Attraversamenti Multipli 2021, “everything is connected”, è un festival di teatro danza, performance, video, fotografia, site specific nell’ambito dell’estate romana, che si svolge da alcuni anni nell’isola pedonale di Largo Spartaco, al Tuscolano III progettato da Adalberto Libera (allora dirigente dell’Ufficio progetti della Gestione INA-Casa) e costruito fra il 1950 e il 1960 tra la via Tuscolana e l’area archeologica del Parco degli Acquedotti, costituito dalle unità di abitazione orizzontale (ispirate alle abitazioni tipiche del Marocco). Questa nota “architettonica” è rilevante in quanto caratterizza l’habitat in cui si insediano le attività di Attraversamenti Multipli che privilegiando gli spazi urbani, “una miscellanea socio-culturale dove artisti performer spettatori si scambiano qualcosa”, trae vantaggio dalla dimensione sociale del complesso, con case basse, strade pedonali, panchine, uno spazio adatto alle diverse attività del festival dove “si può stare in piedi, seduti su sedie, muretti, per terra, affacciati alle finestre oppure da un’auto in sosta”, scrivono nel volume omonimo Alessandra Ferraro e Pako Graziani (ideatori e realizzatori dal 2001 di questo “viaggio tra gli orizzonti mobili delle arti performative contemporanee”) pubblicato quest’anno da Editoria & Spettacolo.
Lo spettacolo di Roberto Latini, In Exitu (testo di Giovanni Testori, musiche di Gianluca Misiti, luci di Max Mugnai), ha trovato dimora al garageZero, un centro sociale nel complesso di Largo Spartaco che accoglie, discendendo lentamente verso lo spazio sotterraneo in una sorta di propiziazione al rito, quegli spettacoli che non si adattano alla fruizione oper air urbana. Con In Exitu (1988), lo scrittore mette in scena sé stesso nel ruolo di “scrivano” il cui potere è quello di dare la parola a un essere umano (un drogato) che viene rifiutato da una società che a sua volta egli rifiuta. Il mondo-teatro di Testori è abitato da figure degradate, da vittime: “Io penso, o meglio sento – afferma lo scrittore – che è lì dove abita Cristo. Anzi io credo di avere avvertito che forse nei dementi, in coloro che riteniamo privi di capacità speculativa, lì risiede la massima intelligenza, perché essi sono i veri depositari di Cristo, i poveri di spirito e con loro tutti quelli che soffrono per passione, per mancanza, per libertà, per malattia […], vittime di una condizione di vita sorda e cieca, di una società che strozza le domande di libertà, e cerca di cancellare il senso della nascita e il senso del peccato”.
Nel teatro di Testori i personaggi non agiscono, sono raccontati; e fra un flusso di parole si dipana la storia che li evoca. È proprio il raccontare ciò che dirotta la dimensione drammatica in epica, e trasforma la scena da concreta in fantasmatica, rendendo indiscernibile il limite fra pensato e agito. È questo il potere del teatro: aprire il sipario su una scena animata dalla sola presenza dell’attore che dà corpo alla parola, per esibire una ferita dalla quale si riverbera rabbia, preghiera, insulto, supplica, “luogo in cui si enucleano le domande primarie sull’esistenza, sul destino, su tutto. Il luogo dove si sgozza l’agnello” (La parola, come? Tre conversazioni con Giovanni Testori, in “Comunicazioni Sociali”, 3, settembre-dicembre 2002).

Lo spazio teatrale è luogo di sacrificio, immolazione e purificazione mediante la parola che attraversa il corpo dell’attore e rinasce sacra come verbo. Nei testi per il teatro di Testori (la “trilogia degli Scarrozzanti” composta da Ambletto, Macbetto ed Edipus) l’elemento parodico struttura il testo che è una riflessione sul teatro, condotta dal maestro-regista-scrittore che guida il gruppo di attori a scoprire la verità dell’arte teatrale, custodita nella parola. In sintonia con Pasolini, Testori si pronuncia per un teatro in cui il testo letterario si incarna nella voce-corpo-presenza dell’attore; superando l’artificialità del “parlato italiano medio” che Pasolini come Testori aborriscono: “tutto ciò che di istintuale e di atavico e di primitivo e di degradato, sino al confine dell’animalità, io voglio esprimere, in termini di dialogo, su un palcoscenico, non potrei farlo passare attraverso l’italiano normale, non avrebbe senso. Perciò dissi una volta che bisogna mettere l’apocalissi nelle parole, distorcerle, squartarle, scuoterle”. La sua lingua è composta con francesismi, arcaismi e latinismi, il lessico della liturgia sacra, un mélange in cui la parola diventa gesto, corpo e azione dell’attore: “la mia è una lingua spontanea che sgorga da dentro, quasi un riaffiorare dei miei avi. Le parole che usiamo evocano solo la morte, non fremono, non vibrano, non suscitano alcuna sensazione. Il linguaggio, invece, deve essere fisiologico, creare tensione fra chi parla e chi ascolta”.
Con la scrittura di Testori Roberto Latini trova una naturale sintonia in quanto mette in azione uno spazio psichico, fatto di apparizioni, ombre, ossessioni, che si manifestano sulla scena come voci in falsetto, voci dal timbro basso, voci naturali, voci strozzate, voci amplificate dal microfono. Situata nel corpo, la parola per Latini è necessariamente frantumata, reinventata metricamente, per cui le tessiture verbali vengono scomposte, dilatate, riverberate tecnologicamente, ripetute tante volte giocando con i suoni delle consonanti, con delay lunghi, mescolando voce naturale e voce travestita, modificata nel volume, nel timbro, con effetti di eco, assolvenze, dissolvenze. La partitura sonora creata da Gianluca Misiti, con parti dissonanti, frammenti dall’Aida di Verdi (“se quel guerrier io fossi”: la frase che il protagonista, il Riboldi Gino, attribuisce al padre), riverbera ariosità piuttosto che cupezza e malinconia, in virtù anche del motivo melodico che ricorre nello spettacolo e che, utilizzando una strumentazione classica (pianoforte e archi), addolcisce il buio del mondo che affiora dal dire di Gino che, per un effetto simile alla metafonia, parla dall’aldilà.

La drammaturgia vocale dell’attore, onde di energia che danno forma e ritmo al volto, alle parti basse del suo corpo, trova nel testo di Testori un terreno proprio. Per Latini comporre uno spettacolo (al di là dei ruoli convenzionali di regista, attore, drammaturgo) implica “essere noi ‘dentro’ il loro discorso”: significa che l’attore-autore-cantante-poeta ha introiettato il testo, l’ha incarnato, e questo embodiment si trasmette nella performance attoriale, diventa respiro e plasma le “temperature” della voce, consapevole che non siamo noi (come riportato sul velatino dei Giganti della montagna): le voci (evocate dall’attore) ci abitano. Non è la voce del logos, del testo, del capolavoro di Shakespeare o Pirandello, non è la voce dell’altro. È questa la grande frattura che ha scavato Carmelo Bene: non riferire, ma ferirsi con la phoné, non la voce del poeta, ma le tante voci-al-plurale che si stratificano nella psiche dell’attore. Per Roberto Latini il testo è un’occasione e bisogna occuparlo con il proprio mondo. Questa operazione segna un tragitto dal testo dell’autore alla voce dell’attore che si annida nei meandri del suo corpo-mente, per cui si carica, si confonde, si mescola, si impregna di umori e sensazioni che vi si sono depositati e da cui fuoriesce con le incrostazioni, le colorature, le sovrapposizioni, le lacerazioni che appartengono a quell’attore- autore, corpo-voce.
In In Exitu Latini-Gino parla dall’aldilà (è vivo, reale, hic et nunc solo quando è lo scrittore, Testori, che parla in terza persona della figura che ha creato), la sua vita non pulsa più. Infatti in scena Latini-Gino ha gli occhi chiusi, è un veggente che si appoggia a un bastone – la sua asta di microfono, che non brandisce questa volta come un cantante rock –; la sua postura, è piegata, reclinata verso il basso, si appoggia alle pareti per trovare un sostegno. È un trapassato che parla e racconta della sua vita che è la sua morte.
In copertina: Giovanni Testori