All’alba di una domenica mattina di settembre, all’interno di Spazio Taverna, ho avuto una conversazione con Giulio Bensasson, artista romano nato nel 1990, per presentare al pubblico le opere esposte per tutto il mese di ottobre all’interno della rassegna Finestra Taverna. Negli spazi di Via di Monte Giordano Giulio ha allestito quattro opere, che appartengono a stili e periodi diversi ma sono accomunate da un sottile filo rosso che una volta seguito diventa una fune. Il suo lavoro colpisce per l’estetica attenta e pulita, ma al contempo stupisce per la potenza di riflessioni che è in grado di suscitare e per la non apparente connessione e coerenza del suo corpus di opere. In questa conversazione i lavori sono stati un sottofondo, uno spunto per affrontare i temi del suo lavoro.
La qualità di Giulio consiste soprattutto nella sua capacità di parlare di tematiche esistenziali, scientifiche e metafisiche con la leggerezza compositiva ed estetica di un fiore che sboccia. Il suo lavoro prende inizio dall’opera Temo che mi sfugga qualcosa del 2017 in cui Giulio, ancora con intenzioni serie, tenta di celebrare il processo di decomposizione in una tragedia che si svolge in due atti: nel primo atto i fiori recisi sono stati messi su carta cotone e posti sottovuoto, quindi esposti dentro un foglio di plastica, per far sì che i fiori possano rilasciare la loro decomposizione sulla carta; il secondo atto è consistito semplicemente nel togliere il fiore dal sottovuoto e dalla plastica e mostrare il fluido, l’impronta lasciata dal fiore sulla carta, simile a un sudario. L’idea di questo lavoro è cogliere e intrappolare la differenza tra ciò che è vivo e ciò che è scomparso. Giulio spiega che “non ci rendiamo conto della piccola differenza che c’è tra un corpo vivo e un corpo morto e mentre la guardiamo non capiamo quale sia poi la differenza reale”. Una sindone priva di connotazioni religiose ma legata a un’ideologia scientifica di osservazione e imitazione della natura che si trasforma (a sua insaputa) in simbolo e icona.

Nel suo secondo lavoro esposto, Slow motion (2017), Giulio tenta di fermare il tempo di una pera, oggetto organico in costante mutazione e deperimento: la scultura richiama il frame di un video immaginario che ritrae un frutto in decomposizione. Anche questo tentativo serio, ma velato di ironia, è una lotta titanica (fallita in partenza) di contrastare la morte, di coglierne un segno che sia eterno. Un tentativo che in realtà sancisce esattamente il contrario delle sue intenzioni: infatti le opere di Giulio, invece di fermare la morte, arrestano il ciclo continuo di rinascita esplicito del mondo organico. L’ossessione dell’umanità di raggiungere l’immortalità si ritrova nelle opere di Bensasson accompagnata dal suo inevitabile fallimento. L’ironia di questi due lavori consiste nel mostrare gli effetti collaterali, grotteschi, di questa operazione.

Con l’opera Come funghi (2021) il percorso di Giulio accoglie l’ironia del desiderio di immortalità umana. L’artista reputa troppo semplice parlare figurativamente dell’uomo e usa un materiale siliconico, utilizzato per il piacere umano e per le protesi estetiche, per intrappolare il ciclo infinito di crescita dei funghi dandogli una condizione quasi umanoide, di escrescenza umana. “Come funghi è appunto un gioco, una sorta di invito: cercare di essere come funghi, riuscire a creare qualcosa di bello dal marcio, dalla decomposizione”.

La ricerca di Bensasson è una costante tensione di equilibrio tra opposti: ordine e disordine, immortalità e decomposizione, creazione e distruzione, ironia e tragicità. Un filo rosso che scorre e attraversa le tappe della consapevolezza umana, dalla scoperta della morte alla ricerca dell’immortalità fino all’ironia. Questo procedere verso l’essenza sarebbe sufficiente per costruire una solida ricerca, ma Giulio si spinge un passo avanti: entra nel contemporaneo, nell’era della complessità e delle sue regole così poco fruibili alla coscienza umana. Con l’ultimo lavoro Giulio non tenta più di rendere immortale ciò che per sua natura è mortale né tantomeno di “accompagnare l’eterna riduzione della materia”, ma coglie la vera essenza dell’immortalità nel fluire delle forme e nello scorrere del divenire.
Le ultime sei opere Senza titolo (2020) sono carte intelaiate su plexiglass sulle quali è stato fatto rimbalzare dell’inchiostro che ha preso forma e si è propagato come un essere organico attraverso un processo di morfogenesi. In questa dimensione microscopica del creato la differenza tra vita e morte si assottiglia; i cicli sono talmente brevi che si riesce a cogliere il fatto che una forma in mutazione non smette mai di rimanere in vita, assottigliando la differenza tra ciò che è naturale e ciò che è creato artificialmente.
Con il suo lavoro Giulio ci spinge ad imitare quei comportamenti naturali che appartengono al nostro essere organico, vegetale e minerale: “l’auspicio è che possiamo essere come funghi, scegliere più direzioni contemporaneamente senza prendere solo una o l’altra”. “Dal punto di vista spirituale, emotivo, di connessione, dovremmo muoverci in tutte le direzioni”, ricordando che la maggior parte di ciò che siamo non è razionale e che le sovrastrutture in cui siamo immersi dalla nascita possono essere superate ricordandoci che “se non avessimo un contenitore saremmo liquidi, avremmo la stessa forma delle macchie”.
Con queste quattro opere esposte nella Finestra Taverna Giulio tesse trame insolite del processo creativo e delle sue capacità di giungere al successo. Ci mostra quanto sia sottile la linea tra la perdita e il successo, tra vita e morte; e come l’una può trasformarsi nell’altra quando riusciamo a seguire le regole del nostro procedere organico e non solo di quello razionale. Ci avvicina alla scienza senza intrappolarci nello scientismo, rimanendo aperti alle potenzialità del fallimento. Il tutto si risolve in un unico paradosso: “se ho l’obiettivo di fallire cosa succede se ci riesco?”

In copertina: Giulio Bensasson, Slow Motion, 2017 (particolare)