“Siamo una sola carne con la notte”

31/10/2021

Nella notte fra sabato e domenica, è morto a Berlino Luigi Reitani. Era da pochi giorni ricoverato in terapia intensiva dopo aver contratto il Covid19, nonostante si fosse sottoposto a due dosi di Astrazeneca; aveva sessantadue anni. Dopo averlo rivisto con la consueta attenzione, ci aveva consegnato circa un anno fa, raccomandandoci però di pubblicarlo solo dopo qualche tempo, un suo contributo al “ritratto” che avevamo cominciato a dedicare a Paul Celan: poeta da lui amatissimo al quale, per troppo amore probabilmente, non s’era mai sentito di dedicare uno degli studi che, dopo la scomparsa di Mario Lavagetto, avevano fatto di lui – a mio parere – il nostro maggior studioso di letteratura. Aveva deciso di attendere tempi migliori, per questa uscita, in quanto nel frattempo gettatosi a capofitto, come suo costume, in un commento all’opera di Ingeborg Bachmann, che presumo resti incompiuto; definitivi restano, viceversa, i suoi studi su Hölderlin (raccolti di recente solo quelli scritti in italiano, attendono una veste unitaria e una degna traduzione i molti da lui scritti in tedesco), a partire dai «Meridiani» dedicatigli nel 2001 e nel 2019. Specie quello più recente dedicato a Prose, teatro, lettere è un monumento straordinario all’arte – perché, se svolta a questi livelli, tale è – del commento e dell’interpretazione: dove si vede, dispiegato alla massima potenza, quel combinato disposto di filologia ed ermeneutica che a suo tempo ci avevano insegnato essere la «preghiera naturale» del critico. E che invece quasi nessuno, ormai, pratica più. Anche questa sua modernissima inattualità ha fatto di Luigi, per dirla con la “sua” Frühromantik, un frammento di futuro. Un futuro che ci pare inimmaginabile, ora che la «notte» – parola celaniana che è rimasta la sua ultima – si è richiusa, su di lui, una volta per tutte. Per ricordare Luigi, e il futuro che gli è venuto a mancare, decidiamo che sia quello di ora, il tempo di pubblicare questo suo scritto.

Proseguendo il nostro intrattenimento infinito, aggiogati alla ruota-Celan, proponiamo ai nostri lettori uno dei saggi contenuti in Sul crepaccio. Riflessioni/traduzioni, libro-premio assegnato a Luigi Reitani dalle edizioni Anterem nel 2014 (nel quale uscirono con un’introduzione di Gabriella Caramore): «una raccolta di saggi selezionati tra quelli che più strettamente intrecciano la riflessione teorica con la traduzione, facendo in tal modo emergere, come dichiara lo stesso autore, “un approccio alla letteratura che considera la traduzione, nell’accezione più vasta del termine, un’esperienza conoscitiva (e quindi esistenziale) di fondamentale significato”», come suonava la presentazione di quel volume. Per questa occasione Reitani ha proseguito il proprio discorso, aggiungendo ulteriori versioni a quelle da Celan che vi erano, già allora, incastonate.

Proseguendo la guerra di corsa a suo tempo condotta da Celan sulla crepa che divide e congiunge la poesia dalla prosa, la ragione dalla sragione, la notte dal giorno (Schibboleth, è il caso di ricordare, s’intitola tanto una celebre poesia nella sua raccolta Di soglia in soglia, che un’eloquente installazione collocata da Doris Salcedo alla Tate Modern di Londra nel 2007: «spazio negativo», come lo definiva l’artista, che provava così a interpretare il «non-luogo» – quello che Rilke e Celan chiamarono «Nirgends» – percorso dalle persone migranti), per una volta l’impeccabile filologo – cui fra il molto altro si devono i due monumentali «Meridiani» dedicati a Friedrich Hölderlin nel 2001 (Tutte le liriche, con memorabile memoir introduttivo di Andrea Zanzotto) e nel 2019 (Prose, teatro e lettere), e ora il volume che raccoglie parte dei tanti contributi critici da lui dedicati al poeta svevo, Geografie dell’altrove. Studi su Hölderlin, appena pubblicato da Marsilio nel 250° anniversario della sua nascita – ha scelto così di esplorare la terra incognita che si colloca giusto in mezzo. Proprio dove ha scelto di vivere lui, cioè: fra due lingue, fra due nazioni, fra due vite.

C’è un termine coniato da Emily Dickinson, Illocality (nella nostra lingua lo ha volto Amelia Rosselli come «illocazione»), per esprimere la «vicinanza al Tremendo». Può essere tante cose diverse il Tremendo che in Dickinson, certo, è misticamente connotato. Per chi vota la propria esistenza alla poesia altrui, ci sono autori che si possono studiare – con tutti i paraphernalia dell’erudizione, dell’acribia filologica e della sottigliezza ermeneutica – e ce ne sono altri che, forse, si possono solo amare. Cos’è “amore”, infatti, se non rischio, sconfinamento, nearness to Tremendousness? Dedicando queste pagine a quello che nell’opera di Celan è il tema del buio e della notte – la notte della mente, la notte della storia, la notte della vita – Reitani forse vuol dire, anzitutto a sé stesso, che il suo con quest’autore non può essere che un rapporto di questo tipo.  

Andrea Cortellessa

NÄCHTLICH GESCHÜRZT 
Für Hannah und Hermann Lenz

Nächtlich geschürzt
die Lippen der Blumen,
gekreuzt und verschränkt
die Schäfte der Fichten,
ergraut das Moos, erschüttert der Stein,
erwacht zum unendlichen Fluge
die Dohlen über dem Gletscher:
dies ist die Gegend, wo
rasten, die wir ereilt:
sie werden die Stunde nicht nennen,
die Flocken nicht zählen,
den Wassern nicht folgen ans Wehr.
Sie stehen getrennt in der Welt,
ein jeglicher bei seiner Nacht,
ein jeglicher bei seinem Tode,
unwirsch, barhaupt, bereift
von Nahem und Fernem.
Sie tragen die Schuld ab, die ihren Ursprung beseelte,
sie tragen sie ab an ein Wort,
das zu Unrecht besteht, wie der Sommer.
Ein Wort – du weißt:
eine Leiche.
Laß uns sie waschen,
laß uns sie kämmen,
laß uns ihr Aug
himmelwärts wenden.

RAGGRINZITE IN NOTTURNO 
A Hannah e Hermann Lenz
Raggrinzite in notturno
le labbra dei fiori,
incrociati e abbrancati
i fusti degli abeti,
ingrigito il muschio, smossa la pietra,
svegliate per un volo infinito
le cornacchie sul ghiacciaio:
questa è la landa dove
sostano, loro che abbiamo raggiunto:
non nomineranno lʼora,
non conteranno i fiocchi,
non seguiranno le acque fino alla chiusa.
Divisi nel mondo,
ciascuno nella sua notte,
ciascuno nella sua morte,
bruschi, a capo scoperto, nella brina
di vicino e lontano.
Scontano la colpa che animò la loro origine,
la scontano verso una parola
che esiste a torto, come lʼestate.
Una parola – lo sai:
un cadavere.
Lasciaci lavarlo,
lasciaci pettinarlo,
lasciaci volgere
il suo occhio al cielo.

Era nato in Bucovina, l’ebreo Paul Antschel, il 23 novembre 1920 in un paese chiamato Tschernowitz. Che cos’era la Bucovina, in quell’anno dopo la prima guerra mondiale? Non più regione di confine della monarchia austro-ungarica, ma già parte del regno di Romania e ancora un confine, un confine verso le nascenti repubbliche sovietiche, uno snodo tra un nuovo Oriente e un antico Occidente, un luogo in cui si confondevano le lingue e le etnie: il tedesco come lingua materna, l’ebraico della scuola dei poveri, il romeno del nuovo stato, lo yiddisch dei mercanti, il russo della rivoluzione, il francese imparato sui libri di Rimbaud, l’inglese dei sonetti di Shakespeare.

Dov’è oggi la Bucovina, dov’è oggi Tschernowitz, chiamata poi Cernăuţi, Černovcy, Černivci, la città «in cui vivevano uomini e libri»? In quella città la maggioranza era di ebrei e i caffè ricordavano Vienna. In quella città la poesia parlava tedesco e il tedesco era la lingua degli ebrei.

Ci sono paesaggi che la Storia cancella, con la forza che nessun uragano o catastrofe naturale può avere. Nel 1940 in Bucovina arriva l’Armata Rossa. Non è il socialismo libertario sognato da una generazione ribelle. Ma le deportazioni in Siberia sono solo una pallida anticipazione di ciò che accadrà appena un anno più tardi, quando a Tschernowitz entreranno le SS e i reparti speciali, con il compito di liquidare i cittadini ebrei. Morte e annientamento. Morte e rovina. Dov’è la poesia, dove sono Heine, Rilke, Shakespeare, Rimbaud? Dove sono, nei campi di lavoro, nei campi di sterminio, al di là dei fiumi, in regioni che la neve avvolge in un bianco disperatamente luttuoso?

In questa landa della storia il solo paesaggio possibile è l’inverno, e l’estate è una menzogna, al pari della fede in un Dio onnipotente e salvifico, quel Dio che si fece parola, verbo, e rappresenta l’origine e il fine di tutte le cose.

Paul Antschel divenne Paul Celan. L’uomo si fece poeta. Con un centro segreto, da cui la sua opera ha origine come da un’immane voragine nera. È ciò che accadde, mai menzionato direttamente, l’annientamento, la catastrofe, la Shoah. Celan non la descrive, non la evoca, non la racconta. La vive. Anche quando le parole sembrano musica e scelgono la forma nobile dell’arte tedesca, l’arte della fuga, per parlare di morte.

TODESFUGE
Schwarze Milch der Frühe wir trinken sie abends
wir trinken sie mittags und morgens wir trinken sie nachts
wir trinken und trinken
wir schaufeln ein Grab in den Lüften da liegt man nicht eng
Ein Mann wohnt im Haus der spielt mit den Schlangen der schreibt
der schreibt wenn es dunkelt nach Deutschland dein goldenes Haar Margarete
er schreibt es und tritt vor das Haus und es blitzen die Sterne er pfeift seine Rüden herbei
er pfeift seine Juden hervor läßt schaufeln ein Grab in der Erde
er befiehlt uns spielt auf nun zum Tanz
Schwarze Milch der Frühe wir trinken dich nachts
wir trinken dich morgens und mittags wir trinken dich abends
wir trinken und trinken
Ein Mann wohnt im Haus der spielt mit den Schlangen der schreibt
der schreibt wenn es dunkelt nach Deutschland dein goldenes Haar Margarete
Dein aschenes Haar Sulamith wir schaufeln ein Grab in den Lüften da liegt man nicht eng
Er ruft stecht tiefer ins Erdreich ihr einen ihr andern singet und spielt
er greift nach dem Eisen im Gurt er schwingts seine Augen sind blau
stecht tiefer die Spaten ihr einen ihr andern spielt weiter zum Tanz auf
Schwarze Milch der Frühe wir trinken dich nachts
wir trinken dich mittags und morgens wir trinken dich abends
wir trinken und trinken
ein Mann wohnt im Haus dein goldenes Haar Margarete
dein aschenes Haar Sulamith er spielt mit den Schlangen
Er ruft spielt süßer den Tod der Tod ist ein Meister aus Deutschland
er ruft streicht dunkler die Geigen dann steigt ihr als Rauch in die Luft
dann habt ihr ein Grab in den Wolken da liegt man nicht eng
Schwarze Milch der Frühe wir trinken dich nachts
wir trinken dich mittags der Tod ist ein Meister aus Deutschland
wir trinken dich abends und morgens wir trinken und trinken
der Tod ist ein Meister aus Deutschland sein Auge ist blau
er trifft dich mit bleierner Kugel er trifft dich genau
ein Mann wohnt im Haus dein goldenes Haar Margarete
er hetzt seine Rüden auf uns er schenkt uns ein Grab in der Luft
er spielt mit den Schlangen und träumet der Tod ist ein Meister aus Deutschland
dein goldenes Haar Margarete
dein aschenes Haar Sulamith

FUGA DI MORTE  
Nero latte dell’alba lo beviamo di sera 
lo beviamo a mezzogiorno e al mattino lo beviamo di notte 
beviamo e beviamo 
scaviamo una fossa nei venti lassù non si sta stretti 
Nella casa abita un uomo che gioca con i serpenti che scrive 
che scrive in Germania quando fa buio i tuoi capelli d’oro Margarete 
lo scrive e si affaccia alla porta e luccicano le stelle con un fischio chiama a sé i suoi mastini 
con un fischio raduna i suoi ebrei fa scavare nel terreno una fossa 
ci comanda adesso suonate la danza 
Nero latte dell’alba ti beviamo di notte 
ti beviamo al mattino e a mezzogiorno ti beviamo di sera
beviamo e beviamo 
Nella casa abita un uomo che gioca con i serpenti che scrive 
che scrive in Germania quando fa buio i tuoi capelli d’oro Margarete 
i tuoi capelli di cenere Sulamith scaviamo una fossa nei venti lassù non si sta stretti 
Urla scavate più a fondo voi altri e voi cantate e suonate 
dalla cintola estrae il pugnale lo brandisce sono azzurri i suoi occhi
più a fondo le pale voialtri e voi continuate a suonare la danza 
Nero latte dell’alba ti beviamo di notte  
ti beviamo a mezzogiorno e al mattino ti beviamo di sera
beviamo e beviamo 
nella casa abita un uomo i tuoi capelli d’oro Margarete 
i tuoi capelli di cenere Sulamith lui gioca con i serpenti 
Urla suonate con più dolcezza la morte la morte è un mastro tedesco 
urla cavate un suono più cupo ai violini salirete come fumo nel vento 
e avrete una fossa nelle nuvole lassù non si sta stretti 
Nero latte dell’alba ti beviamo di notte 
ti beviamo a mezzogiorno la morte è un mastro tedesco
ti beviamo di sera e al mattino beviamo e beviamo 
la morte è un mastro tedesco azzurro è il suo sguardo
ti centra col piombo ti centra con grande riguardo
nella casa abita un uomo i tuoi capelli d’oro Margarete 
ci aizza contro i mastini ci regala una fossa nel vento 
gioca con i serpenti e sogna la morte è un mastro tedesco 
i tuoi capelli d’oro Margarete 
i tuoi capelli di cenere Sulamith
Non c’è solo lutto, nell’opera di Celan. La forza delle sue parole è intrisa di erotismo, di amore per la vita. La vita è ancora possibile, nella società europea uscita dalla guerra, attraversata da un’ebbrezza febbrile, da amori inquieti, da una nuova speranza per il futuro. L’amore al tempo delle macerie: a Bucarest, prima che la censura comunista cali il suo pugno di ferro su ogni arte sperimentale, su ogni gruppo giovanile. E quei tempestosi mesi a Vienna, in fuga da una Romania ormai stretta nella cortina di ferro. Paul Celan: un poeta dalle grandi ambizioni e dal grande fascino, che incanta i giovani intellettuali della capitale austriaca. Senza potersi fermare, senza riuscire a trovare una nuova casa nell’Austria ancora occupata dagli eserciti alleati.

Amore tra le macerie, amore in esilio, amore che non dimentica i morti e che fa rivivere la memoria dei morti. Amore che ferma il tempo, che fa nascere il tempo, che ridà senso al tempo. Amore in terra straniera. Amore di buio in buio.

CORONA  
Aus der Hand frißt der Herbst mir sein Blatt: wir sind Freunde.
Wir schälen die Zeit aus den Nüssen und lehren sie gehn:
die Zeit kehrt zurück in die Schale.
Im Spiegel ist Sonntag,
im Traum wird geschlafen,
der Mund redet wahr.
Mein Aug steigt hinab zum Geschlecht der Geliebten:
wir sehen uns an,
wir sagen uns Dunkles,
wir lieben einander wie Mohn und Gedächtnis,
wir schlafen wie Wein in den Muscheln,
wie das Meer im Blutstrahl des Mondes.
Wir stehen umschlungen im Fenster, sie sehen uns zu von der Straße:
es ist Zeit, daß man weiß!
Es ist Zeit, daß der Stein sich zu blühen bequemt,
daß der Unrast ein Herz schlägt.
Es ist Zeit, daß es Zeit wird.
Es ist Zeit.

CORONA
L’autunno mi mangia la sua foglia dalla mano: siamo amici.
Sgusciamo il tempo dalle noci e gli insegniamo a camminare:
il tempo fa ritorno nel guscio.
Nello specchio è domenica,
nel sogno si dorme,
la bocca dice il vero.
Il mio occhio scende al sesso dell’amata:
ci guardiamo,
ci diciamo cose oscure,
ci amiamo l’un l’altra come papavero e memoria,
dormiamo come vino nelle conchiglie,
come il mare nel raggio di sangue della luna.
Abbracciati alla finestra, ci guardano dalla strada:
è tempo che si sappia!
È tempo che la pietra si degni di fiorire,
che all’inquietudine batta un cuore.
È tempo che sia tempo.
È tempo.  
Nachts, wenn das Pendel der Liebe schwingt
zwischen Immer und Nie,
stößt dein Wort zu den Monden des Herzens
und dein gewitterhaft blaues
Aug reicht der Erde den Himmel. 
Aus fernen, aus traumgeschwärztem
Hain weht uns an das Verhauchte,
und das Versäumte geht um, groß wie die Schemen der Zukunft. 
Was sich nun senkt und hebt,
gilt dem zuinnerst Vergrabnen:
blind wie der Blick, den wir tauschen,
küßt es die Zeit auf den Mund.

Di notte, quando il pendolo dell’amore oscilla
tra Sempre e Mai,
la tua parola si spinge verso le lune del cuore
e azzurro di tempesta il tuo
occhio porge il cielo alla terra.
Da un lontano boschetto annerito
dal sogno ci soffia incontro ciò che è spirato,
e s’aggira ciò che è perduto, grande come gli spettri del futuro.
Ciò che ora scende e sale,
spetta a ciò che è sepolto nel profondo:
cieco come lo sguardo che scambiamo,
bacia il tempo sulla bocca

VON DUNKEL ZU DUNKEL
Du schlugst die Augen auf – ich seh mein Dunkel leben.
Ich seh ihm auf den Grund:
auch da ists mein und lebt.
Setzt solches über? Und erwacht dabei?
Wes Licht folgt auf dem Fuß mir,
daß sich ein Ferge fand?

DI BUIO IN BUIO
Apristi gli occhi – io vedo vivere il mio buio.
Ne vedo il fondo:
anche lì è mio e vive.
Passa da riva a riva? Risvegliandosi?
Di chi è la luce che mi incalza,
fin da trovare un passatore?

NACHT
Kies und Geröll. Und ein Scherbenton, dünn,
als Zuspruch der Stunde.
Augentausch, endlich, zur Unzeit:
bildbeständig,
verholzt
die Netzhaut –:
das Ewigkeitszeichen.
Denkbar:
droben, im Weltgestänge,
sterngleich,
das Rot zweier Münder.
Hörbar (vor Morgen?): ein Stein,
der den andern zum Ziel nahm.

NOTTE
Ghiaia e detriti. E un suono di cocci, sottili,
quale appello incoraggiante dell’ora.
Scambio di occhi, infine, nel non-tempo:
resistente all’immagine,
lignificata
la retina –:
il segno dell’eternità.
Pensabile: 
su, nel traliccio del mondo,
simile a una stella,
il rosso di due bocche.
Udibile (prima del mattino?): una pietra,
che prese l’altra a bersaglio.

FLÜGELNACHT 
Flügelnacht, weither gekommen und nun
für immer gespannt
über Kreide und Kalk.
Kiesel, abgrundhin rollend.
Schnee. Und mehr noch des Weißen.
Unsichtbar,
was braun schien,
gedankenfarben und wild
überwuchert von Worten.
Kalk ist und Kreide.
Und Kiesel.
Schnee. Und mehr noch des Weißen.
Du, du selbst:
in das fremde
Auge gebettet, das dies
überblickt.

NOTTE CON ALI  
Notte con ali, giunta da lontano e ora
distesa per sempre
su creta e calce.
Ghiaia, rotolante verso l’abisso.
Neve. E ancora più del bianco.
Invisibile,
ciò che sembrava bruno,
colorato di pensieri e ricoperto
di parole selvagge.
È calce e creta.
E ghiaia. 
Neve. E ancora più del bianco.
Tu, tu stesso:
nel letto dell’occhio
straniero, che tutto questo
abbraccia con lo sguardo.
WELCHEN DER STEINE DU HEBST
Welchen der Steine du hebst –
du entblößt,
die des Schutzes der Steine bedürfen:
nackt,
erneuern sie nun die Verflechtung.
Welchen der Bäume du fällst –
du zimmerst
die Bettstatt, darauf
die Seelen sich abermals stauen,
als schütterte nicht
auch dieser
Äon.
Welches der Worte du sprichst –
du dankst
dem Verderben.

QUALUNQUE PIETRA TU SOLLEVI
Qualunque pietra tu sollevi –
li spoglierai
loro, che del riparo delle pietre hanno bisogno:
nudi,
rinnoveranno l’intreccio.
Qualunque albero tu abbatta –
inchioderai le assi  
di un giaciglio, dove
si ammassano ancora una volta le anime,
quasi non tremasse
anche questa
era. 
Qualunque parola tu dica –
ringrazierai
la rovina.
ARGUMENTUM E SILENTIO
Für René Char
An die Kette gelegt
zwischen Gold und Vergessen:
die Nacht.
Beide griffen nach ihr.
Beide ließ sie gewähren
Lege,
lege auch du jetzt dorthin, was herauf-
dämmern will neben den Tagen:
das sternüberflogene Wort,
das meerübergoßne.
Jedem das Wort.
Jedem das Wort, das ihm sang,
als die Meute ihn hinterrücks anfiel –
Jedem das Wort, das ihm sang und erstarrte
Ihr, der Nacht,
das sternüberflogne, das meerübergoßne,
ihr das erschwiegne, 
dem das Blut nicht gerann, als der Giftzahn
die Silben durchstieß.
Ihr das erschwiegene Wort.
Wider die andern, die bald,
die umhurt von den Schinderohren,
auch Zeit und Zeiten erklimmen,
zeugt es zuletzt,
zuletzt, wenn nur Ketten erklingen,
zeugt es von ihr, die dort liegt
zwischen Gold und Vergessen,
beiden verschwistert von je –
Denn wo
dämmerts denn, sag, als bei ihr,
die im Stromgebiet ihrer Träne
tauchenden Sonnen die Saat zeigt
aber und abermals?

ARGUMENTUM E SILENTIO
A René Char
Messa alla catena 
tra oro e oblio:
la notte.
Entrambi l’afferrarono.
A entrambi lasciò fare.
Mettila,
mettila anche tu ora, laggiù, intenta
ad albeggiare accanto ai giorni:
la parola sorvolata da stelle,
impregnata di mari.
A ciascuno la parola.
A ciascuno la parola che gli cantava,
quando la muta lo aggredì alle spalle –
A ciascuno la parola che gli cantava e divenne pietra.
A lei, alla notte,
la parola sorvolata da stelle, impregnata di mari,
a lei la parola fatta silenzio,
a cui il sangue non si rapprese, quando il dente del veleno
trafisse le sillabe.
A lei la parola fatta silenzio.
Contro le altre, che presto,
adescate dalle orecchie puttane dei carnefici,
scaleranno anche tempo e tempi,
testimonierà alla fine,
alla fine, quando non risuoneranno che catene,
testimonierà di lei, che giace laggiù
tra oro e oblio,
a entrambi sorella da sempre –
Giacché, dove
Albeggia, dimmi, se non in lei,
che ancora e ancora una volta 
a soli che s’immergono mostra la semenza 
nella landa fluviale delle sue lacrime?
TENEBRAE
Nah sind wir, Herr,
nahe und greifbar.
Gegriffen schon, Herr,
ineinander verkrallt, als wär
der Leib eines jeden von uns
dein Leib, Herr.
Bete, Herr,
bete zu uns,
wir sind nah.
Windschief gingen wir hin,
gingen wir hin, uns zu bücken
nach Mulde und Maar.
Zur Tränke gingen wir, Herr.
Es war Blut, es war,
was du vergossen, Herr.
Es glänzte.
Es warf uns dein Bild in die Augen, Herr.
Augen und Mund stehn so offen und leer, Herr.
Wir haben getrunken, Herr.
Das Blut und das Bild, das im Blut war, Herr.
Bete, Herr.
Wir sind nah.
TENEBRAE 
Siamo vicini, Signore,
vicini e afferrabili.  
Già afferrati, Signore,
gli uni agli altri abbrancati, quasi fosse
il corpo di ciascuno di noi
il tuo corpo, Signore.
Prega, Signore,
pregaci,
siamo vicini.
Andavamo sghembi laggiù,
andavamo laggiù per curvarci
su conca e cratere.
Andavamo all’abbeveratoio, Signore.
Era sangue, era
ciò che hai versato, Signore.
Splendeva.
Ci gettò la tua immagine negli occhi, Signore.
Occhi e bocca restano aperti e vuoti, Signore.
Abbiamo bevuto, Signore.
Il sangue e l’immagine che era nel sangue, Signore.
Prega, Signore,
siamo vicini.
SPRACHGITTER
Augenrund zwischen den Stäben.
Flimmertier Lid
rudert nach oben,
gibt einen Blick frei.
Iris, Schwimmerin, traumlos und trüb:
der Himmel, herzgrau, muß nah sein.
Schräg, in der eisernen Tülle,
der blakende Span.
Am Lichtsinn
errätst du die Seele.
(Wär ich wie du. Wärst du wie ich.
Standen wir nicht
unter einem Passat?
Wir sind Fremde.)
Die Fliesen. Darauf,
dicht beieinander, die beiden
herzgrauen Lachen:
zwei
Mundvoll Schweigen.

GRATA PER PARLARSI
Tondo d’occhio tra le sbarre.
Palpebra, tremolante animale
che rema in alto,
lasciando libero uno sguardo. 
Iride, nuotatrice torbida e senza sogni:
il cielo, grigiocuore, non sarà lontano.
Obliqua, nella bussola di ferro,
la scheggia scintillante.
Nel senso della luce
indovini l’anima. 
(Fossi io come te. Fossi tu come me.
Non eravamo forse 
sotto lo stesso aliseo?
Siamo estranei.)
Le mattonelle. Sopra,
l’una stretta accanto all’altra, le due
pozze grigiocuore:
due
bocconi di silenzio.

SCHNEEBETT
Augen, weltblind, im Sterbegeklüft: Ich komm,
Hartwuchs im Herzen.
Ich komm.
Mondspiegel Steilwand. Hinab.
(Atemgeflecktes Geleucht. Strichweise Blut.
Wölkende Seele, noch einmal gestaltnah.
Zehnfingerschatten – verklammert.)
Augen weltblind,
Augen im Sterbegeklüft,
Augen Augen:
Das Schneebett unter uns beiden, das Schneebett.
Kristall um Kristall,
zeittief gegittert, wir fallen,
wir fallen und liegen und fallen.
Und fallen:
Wir waren. Wir sind.
Wir sind ein Fleisch mit der Nacht.
In den Gängen, den Gängen.

LETTO DI NEVE 
Occhi, ciechi al mondo, nel crepaccio del morire: Vengo,
una scorza dura nel cuore.
Vengo.
Specchio della luna ripida parete. In giù.
(Lampada macchiata di respiro. Sangue qua e là.
Anima a nuvole, di nuovo vicina a una forma.
Ombra dalle dieci dita – avvinghiata.)
Occhi ciechi al mondo,
occhi nel crepaccio del morire,
occhi occhi:
Il letto di neve sotto noi due, il letto di neve.
Cristallo per cristallo,
attaccati alla profonda inferriata del tempo, cadiamo,
cadiamo e giacciamo e cadiamo.
E cadiamo:
eravamo. Siamo.
Siamo una sola carne con la notte.
Nei cunicoli, i cunicoli.

ES WAR ERDE IN IHNEN, und 
sie gruben.
Sie gruben und gruben, so ging
ihr Tag dahin, ihre Nacht. Und sie lobten nicht Gott,
der, so hörten sie, alles dies wollte,
der, so hörten sie, alles dies wußte.
Sie gruben und hörten nichts mehr;
sie wurden nicht weise, erfanden kein Lied,
erdachten sich keinerlei Sprache.
Sie gruben.
Es kam eine Stille, es kam auch ein Sturm,
es kamen die Meere alle.
Ich grabe, du gräbst, und es gräbt auch der Wurm,
und das Singende dort sagt: Sie graben.
O einer, o keiner, o niemand, o du:
Wohin gings, da’s nirgendhin ging?
O du gräbst und ich grab, und ich grab mich dir zu,
und am Finger erwacht uns der Ring.

ERA TERRA IN LORO, e   
scavavano.
Scavavano e scavavano, così passava
il loro giorno, la loro notte. E non lodavano Dio
che, così udirono, tutto questo voleva,
che, così udirono, tutto questo sapeva.
Scavavano e più nulla udirono;
non divennero saggi, non crearono un canto,
non inventarono nessun linguaggio.
Scavavano.
Giunse una quiete, giunse anche una tempesta,
giunsero tutti i mari.
Io scavo, tu scavi e scava anche il verme,
e ciò che là canta dice: Essi scavano.
Uno, non uno, nessuno, tu:
Dove si andava, se in nessun luogo si andava?
Tu scavi e io scavo e io a te mi scavo,
e al nostro dito si risveglia l’anello.
DAS WORT VOM ZUR-TIEFE-GEHEN, 
das wir gelesen haben.
Die Jahre, die Worte seither.
Wir sind es noch immer.
Weißt du, der Raum ist unendlich,
weißt du, du brauchst nicht zu fliegen,
weißt du, was sich in dein Aug schrieb,
vertieft uns die Tiefe.

QUELLA PAROLA DELL’ANDARE-A-FONDO  
che abbiamo letto.
Gli anni, le parole da allora.
Siamo ancora noi.
Sai, lo spazio è infinito,
sai, non devi volare,
sai, quanto si è scritto nel tuo occhio
rende il nostro fondo più profondo.

Ma è possibile continuare a contare il tempo? Dare un nome ai luoghi, ai volti, alle cose, leggere il mondo? È possibile credere in Dio, in un mondo che ha conosciuto l’orrore di Auschwitz? E come è possibile pregare questo Dio, forse indifferente e terribile, o forse inesistente? Un Dio che ha il nome omerico di Nessuno, che si manifesta solo sottraendosi, abbandonando l’uomo a se stesso, alla sua terribile finitudine. Pregare, poetare. Portare parole in lode alla magnificenza del Creatore. Di quale Creatore? Forse del Creatore del Niente. La bellezza è del niente, la bellezza è di nessuno. La rosa di Nessuno.

PSALM 
Niemand knetet uns wieder aus Erde und Lehm,
niemand bespricht unsern Staub.
Niemand.
Gelobt seist du, Niemand.
Dir zulieb wollen
wir blühn.
Dir
entgegen.
Ein Nichts
waren wir, sind wir, werden
wir bleiben, blühend:
die Nichts-, die
Niemandsrose.
Mit
dem Griffel seelenhell,
dem Staubfaden himmelswüst,
der Krone rot
vom Purpurwort, das wir sangen
über, o über
dem Dorn.

SALMO 
Nessuno ci impasta di nuovo da terra e fango,
nessuno in-canta la nostra polvere.
Nessuno.
Tu sia lodato, Nessuno.
Per amor tuo vogliamo
fiorire.
A Te in-
contro.
Un niente
eravamo, siamo, ancora
resteremo, fiorendo:
del niente la rosa
di nessuno.
Con 
lo stilo d’animo chiaro,
il filamento di cielo desolato,
la corona rossa
della parola di porpora, che cantammo
sopra, oh sopra
la spina.

E le parole si sottraggono al chiasso, alla retorica, ai luoghi comuni. Si fanno percorsi intricati e dolorosi, rose cosparse di spine. La poesia di Celan si sottrae al lettore, gli parla come da una grata, da una distanza che proviene da un altro spazio e da un altro tempo. Una parola che agogna alla verità o che alla verità tende allo spasimo, come a un assoluto irraggiungibile, lasciando risuonare il silenzio. Una parola che intende corrodere come un acido la chiacchiera della quotidianità. Una parola che vorrebbe essere cristallo, forma perfetta, e trasparente sino alla evidenza, cristallo perduto tra i ghiacciai della nostra modernità. Svolta nel respiro. Oppure parola che scaturisce balbettante, in un omaggio a un altro poeta, a Friedrich Hölderlin, vissuto a Tubinga in una torre, lontano dagli uomini, e a loro vicino.

TÜBINGEN, JÄNNER
Zur Blindheit über-
redete Augen.
Ihre – »ein
Rätsel ist Rein-
Entsprungenes« –, ihre
Erinnerung an
schwimmende Hölderlintürme, möwen-
umschwirrt.
Besuche ertrunkener Schreiner bei
diesen
tauchenden Worten:
Käme,
käme ein Mensch,
käme ein Mensch zur Welt, heute, mit
dem Lichtbart der
Patriarchen: er dürfte,
spräch er von dieser
Zeit, er
dürfte
nur lallen und lallen,
immer-, immer-
zuzu.
(»Pallaksch. Pallaksch.«)

TUBINGA, GENNAIO  
Occhi per-
suasi alla cecità.
Il loro – «un 
enigma è ciò che puro 
sgorga» –, il loro
ricordo di
galleggianti torri di Hölderlin, nel frullio
d’ali di gabbiani.
Visite di falegnami annegati in
queste
parole che s’immergono:
 
Venisse,
venisse un uomo,
venisse un uomo al mondo, oggi, con
la barba di luce dei
patriarchi: potrebbe,
se parlasse di questo
tempo, potrebbe
solo
balbettare e balbettare,
continua-, continua-,
mentemente.
(«Pallaksch. Pallaksch.»)
WEGGEBEIZT vom
Strahlenwind deiner Sprache
das bunte Gerede des An-
erlebten – das hundert-
züngige Mein-
gedicht, das Genicht.
Aus-
gewirbelt,
frei
der Weg durch den menschen-
gestaltigen Schnee,
den Büßerschnee, zu
den gastlichen
Gletscherstuben und -tischen.
Tief
in der Zeitenschrunde,
beim
Wabeneis
wartet, ein Atemkristall,
dein unumstößliches
Zeugnis.

EROSE dal
vento irradiante della tua lingua
le ciarle multicolori dell’acqui- 
sita esperienza – la mia- 
poesia dalle cento 
lingue, la vanesìa.
Alla fine
di un turbine,
libero
il passo per la neve dalle forme 
umane,
la neve penitente, verso
le ospitali
stanze e tavole dei ghiacciai. 
In fondo
al crepaccio dei tempi,
accanto
al favo di ghiaccio,
aspetta, un cristallo del respiro, 
la tua inconfutabile
testimonianza. 

La poesia di Paul Celan si snoda in immagini ardite, in accostamenti sorprendenti. Il suo ragionamento è insieme lucidissimo e paradossale. Questi versi seducono il lettore con il loro rarefatto paesaggio e aprono abissi vertiginosi al pensiero. Un loro principio costitutivo è la condensazione di esperienze, motivi, riflessioni. Come interpretare, ad esempio, la parola Schreiner, nella poesia dedicata a Hölderlin? Il vocabolo tedesco è una variante regionale per designare un falegname. È dunque lecito pensare che con le «visite di falegnami annegati» Celan si riferisca al falegname che ospitava Hölderlin, malato, nella sua abitazione a forma di torre. Ma Schreiner è anche il nome proprio di un artista che ritrasse il poeta in quegli anni. Un’unica parola racchiude in sé un duplice riferimento. Eppure, né il falegname né l’artista annegarono nelle acque del fiume in cui la torre si rispecchia. Perché sono dunque «annegati»? È forse il fiume a evocare nella sua profondità il passato di queste visite? O si fa riferimento ad altri sommersi dalla storia, ad altre acque, ad altri annegati?

Nessuna traduzione di Celan può dar conto di una tessitura così fitta. Nessun commento può dipanare la complessità dei riferimenti filosofici, letterari, teologici di simili versi. Oggi possiamo leggere le poesie di Celan in due diverse edizioni critiche e in una edizione commentata. E anche i suoi carteggi sono a poco a poco resi accessibili. Abbiamo a disposizione documenti sulla sua vita privata, sulle sue storie d’amore, sulla sua partecipazione alla vita culturale europea. Libri e libri sono stati scritti sulla sua poesia, dalle più diverse prospettive e angolazioni. La sua biografia è stata scandagliata, e insieme alla luce di una figura di culto è emersa anche l’ombra di un uomo fragile e problematico nelle relazioni umane. Ma al di là dei cinquant’anni della sua breve esistenza, collocati nel cuore del secolo breve, c’è la sua opera. I suoi scritti di poetica, suggestivi e rivelatori, le sue traduzioni da nove lingue, e soprattutto, i suoi versi: quelli editi in vita e quelli pubblicati postumi. Sono loro, il «messaggio nella bottiglia» che noi dobbiamo, dovremmo raccogliere. Sono versi fondati sul dialogo, in cui è ricorrente l’appello a un interlocutore, a un Tu in possibile ascolto. Chi è questo Tu, a cui la poesia di Celan si rivolge? Una persona amata, una figura scomparsa, il poeta stesso, un’alterità inquietante, o addirittura il Signore del creato, investito delle sue responsabilità? O siamo noi, lettori, a essere chiamati a un confronto, a essere investiti di un ruolo? Noi che dobbiamo prendere il posto dei morti, noi che dobbiamo imparare ad amare, noi che dobbiamo lenire il dolore, combattere il male, proteggere il debole? Noi che siamo l’altro, il diverso, lo straniero? Noi, al posto di un Dio la cui onnipotenza si è rivelata un inganno? E d’altra parte: chi parla in queste poesie? Non un soggetto individuale, ma un Io attraversato dalla storia; più spesso un soggetto collettivo, un Noi, il noi del dopo Auschwitz, il noi dei salvati, che non può dimenticare loro, i sommersi. Noi, loro, tu: è questa la triangolazione necessaria e costante dei versi di Celan.

Mai questa poesia cade nel sentimentalismo. Piuttosto sfuma in una lievissima ironia o cede al sarcasmo. Non c’è spazio per la retorica, per la facile consolazione, per la certezza aprioristica. La poesia può nascere per Celan solo dal silenzio, con uno scavo lungo e doloroso. Non si tratta di una poesia oscura, ma di una poesia che sfida l’oscurità del mondo. Il poeta sposta i significati dei vocaboli con ritmi e suoni, arriva a dividere le parole a fine verso, inventa neologismi. Rifiuta il discorso dai mille colori. Di tutte le lingue da lui conosciute e praticate – il francese della vita quotidiana e dei rapporti familiari, il romeno della giovinezza, il russo perfettamente assimilato – Paul Celan per la sua poesia ha usato solo il tedesco: la lingua materna, la Muttersprache, ma anche la lingua degli assassini, la Mördersprache, degli assassini dei suoi stessi genitori. Scrivere in questa lingua era forse un atto rituale, un gesto di purificazione di un patrimonio culturale che era stato inquinato.

C’era spazio, al mondo, per questa testimonianza? Per un’esperienza così intensa? Di sé, della storia, del mondo, del linguaggio? Poteva la lingua decifrare la complessità dei segni, non arrendersi di fronte al groviglio del tempo? Era possibile intuire la presenza della luce nelle tenebre, pronunciare almeno per una frazione di secondo la parola «salvezza»? Cosa era possibile ancora sentire, percepire, nella luce coatta di un ospedale psichiatrico, in fuga e alla ricerca dei significati? Quali metamorfosi aspettavamo ancora l’uomo, il poeta, quali fragranze erano ancora possibili, nel sentore di appartenenze inestirpabili? Si poteva resistere alla tentazione del silenzio, al gelo delle acque che accolgono da sempre i sommersi? La tentazione di abdicare, o semplicemente di risalire dalle proprie profondità. Da se stesso. Risalire. Affondare. Per sempre.

DU DARFST mich getrost 
mit Schnee bewirten:
sooft ich Schulter an Schulter
mit dem Maulbeeraum schritt durch den Sommer,
schrie sein jüngstes
Blatt.

TI È PUR LECITO 
sfamarmi di neve:
ogni volta che spalla a spalla
con il gelso attraversai l’estate,
gridava la sua ultima
foglia.
DIE SCHWERMUTSSCHWELLE HINDURCH,
am blanken
Wundenspiegel vorbei:
da werden die vierzig
entrindeten Lebensbäume geflößt.
Einzige Gegen-
schwimmerin, du
zählst sie, berührst sie
alle.

LUNGO LE RAPIDE DELLA MALINCONIA,
passando accanto al lustro 
specchio delle ferite:
navigano su zattere i quaranta
alberi scorticati della vita.
Unica, nuotando contro-
corrente, tu
li conti, li tocchi
tutti.   
STEHEN, im Schatten
des Wundenmals in der Luft.
Für-niemand-und-nichts-Stehn.
Unerkannt,
für dich
allein.
Mit allem, was darin Raum hat,
auch ohne
Sprache.

STARE, all’ombra   
della piaga nell’aria.
Stare-per-nessuno-e-per-niente.
Non riconosciuto,
per te
solo.
Con tutto ciò che si trova,
anche senza
lingua.
IN DEN FLÜSSEN nördlich der Zukunft
werf ich das Netz aus, das du
zögernd beschwerst
mit von Steinen geschriebenen 
Schatten

NEI FIUMI a nord del futuro
getto la rete che tu
esitando fissi  
con ombre
scritte da pietre.
EINMAL,
da hörte ich ihn,
da wusch er die Welt,
ungesehn, nachtlang,
wirklich.
Eins und Unendlich,
vernichtet,
ichten.
Licht war. Rettung.

UNA VOLTA,  
allora lo udii,
lavava il mondo,
non visto, tutta la notte,
davvero.
Uno e Infinito,
annientato,
-entare. 
Luce, era. Salvezza.
DIE ABGEWRACKTEN TABUS,
und die Grenzgängerei zwischen ihnen,
weltennaß, auf
Bedeutungsjagd, auf
Bedeutungs-
flucht.

I TABÙ DEMOLITI, 
e lo sconfinare tra loro,
madido di mondi, a
caccia di significato, in
fuga dal
significato. 
HÖRRESTE, SEHRESTE, im
Schlafsaal eintausendundeins,
tagnächtlich
die Bären-Polka:
sie schulen dich um,
du wirst wieder
er.

RESIDUI AUDITIVI, VISIVI, nel
dormitorio mille e uno, 
ogni notte
la Polca dell’Orso:
ti rieducano,
di nuovo sarai
lui.
LAUTER
Einzelkinder
mit leisen, moorigen
Muttergerüchen im Hals,
zu Bäumen – zu Schwarz-
erlen – erkoren,
duftlos.

NIENT’ALTRO che
figli unici
con in gola esili, paludosi
odori di madre,
eletti ad alberi – a neri
ontani –
senza fragranza.
UNLESBARKEIT dieser
Welt. Alles doppelt.
Die starken Uhren
geben der Spaltstunde recht,
heiser.
Du, in dein Tiefstes geklemmt,
entsteigst dir
für immer.

ILLEGGIBILITÀ di questo
mondo. Tutto doppio.
Gli alacri orologi 
danno ragione all’ora-spiraglio,
rochi.
Incastrato nel più profondo di te,
da te risali
per sempre.

Le poesie sono tratte

– da Papavero e Memoria (Mohn und Gedächtnis, 1952):
FUGA DI MORTE; CORONA; DI NOTTE, QUANDO IL PENDOLO…

– da Di soglia in soglia (Von Schwelle zu Schwelle, 1955):
DI BUIO IN BUIO; RAGGRINZITE IN NOTTURNO; NOTTE CON ALI; QUALUNQUE PIETRA TU SOLLEVI; ARGUMENTUM E SILENTIO

– da Grata per parlarsi (Sprachgitter, 1959):
TENEBRAE; GRATA PER PARLARSI, LETTO DI NEVE; NOTTE

– da La rosa di Nessuno (Die Niemandsrose, 1963):
ERA TERRA IN LORO, e…; QUELLA PAROLA DELL’ANDARE-A-FONDO…; SALMO; TUBINGA, GENNAIO

– da Svolta nel respiro (Atemwende, 1966):
TI È PUR LECITO…; NEI FIUMI a nord del futuro; LUNGO LE RAPIDE DELLA MALINCONIA…; STARE, ALL’OMBRA…; EROSE dal…; UNA VOLTA, …

– da Soli-Filamenti (Fadensonnen, 1968):
I TABÙ DEMOLITI…; RESIDUI AUDITIVI, VISIVI, nel…

– da Luce coatta (Lichtzwang, 1970):
NIENT’ALTRO CHE…

– da Zona di neve (Schneepart, 1971):
ILLEGGIBILITÀ DI QUESTO…;

Per il testo tedesco si è seguito: Paul Celan, Die Gedichte. Neue kommentierte Gesamtausgabe in einem Band, mit den zugehörigen Radierungen von Gisèle Celan-Lestrange, hrsg. und kommentiert von Barbara Wiedemann, Suhrkamp, Berlin 2018.

Traduzioni e testi critici nascono per una lettura scenica realizzata da Emanuele Carucci Viterbi per il «Giorno della Memoria» 2012 al Teatro Nuovo Giovanni da Udine.

L’opera poetica autorizzata in vita da Paul Celan è stata pubblicata in Italia dalla casa editrice Mondadori, a cura e con un saggio introduttivo di Giuseppe Bevilacqua, nella collana dei «Meridiani» (Poesie,Milano 1998).

Prima pubblicazione di questo testo in: «Comunicare letteratura» 5 (2012), pp. 25-41. La presente versione rivede e amplia la precedente.

Luigi Reitani

(Foggia 1959- Berlino 2021) ha insegnato letteratura tedesca e austriaca all’Università di Udine ed è stato responsabile delle edizioni dell’Istituto Italiano di Studi Germanici. Professore ospite alle Università di Klagenfurt e Basilea, dal 2015 al 2019 è stato direttore dell’Istituto Italiano di Cultura a Berlino. Ha tradotto e curato in italiano opere di I. Bachmann, Th. Bernhard, J.W. Goethe, E. Jelinek, F. Mayröcker, F. Schiller, A. Schnitzler. Tra le sue ultime publicazioni in volume: “Germania europea. Europa tedesca” (Salerno 2014), “Il racconto della Germania. Cronache di letteratura tedesca” (Forum 2015), “Flucht in der Literatur. Flucht in die Literatur” (Picus 2016), “Hölderlin übersetzen” (Folio 2020), “Geografie dell’altrove. Studi su Hölderlin” (Marsilio 2020). Per “I Meridiani” di Mondadori ha curato un’edizione commentata in due volumi dell’opera di Friedrich Hölderlin.

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