Michele Mari, capriccio con figure e tracce di leggenda

Nelle sue Conversazioni con Kafka Gustav Janouch racconta che lo scrittore praghese, «il dottor Kafka» come lo chiamava lui, a proposito di un non meglio precisato autore moderno sentenziò che il tono di un poeta «dipende sempre dalle pale d’altare della sua gioventù». Le «pale d’altare» di Michele Mari sono ben note ai suoi lettori e comprendono, tra le altre cose, dimore e oggetti d’affezione, lari ominosi, memorabilia-feticcio, visitazioni notturne da parte di viscidi e malintenzionati abitatori delle tenebre. Ma soprattutto tonnellate di carta, piramidi di pagine lette, mausolei tipografico-mentali ricolmi di storie e personaggi amati, da Wells agli eroi di Urania, da Stevenson ai fool di Jacovitti. Il culto che lo scrittore consacra a questi idoli è connesso a un esplicito, rivendicato rifiuto dell’età adulta (misera e normalizzata) e alla sacralizzazione della leggendaria stagione infantile: che è poi l’incanto e il tremore dell’ideale, del platonismo cristallino, di contro allo sfacelo del tempo devastatore. Meglio le macerie delle illusioni, dei desideri, delle fibrillazioni fanciullesche piuttosto che la miope, smemorata, bestiale colata lavica del crescere.

Era dunque inevitabile che il campo semantico delle rovine, così fortemente connotato dal pensiero e dall’arte sette-ottocenteschi – subito ci si sovviene delle città sepolte e riaffiorate, della ricerca antiquaria, dell’estetica dei Füssli, dei Friedrich, dei Piranesi con i loro ruderi di immemorabile vetustà – assumesse un ruolo di primo piano nella sua opera. Le maestose rovine di Sferopoli, ultima fatica di Mari, è un titolo che condensa alla perfezione il duplice immaginario di un secolo dominato per un verso dai grandi esumatori del passato (Winckelmann), per un altro verso dagli arditi visionari dell’utopia neoclassica. Lo stesso toponimo, Sferopoli, riecheggia chimere architettoniche come il folle cenotafio di Newton firmato da Étienne-Louis Boullée, o il Progetto per una casa delle guardie campestri di Claude-Nicolas Ledoux. Eppure la civiltà dei Lumi occupa un posto piuttosto marginale nel libro, e anche la metropoli scomparsa è menzionata solo di sfuggita. E allora, perché questo titolo?

Étienne-Louis Boullée, progetto per il Cenotafio di Newton, 1784

La risposta, forse, viene dalla copertina. Vi vediamo raffigurato uno scenario naturale, uno scorcio di terra volto in paesaggio fantastico. Nell’angolo in basso a sinistra si accampano due minuscole sagome, due viaggiatori intenti ad ammirare il prodigio geologico: saranno forse Goethe, Lord Byron, Montesquieu… o addirittura il Marquis de Sade che, con un détour nel Grand Tour, hanno deciso di fermarsi a visitare il sito di Sferopoli? Il risvolto di copertina ci informa che l’immagine rielabora graficamente una tavola del trattato Minéralogie des volcans del 1784. Un tomo destinato – spiega l’autore, l’illuminista Faujas de Saint-Fond – a dare sistemazione scientifica a una materia oscura, caotica, quale lo studio dei fuochi sotterranei. L’intento che lo ha mosso, scrive, è stato quello «de se former des idées plus claires, et beaucoup plus distinctes de cette nombreuse suite d’objets, qui effrayoient l’imagination, lorsqu’on jetoit les yeux sur ce vaste tableau, où l’on ne voit que de grandes et lugubres ruines formées par l’entassement d’une multitude de matières de toute espèce, qui ont été longtemps et à plusieurs reprises la proie des feux souterrains».

Questa landa minerale che si staglia davanti al viaggiatore/lettore sbalordito può allora essere letta come una metafora della poetica d’autore: sta per l’incanto e il tremore del platonismo cristallino ridotto, dalla furia eruttiva dei giorni, a un ammasso di grandes et lugubres ruines. «Essendo la vita corruzione ed abiura», si leggeva in Tu, sanguinosa infanzia, «dovrebbe essere altissimamente morale contrapporre alla sua ruina il movimento contrario del riscatto, del disseppellimento affettuoso». Se a questo sommiamo un passo illuminante dei Demoni e la pasta sfoglia («la rovina pirica è inscritta nella genesi del neoclassicismo») ecco che il cerchio, è il caso di dirlo, pare chiudersi: archeologo del proprio immaginario, lo scrittore riporta alla luce con accanito slancio i resti del sogno, facendone materia di piroclastica letteratura. Sferopoli è la sua città celeste, miraggio struggente di un altrove (trascorso) verso cui si anela tornare (nostalgia).

Il libro raccoglie venticinque capricci, venticinque prose brevi estremamente eterogenee (dal racconto al diario, dal dialogo al romanzo epistolare: quasi un’enciclopedia della virtuosistica versatilità dello scrittore milanese) che potremmo definire, con parola d’autore, una serie di variazioni (Variazioni Goldberg è il titolo di uno dei capitoli). Ma il procedimento messo in campo da Mari può far pensare anche a un’altra pratica, stavolta di natura cinematografica: quella, in voga ai tempi del muto, del bagno di colore. In occasione di proiezioni particolarmente prestigiose alcune pellicole venivano virate al verde, al rosso, al giallo, onde ottenere dei cromatismi atmosferici che conferissero particolari risonanze alla materia narrata. Qualcosa di simile fa Mari sin dalla citata copertina, nella quale appunto un’illustrazione scientifica, un tableau esplicativo-catalogatorio, si vela di risonanze fantastico-soprannaturali. E poi, i testi.

Quello di apertura, Strada provinciale 921, riscrive il modello convenzionale della guida tascabile per turisti (in particolare, credo, la Guida d’Italia del Touring Club) volgendolo al seppia di una demonicità strapaesana, a metà strada tra le desolazioni odeporiche lovecraftiane (The Nameless City e dintorni: plaghe maledette, dettagli raccapriccianti) e il sarcasmo gaddiano verso il genius loci elevato a feticcio (con la sua trimurti arcitalica: specialità locali, festività caratteristiche, luoghi da visitare – ingiuntivamente). Il falcone: il nero pece dell’horror più efferato imbratta la novella boccacciana, per cui la storia di Federigo degli Alberighi (Decameron V, 9), invece di concludersi «felicemente», si avvita sui «fieri o sventurati accidenti» del protagonista, riuscendo in un loop infernal-escatologico (come in certi episodi di Twilight Zone). Boletus edulis:una storiaccia di provincia alla Piero Chiara è imbevuta di grottesco affabulatorio, tra contaminazione del maligno (il non reversibile corso della violenza nel folk horror: le fiabe popolari; Stephen King) e il genio di Poe per il salto nel delirio. Il racconto peraltro si incentra su un tema caro all’autore come quello del cibo affatturato, della gastronomia scomunicata (boletus diaboli?),che in toni più leggeri ritroviamo anche nell’operetta morale, in zona dramma buffo (se può darsi un tal crossover), Dialogo fra Leopold Mozart, Wolfgang Amadeus Mozart e un venditore di formaggi. E ancora: Argilla stende una mano di pigmento gotico sul racconto yiddish metafisico-parenetico (infondendovi pure una stilla di sangue sillografo); Panopticon fa gocciare la ruminatio dostoevskianasulla visionaria distopia benthamiana; Le fonti del mondo immerge la filologia nel pop fino ad affogarla in abissi borgesiani; Sghru, gioiello godurioso per docenti frustrati,lovecraftizza l’esperienza puramente surreale di interrogare uno studente-alieno sul cui pianeta, horribile dictu, si ignorano il nome di Foscolo, l’arte sua e persino le più elementari nozioni di metrica. E via dicendo.

Rod Serling in The Twilight Zone (Ai confini della realtà)

Il gioco, estremamente sottile – e dunque bisognoso di un tocco sensibilissimo – funziona per due ragioni, entrambe legate alla mirabile perizia di uno dei massimi prosatori italiani viventi. Al primo motivo abbiamo accennato più sopra: com’è prerogativa dei veri, grandi scrittori, Mari possiede un compatto, coeso, riconoscibile mondo mentale, uno sterminato patrimonio di «pale d’altare», per tenerci all’immagine di Kafka, fittamente stipato in ogni luogo dell’opera. I venticinque capricci funzionano perché ciascuno di loro, pur nell’estrema varietà, è impastato con la stessa materia di cui son fatti gli incubi d’autore, ai quali del resto è dedicato quel diario estemporaneo dell’attività mentale notturna, con le sue brave coincidenze fantastiche (nel senso proprio di autoschediazein), che è il brano Oniroschediasmi.

Il secondo motivo per cui il gioco di Mari regge è la forza dello stile. E penso non solo alla maestria sintattica, alle allusioni e signaturæ auliche rivelatrici di un gusto linguistico impeccabile, ma anche al sapiente ricorso ai meccanismi di genere, come la capacità di dar corso ordinario allo straordinario, la tecnica accelerativo-agonica della surenchère, fino all’ampia gamma dei toni adottati: refertuale, avventuroso, filosofico, tragico, satirico (si veda Il senso della storia, apologo amaro sull’idiozia del presente). Non manca neppure il registro comico, ma di un comico impassibile, raggelato, direi quasi polanskiano, come nel caso degli scambi tra l’ingegner Cippa e la signora Dal Pozzo di Con gli occhi chiusi. I maestri di questa altissima maniera di marca espressivo-espressionista, è chiaro, sono i soliti noti, Gadda, Landolfi, Manganelli: coloro cioè che meglio di tutti hanno saputo intingere la penna nel nero inchiostro delle ossessioni private, sondando maniacalmente ogni implausibile (inattuale, antirealistica, patologica) possibilità narrativa, dissotterrando dai deserti campi della tradizione le parole necessarie ad affabulare mondi extra-ordinari.

Sferopolis delenda est, tuonò Crono, o Efesto, o forse fu Gatanothoa figlio di Ctulhu, Lord of the Volcano: ma nessuna di queste abominevoli divinità può impedirci di visitare le vestigia della città perduta, di tramandarne la leggenda, di abitare con la mente quel nulla d’inesauribile orrore.

Michele Mari
Le maestose rovine di Sferopoli
Einaudi 2021, pp. 176, € 18

In copertina: tavola tratta dal volume Minéralogie des volcans, di Barthélemy Faujas de Saint-Fond, 1784

insegna all’Università di Salerno; si occupa di letteratura euro-statunitense tra Sette e Novecento, con particolare attenzione ai rapporti tra arte della parola e arti della visione. Tra i suoi lavori più recenti “Critica della trasparenza. Letteratura e mito architettonico” (Rosenberg & Sellier 2016), “La musica muta delle immagini. Sondaggi critici su poeti d’oggi e arti della visione” (Duetredue 2017), “Apri gli occhi e resisti. L’opera in versi e in prosa di Antonella Anedda” (Carocci 2020). Nel 2013 l’Accademia Nazionale dei Lincei gli ha attributo il Premio Giuseppe Borgia per i suoi contributi sulla poesia.

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