Se non fosse chiaramente irrealistico pensare di racchiudere in un’unica immagine una esistenza così inquieta e densa come quella di Asja Lācis, l’emblema più pertinente che potremmo scegliere per lei sarebbe quello della strada. «Questa strada si chiama | VIA ASJA LĀCIS| dal nome di colei che | DA INGEGNERE | l’ha aperta dentro l’autore», così nel 1928 un invaghitissimo Walter Benjamin le dedicava Einbahnstraße (Strada a senso unico), collezione di frammenti in prosa o Denkbilder (così li chiamerà Theodor W. Adorno) “unidirezionali” nella loro aforistica sentenziosità. Ma la metafora di una One Way moltiplicata su vari piani prospettici, eppure tenacemente orientata in un solo senso (come nella copertina costruttivista realizzata per Benjamin da Sasha Stone), era presente nella vita della regista teatrale e militante comunista nata in Lettonia nel 1891 ben prima dell’incontro col filosofo tedesco.
A ricostruire la traiettoria di questa “strada” che, al contempo, fu punto d’incrocio per tanti destini è ora il bel libro Asja Lācis, l’agitatrice rossa, uscito a cura di Andris Brinkmanis nella collana «Geoarchivi» diretta da Marco Scotini per Meltemi, che aggiunge vari tasselli alla comprensione di una figura dimenticata e nondimeno centrale nella storia delle avanguardie d’inizio Novecento, presentando alcuni saggi rimasti finora inediti.

Ritratto di Asja Lācis, 1910-1912 circa © Collezione del Museo di Letteratura e Musica di Riga
Il punto di partenza è quello già messo a fuoco nel 1971 da Hildegard Brenner nel suo volume Revolutionär im Beruf (pubblicato in Italia da Feltrinelli nel 1976 col titolo Professione: rivoluzionaria nella traduzione di Eugenia Casini-Ropa), vale a dire il contributo fondamentale dato da Lācis all’elaborazione di un teatro proletario all’indomani della Rivoluzione d’Ottobre. «Il teatro irrompeva nella strada e la strada nel teatro», scriverà negli anni Settanta nelle sue memorie. Per rendersi conto del carattere letterale di una simile affermazione basta osservare le peculiari foto “di scena” di uno degli spettacoli che più dovettero colpire l’immaginazione della giovane, già allieva a Mosca dello studio di Fedor Komissarzevskij, fratello della celebre attrice Vera.
La notte del 7 novembre 1920, nel terzo anniversario della Rivoluzione, il regista Nikolaj Evrejnov diresse sulla piazza del Palazzo a Pietrogrado (allora piazza Urickij) un gigantesco re-enactment della presa del palazzo d’Inverno, coinvolgendo circa ottomila interpreti, tra attori, comparse e autentici soldati dell’Armata Rossa e marinai. Gli eventi che si svolgevano sulla «scena rossa» e sulla «scena bianca», situate agli estremi opposti dell’immensa spianata, si contendevano l’attenzione del pubblico accalcato nel mezzo, finché ovviamente la prima non prevaleva sulla seconda.
Esperimento grandioso cui di lì a breve si rifarà anche Sergej Ejzenstejn in Ottobre, L’assalto al palazzo d’Inverno (così non sorprendentemente s’intitolava la rappresentazione) sintetizzava tutte le ricerche portate avanti all’epoca dai registi d’avanguardia, da Vsevolod Mejerchol’d a Sergej Radlov. Se da una parte la finzione teatrale veniva abolita attraverso l’irruzione nello spazio urbano (la cui spettacolarità architettonica non era che esaltata dalle quinte disegnate da Jurij Annenkov, “appoggiate” sugli edifici reali), dall’altra la ricostruzione di Evrejnov (orientata più alla mobilitazione ideologica delle masse che alla fedeltà storica) fissava visivamente, complice anche le riprese cinematografiche della messinscena, la versione ufficiale degli avvenimenti rivoluzionari che verrà poi tramandata dai libri scolastici sovietici, imprimendosi nell’immaginario collettivo molto di più di qualsiasi testimonianza oculare. A differenza dei precedenti “misteri” bolscevichi, anch’essi inscenati all’aperto sulla pubblica piazza (Inno al lavoro liberato, 1° maggio 1920; Per una Comune internazionale, 19 luglio 1920; La Russia assediata, 20 luglio 1920), che avevano più che altro carattere allegorico, L’assalto al palazzo d’Inverno di Evrejnov “costringeva” la storia recente a ripetersi proprio nel medesimo luogo, mirando dunque a una teatralizzazione permanente della realtà.
Un’idea che non poteva lasciare indifferente Lācis, decisa già all’indomani dell’Ottobre a essere «un buon soldato della Rivoluzione». Tornata nel 1920 nella natia Lettonia – costituitasi nel frattempo in repubblica indipendente, dopo una breve parentesi sovietica l’anno prima – la regista diresse la pièce di Leons Paegle Il volto dei secoli che, autorizzata dalla censura in quanto «dramma storico», “degenerò” in una vera e propria manifestazione politica per le vie della città. L’astuta “copertura” di una processione allegorica incentrata sull’eterna lotta tra padroni e schiavi, dall’antico Egitto alla rivoluzione del 1905, passando per il Medioevo e la guerra dei contadini, permise agli attori in maschera di sfilare indisturbati fino al parco del Sole, mentre tutt’intorno risuonavano slogan rivoluzionari. Anche la popolazione partecipò alla “messinscena” gettando garofani rossi e cantando l’Internazionale (allora vietata). Nella sua festosa, sovversiva estemporaneità Il volto dei secoli sembrava riallacciarsi alle teorie elaborate in quegli anni da Platon Kerzencev e Adrian Piotrovskij, intenzionati a restituire all’arte teatrale il suo carattere autenticamente popolare mediante drammatizzazioni collettive, basate sul coinvolgimento diretto del pubblico e sull’improvvisazione.
Ma tale rinnovamento poteva avvenire soltanto attraverso la formazione delle nuove generazioni e la creazione di un «teatro proletario dei bambini». Anche in quest’ambito il contributo di Lācis fu assolutamente originale, a partire dall’esperienza che nel 1918 la vide di nuovo “sulla strada”, a Orël, a tentare di coinvolgere nel suo laboratorio teatrale, oltre agli orfani traumatizzati dalla guerra civile, anche i bezprisorniki, ossia i ragazzini sbandati che Luciano Mecacci, nel sottotitolo del recente libro loro dedicato, chiama «i bambini randagi» della Russia sovietica. «Per le strade di Orël, nelle piazze dei mercati, nei cimiteri, nelle case distrutte vedevo schiere di bambini abbandonati: i bezprisorniki. Tra loro c’erano ragazzi con i visi neri, non lavati da mesi […]. Erano armati di bastoni e spranghe di ferro. Andavano in giro sempre in gruppi guidati da un capo e rubavano, rapinavano, uccidevano. In breve, erano bande di briganti, vittime della guerra mondiale e di quella civile», ricorderà la regista, senz’alcun imbellettamento. Alcune fotografie degli anni Venti li mostrano accoccolati sul marciapiede intorno ai calderoni in cui si scaldava il bitume, oppure intenti a giocare a carte, con tetra concentrazione da adulti.

A differenza di Lācis, che alla fine riuscì ad attirare i bezprisorniki nel suo laboratorio teatrale (permettendogli di recitare la parte in cui si sentivano più a loro agio, ossia quella dei furfanti), o al contrario di Marc Chagall che dal 1920 al 1922 insegnò pittura ai piccoli ospiti della colonia di Malachovka, Walter Benjamin era alquanto scettico sulla possibilità di recuperare attraverso l’arte quegli «elementi emarginati, riottosi, esasperati» che non lasciavano all’educatore «altra scelta se non quella di scendere egli stesso in strada». Anche se nel 1928 il filosofo berlinese scriverà Programma di un teatro proletario di bambini, fondandosi proprio sulle pratiche drammaturgiche sperimentali intraprese da Lācis a Orël.
La “strada” aperta in Benjamin dall’incontro con la regista lettone costituisce un capitolo a sé. Adottando la sua stessa terminologia, si sarebbe tentati di descriverla come un’intera “mappa psicogeografica”, caratterizzata dall’intersecarsi di un’infinità di vie e viuzze: le strade della capitale lettone dove Benjamin cammina da solo nel 1925 perché Lācis è impegnata a teatro («Ero giunto a Riga per far visita a un’amica. La sua casa, la città, la lingua mi erano sconosciute. Nessuno m’aspettava, non mi conosceva nessuno. Camminai due ore, solo, per le strade. Così non le rividi più»), ma soprattutto quelle di Mosca, una metropoli dove, così scrisse, «ci salta addosso una vita muta, ostinata, combattiva. Bisogna girare le strade anche in tram per percepire come questa lotta prosegua attraverso i vari piani degli edifici».

D’altronde, un’osmosi analoga fra esterno e interno Benjamin l’aveva già osservata a Napoli proprio insieme a Lācis, ai tempi del loro primo incontro avvenuto a Capri nel 1924. In Neapel, articolo scritto dai due per la «Frankfurter Zeitung», la città partenopea appare caratterizzata da una fluida transitività fra dentro e fuori; è «porosa», mai chiusa in sé stessa: «Come la cantina ritorna nella strada con sedie, focolare e altare, così, solo in maniera più chiassosa, la strada si sposta nell’interrato […] La miseria è riuscita a realizzare una dilatazione dei confini, che è l’immagine riflessa della più radiosa libertà di spirito». Una costante commistione, «penetrazione di giorno e di notte, rumori e silenzio, luce esterno e buio interno, strada e casa» che evoca, ovviamente, lo spazio fittizio di un palcoscenico teatrale; quello che accade infatti sulle scale di Napoli «è un’alta scuola di regia».
Se la relazione (peraltro tumultuosa) con Lācis segna forse per Benjamin il momento di maggior interesse per il teatro, la regista, che già nel 1923 a Monaco era stata assistente di un Brecht semisconosciuto nella Vita di Edoardo Secondo di Inghilterra, non devierà mai dalla via che le si era rivelata poco dopo l’Ottobre. Nemmeno negli anni Quaranta, quando accusata di attività controrivoluzionaria sconterà una condanna ai lavori forzati in Kazakhstan che non le impedirà di organizzare perfino nel campo in cui era rinchiusa alcuni spettacoli. I testi raccolti da Brinkmanis mettono a fuoco il carattere indomito e poliedrico della sua attività, ben al di là del ruolo di musa benjaminiana. Asja infatti fu assistente di regia di Erwin Piscator nel film La rivolta dei pescatori, autrice (insieme a Ludmila Keilina) di un libro sui Bambini e il cinema, instancabile mediatrice tra le scene sovietiche e quelle tedesche, infine, dopo la liberazione dai campi di lavoro e la riabilitazione, direttrice del teatro di Valmiera in Lettonia. Ma forse la “parte” in cui più piace ricordarla è quella di visionaria teorica di un teatro «dei bambini per i bambini», critico nei confronti dell’educazione borghese e della sua tendenza a sviluppare unilateralmente talenti specialistici funzionali a un rapido inserimento dell’adolescente nel sistema di produzione (oggi dovremmo aggiungere anche di consumo) delle merci. Una «commercializzazione dell’individuo» cui Lācis opponeva, sulla scorta di Brecht, un «teatro per filosofi» che non solo vogliono spiegare il mondo, ma anche cambiarlo.
Asja Lācis, l’agitatrice rossa. Teatro, femminismo, arte e rivoluzione
a cura di Andris Brinkmanis
Meltemi, 2021, pp. 246, € 24
In copertina: spettacolo teatrale di massa L’assalto al Palazzo d’inverno, piazza Urickij, Pietrogrado, 7 novembre 1920, regia di Nikolaj Evreinov, scenografie di Jurij Annenkov. © Collezione Andris Brinkmanis.