1.
Chi ha meno di cinquant’anni la chiama BNF. Chi ne ha di più continua a chiamarla BN, senza la F, perché così si chiamava la vecchia biblioteca di rue Richelieu, quella di Marx, Benjamin, Bataille o Foucault. La chiama BN anche per far capire che ha fatto in tempo a frequentare la vecchia biblioteca e a sedersi dove si sono seduti loro, ma chi ha meno di cinquant’anni non sa che nella vecchia sede mancava la F, non coglie la finezza e scambia lo snobismo per un errore. Qualcuno viene qui da quando la nuova sede esiste, dal 1995, e lo fa più o meno ogni estate, quando la BN si riempie di stranieri e diventa, dicono i parigini, la Bibliothèque des Italiens, per assonanza col Boulevard des Italiens, quello dove recitavano gli attori della commedia dell’arte, i buffoni per antonomasia, Les Italiens insomma. Veniamo qui perché da noi non esistono le biblioteche ma esiste invece l’estate e Montesquieu dice che la civiltà è possibile solo nei climi temperati.
A questo punto si potrebbe parlare di architettura (l’ambivalenza che l’architettura della BN suscita in chi la abita; quello che Sebald scrive in Austerlitz è molto molto parziale) o dell’idea di biblioteca, di come la BN esasperi il tratto di separatezza che è implicito nell’idea di biblioteca. Si entra la mattina, si esce la sera; per farlo occorrono circa mille passi; bisogna superare quattro porte antincendio, tre tornelli, due rampe di scale mobili, un metal detector e un controllo antiterrorismo; lo zaino va consegnato a un guardaroba (ma il virus ha trasformato il guardaroba in una serie di armadietti) e sostituito con una borsa di plastica trasparente, di Stato, fornita dalla biblioteca medesima (ma il virus l’ha trasformata in un sacco in tela che ognuno si porta da casa). Una volta usciti ci si ritrova su un basamento di teak sopraelevato, scivolosissimo quando piove, a lungo rimasto deserto e da qualche anno occupato da giovani, a maggioranza non caucasici, che lo usano per ballare. Sul basamento che fa da tetto alla BN le scuole di danza tengono corsi e preparano coreografie; i vetri che ricoprono i grattacieli dove stanno i libri funzionano da specchi. Sotto la spianata ci sono le sale di lettura, l’Haut-de-jardin aperto a tutti e il Rez-de-jardin riservato ai professionisti. Alle sette di sera, quando la biblioteca chiude, la differenza di classe, etnia e interessi fra chi esce dalle sale e chi balla sul tetto è un’allegoria che tutti capiscono.
La vera BN è il Rez-de-jardin, senza discussione, ma il giardino da cui prende il nome è inaccessibile, aperto solo verso l’alto e tenuto sottovetro, letteralmente. I lettori stanno dall’altra parte dei finestroni e possono solo guardarlo quando entrano, escono o vanno in bagno. All’inizio gli uccelli che ne avevano preso possesso si schiantavano contro le superfici trasparenti e rimanevano a agonizzare sulle grate che raccolgono l’acqua piovana ai bordi del giardino. Poi qualcuno, all’inizio del XXI secolo, ha messo delle sagome sui vetri, le stesse che si vedono sulle barriere antirumore delle autostrade, e la maggioranza degli uccelli ha capito. In origine il giardino era privo di animali terrestri, poi la direzione ci ha impiantato dei conigli, da qualche anno pure delle capre. L’impressione è che si punti allo zoo, a creare uno zoo.

2.
Nella Recherche le porte che aprono il passato non sono una ma due. Di solito si parla solo della prima, le intermittenze. Proust le sopravvaluta: sono molte, è vero, ma nessuna dura veramente; l’attimo dopo viene sempre invaso dal presente e dal suo potere adesivo (la spesa da fare, il messaggio cui rispondere, la finale olimpica da guardare in streaming sul computer) e l’intermittenza si richiude. La seconda non ha un nome ma si dovrebbe chiamare sopralluogo. La più estesa scena memoriale della Recherche per esempio, la matinée Guermantes, è un lungo sopralluogo: Marcel torna in società e rivede nello stesso salone di un tempo le stesse facce invecchiate e capisce, dalle reazioni dei volti che lo guardano, che il tempo ha trasfigurato anche lui. Le intermittenze aprono il tempo ritrovato, i sopralluoghi aprono il tempo perduto, il tempo come morte liquida, impercepibile nella vita quotidiana ma evidente quando si ritorna anno dopo anno nello stesso posto, fra le stesse persone o, peggio, fra persone diverse che occupano lo stesso luogo.
Vent’anni fa era intollerabile che esistesse un tempo perduto perché era intollerabile che le persone cambiassero diventando qualcosa, qualcosa di finito. Nei momenti migliori ne nasceva un senso di tragedia, nei momenti peggiori di elegia, la stessa che rende melanconici i melanconici. Era come se avessimo perso qualcosa che sarebbe stato difficile spiegare, forse l’onnipotenza che si dissolve quando il desiderio (che è l’infinito, anzi ne è la vera immagine finita, molto più degli spazi oltre la siepe) si scontra con la realtà. Poi è subentrata un’impressione più lucida e più cattiva (la lucidità ha a che fare col sadismo), l’impressione di ridire le stesse frasi e di rifare gli stessi gesti con persone diverse, la sensazione che non esistano individui ma attori e fantasmi, funzioni che impersoniamo per qualche tempo prima di sostituire o di essere sostituiti. Sono le sette, la voce registrata dice che la biblioteca sta per chiudere; riattraversiamo le porte antincendio, riconvertiamo il sacco in zaino, ritorniamo su. Oggi emerge un’impressione ancora diversa, l’impressione che problemi come questi siano solo ciò che rimane dell’adolescenza, che non abbiano senso o non ce l’abbiano più, e se ora volessimo essere lucidi fino in fondo dovremmo ammettere che stiamo pensando solo a cose prossime mentre guardiamo le ballerine e andiamo verso la linea sei.