente metallico della sua chitarra elettrica, con inserti sonori live di Enrico Casagrande.

Tutta la serie di azioni compiute dalle performer – brevi segmenti narrativi giustapposti che intrecciano il mito tragico di Ecuba e delle altre troiane con la storia di tante vittime delle guerre di tutti i tempi – avvengono in uno spazio indistinguibile, in cui le palpebre degli spettatori si stringono per sforzarsi di vedere, di scoprire cosa facciano le performer mentre fanno a pezzi le carcasse animali o forse umane disseminate sul pavimento, se poi sono davvero carcasse o mostri alieni di guerre stellari.
Si direbbe quindi che i Motus, compagnia che da molti anni esplora le condizioni di visibilità mediate dalle nuove tecnologie, abbiano voluto qui deliberatamente creare un dispositivo di deprivazione della percezione. Gli ammassi indiscernibili sparsi per terra che vengono tagliati o segati dalle donne producono frammenti informi, metamorfici, mentre i lampi improvvisi di luce al neon non illuminano, ma accecano, creando piuttosto uno sbarramento per lo sguardo che mira a produrre una tensione, un lavorio continuo del senso della vista che sospende il giudizio del “mi piace” o “non mi piace” su ciò che gli spettatori si trovano di fronte e a cui rispondono con l’applauso finale.

Nel paragrafo L’immagine intollerabile del suo Lo spettatore emancipato, Jacques Rancière ipotizza per lo spettatore il prodursi di una “tensione che punta verso un’altra politica fondata sulla variazione della distanza, sulla resistenza del visibile e sull’imprevedibilità dell’effetto”. Forse è questa la tensione che l’ultimo lavoro dei Motus vuole muovere in chi siede distanziato in platea: sforzarsi nel proprio intimo e singolo corpo, di vedere nel buio, oltre le immagini iperdiffuse dai media, per potere comprendere e com-patire ciò che avviene sul palco.
“Fatemi luce, via!”, ordinava il Re per interrompere lo spettacolo allestito da Amleto che mostrava, attraverso la finzione teatrale, il delitto ordito dall’impostore contro suo padre. E forse non è un caso che Shakespeare, nel secondo atto dello stesso dramma, facesse prendere a esempio al suo Amleto proprio l’Ecuba di Euripide come modello emblematico della compassione che la finzione attoriale suscita nello spettatore. Alla fine dello spettacolo dei Motus, quando il suono e la voce si dileguano, ci si trova tutti per venti infiniti secondi tutti nel nero, in silenzio, prima che inizi un timido e sconcertato battito di mani, ed è un buio indimenticabile.
Motus. Tutto brucia
ideazione e regia di Daniela, Nicolò ed Enrico Casagrande
con Silvia Calderoni, Stefania Tansini e R.Y.F. (Francesca Morello) alle canzoni e musiche live
testi di Ilenia Caleo e R.Y.F. (Francesca Morello)
una produzione Motus e Teatro di Roma-Teatro Nazionale con Kunstencentrum Vooruit vzw (BE)
prossime repliche:
4-6 novembre 2021, Triennale Milano
12-14 novembre 2021, Festival delle Colline Torinesi
In copertina: Motus. Tutto Brucia, Teatro India 15 settembre 2021, ph. Claudia Pajewski