“E forse fuori, belle cose sempre più belle”: dopo la Quadriennale d’arte 2020

Cinque corpi nudi intrecciati, ritratti di spalle con un filo d’inchiostro netto e intricato, un’orgia grafica su cui si staglia, in un maiuscolo infantile e aggraziato, il titolo Arti plastiche e figurative. Il disegno di Sylvano Bussotti, una delle ultime tappe del percorso che si snodava all’interno del Palazzo delle Esposizioni, sembrava racchiudere in sé, distillati, molti dei temi della Quadriennale d’arte 2020 FUORI, curata da Sarah Cosulich e Stefano Collicelli Cagol.

I corpi del disegno erano gli stessi con cui ci si confrontava in mostra, tutti impegnati nell’affermare la propria presenza, sempre disposti a intrecciarsi tra loro, ma senza mai rinunciare alla individualità del proprio ductus. Le “arti plastiche” – quelle che danno forma modellando – scandivano il ritmo di un percorso intimo: le presenze totemiche di Isabella Costabile, l’artigianalità delle lettere femministe di Raffaela Naldi Rossano, i corpi esausti di Michele Rizzo, gli organismi scivolosi di Benni Bosetto e il fragolone livido e carnevalesco di Valerio Nicolai confermavano l’attualità e la potenzialità generativa, intrinsecamente erotica, dello scontro tra l’azione dell’artista e la resistenza della materia: «Chiudere gli occhi toccare qualcosa colla mano quel toccare è scultura» recitava uno dei fogli di Giuseppe Chiari allestiti a parete.

Su questa linea si innestava, sovrapponendosi inestricabilmente come nell’orgia di Bussotti (o come nel gioco del ripiglino evocato da Cosulich in catalogo), il percorso assertivo delle “arti figurative”, espressione di un visivo sorprendentemente coerente: acido, caustico, gassoso, psichedelico, cangiante, glam. Le creazioni surrealmente radicali di Cinzia Ruggeri con cui si apriva la mostra erano esaltate dall’alone violaceo dei neon, un’intuizione cromatica che preparava all’infilata ottico-percettiva delle trentotto tele Bleu Carnac di Irma Blank; un momento di respiro tra le iridescenze argentate di Lorenza Longhi e si era subito catapultati nel bianco ottico, tessile e partecipato del Respiro di Cloti Ricciardi, rispecchiato simmetricamente dall’altro attentato al cubo bianco presente in mostra, il video No Head Man di Monica Bonvicini; a separarli e unirli, le costruzioni di specchi e neon di Nanda Vigo.

Quadriennale d’arte 2020 FUORI, veduta dell’allestimento. In primo piano, Lorenza Longhi; sullo sfondo, Irma Blank, courtesy Fondazione La Quadriennale di Roma, foto DSL Studio

Correva parallela l’indagine sulla pittura: generazioni, individualità, tecniche e percorsi diversi – come quelli di Cuoghi Corsello, Diego Gualandris, Amedeo Polazzo e Gugliemo Castelli – si rincorrevano tra le sale e oggi si sovrappongono nella memoria, innescando equivoci, promiscuità e cortocircuiti, come a sprigionare le cariche accumulate nel circuito di bachelite di Micol Assaël. La sintesi dell’idea coerente di visivo che questa Quadriennale trasmetteva – il momento in cui il pittorico toccava il luminoso, l’acido il gassoso, lo psichedelico il cangiante – era racchiusa nel grande ballatoio della rotonda: dal basso, soprattutto alla sera quando fuori si attivava il respiro di Norma Jeane, saliva l’alone violaceo della sala di Ruggeri; a separare il visitatore dal vuoto, una griglia metallica su cui si innestavano ventisei tele di Salvo, coi riflessi acidi dei lampioni che toccavano trasfigurandoli oggetti, spazi e personaggi; quelle luci solide trovavano un corrispettivo immediato nei Confident e Shy Led di Davide Stucchi, celati e esaltati da scatole di cartone e involucri di pluriball, in un dialogo che arrivava a farsi palpabile tensione elettrica: «Luci al neon / Intermittenza come falso e vero», come cantavano i Matia Bazar nel 1984. FUORI non era, e non poteva essere, soltanto orgia plastico-figurativa: il titolo della mostra, a un tempo locativo apotropaico e omaggio al Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano, indicava sin da subito una delle tante, forti linee contenutistiche: il visitatore, in un battuage visivo facilitato dagli interventi sul Palazzo di Alessandro Bava, verificava di volta in volta la disponibilità erotica degli oggetti cui decideva di dedicare rapide occhiate (massimizzare gli approcci nelle due ore a disposizione) o sguardi insistiti: i ricami a punto lanciato di Maurizio Vetrugno, i petali nuziali di Petrit Halilaj e Alvaro Urbano, la dorata ipertrofia muscolare e esistenziale dell’Ercole di Zapruder, l’attrezzeria eroticamente sospesa di Alessandro Agudio, le lacrime raccolte e curate da TOMBOYS DON’T CRY, le parrucche semoventi di Anna Franceschini e la missiva a mezzo rider di Giulia Crispiani proponevano una riflessione articolata, plurale, difficile, sofferta e sofferente sull’erotismo e l’intimità oggi.

Le storie individuali raccolte in FUORI si innestavano, interrogandola, sulla Storia: i numerosi recuperi, sostenuti da un imponente lavoro di scavo negli archivi dell’istituzione, invitavano a riflettere sui meccanismi di costruzione e definizione del canone dell’arte italiana contemporanea, costringendo il visitatore a interrogarsi su come poter riattivare, oggi e in funzione dell’oggi, i relitti di uno ieri rimosso, perfettamente incarnato dai volumi metamorfici e proteiformi di Lydia Silvestri. In un contesto – quello italiano – in cui la separazione tra storia dell’arte e critica d’arte rischia di apparire insormontabile, simili operazioni impongono un momento di riflessione, facilitato dai testi pubblicati in catalogo.

Cloti Ricciardi, veduta dell’installazione, Quadriennale d’arte 2020 FUORI, courtesy Fondazione La Quadriennale di Roma, foto DSL Studio

Partendo dall’invito di Marylin Strathern (Reproducing the Future, 1992), fatto proprio da Donna Haraway e quindi citato nel suo contributo da Cosulich, a «capire quali storie raccontiamo per raccontare altre storie», diventa importante comprendere quali storie questa Quadriennale abbia raccontato per raccontare la sua Storia: non si tratta, semplicemente, di elencare i recuperi di figure dimenticate resi possibili dalla mostra, ma di interrogarsi su come la storia dell’arte italiana contemporanea, nei contenuti e nei metodi, sia stata utilizzata per raccontare il presente. Nel suo contributo Collicelli Cagol evoca la Storia per eccellenza, quella di Ida Ramundo vedova Mancuso raccontata da Elsa Morante. Di quella storia, La Storia, al di là del contenuto interessa il metodo, l’alternarsi sostenuto e sistematico di universale e di individuale, di cronologia storica e di vicende personali. Quelle fitte cronologie con cui si aprono i capitoli del romanzo del Settantaquattro funzionano un po’ come la serie di trentaquattro immagini dell’ultima decade con cui si apre il catalogo della mostra: radicano lo sguardo, impongono una postura, incardinano la vicenda.

Una volta collocati universalmente, e dunque posizionati nel tempo, possiamo immergerci nell’individuale e nell’atemporale, nelle vicende di Ida o negli esiti delle ricerche degli artisti e delle artiste parte di FUORI: la narrazione, a quel punto, appare ineludibile, le vicende incontrastabili, gli esiti inevitabili. E in quella narrazione, allora, anche i sogni diventano solidi, pesanti, asfissianti, inevitabili: la Storia dà concretezza alle individualità, rispondendo attivamente al modo in cui si decide di raccontarla. I testi in catalogo offrono un campionario prezioso di modi possibili: Corrado Levi, con il doppio modello di Una diversa tradizione e della Storia palpitante e violenta, è evocato sia da Dafne Boggeri, sia da Collicelli Cagol; Giorgina Bertolino richiama, tra gli altri, i «copioni diversi» di Anna Bravo e le «ri-storie» di Maurizio Calvesi. Michele D’Aurizio raccoglie una frase emblematica di Caterina Marcenaro, protagonista dei celebrati riallestimenti albiniani di Palazzo Bianco e Palazzo Rosso: «Il passato può prendere vita solo perché ne fraintendiamo le ragioni», una sentenza che fa risuonare un’altra scheggia anni Cinquanta incastonata nel catalogo, i due versi dalla tredicesima sezione di Laborintus di Edoardo Sanguineti che Eugenio Battisti pone in esergo al suo L’antirinascimento: «Oh incanto universale del valore / ogni storia è una generazione equivoca dell’ispezione».

Fraintendimento ed equivoco rischiano sempre di apparire come i due mostruosi precipizi in cui è destinato a cadere qualsiasi tentativo di riattivazione: quando lo sguardo attuale permette di recuperare un soggetto escluso dalla Storia, inevitabilmente la contemporaneità inquina, e inquinando rivitalizza, il soggetto bloccato in un passato astorico. Proprio da Battisti, maestro della compenetrazione tra passato e presente, arrivava nel 1967 una preziosa indicazione di metodo, anche questa citata da Giorgina Bertolino: «Dopo la op art io posso rileggere, con sensi più scaltriti, le splendide decorazioni marmoree del romanico toscano; ma esse, da sole, non mi avrebbero portato alla op art». Cinquant’anni dopo cos’è che è possibile e legittimo rileggere dell’arte italiana degli anni Sessanta e Settanta alla luce di quello che sta succedendo negli studi degli artisti e nelle sale della Quadriennale? Anche in questo caso, i testi in catalogo offrono possibili risposte e modelli di rilettura: dalle «storie tutte diacroniche» raccolte, curate e raccontate da Michele Bertolino, all’invito di Francesco Ventrella – mutuato da Adrian Rifkin – a «battere nella storia dell’arte» ovvero a «fare una lettura queer delle storie dell’arte fuori dalla storia dell’arte» che «non significa semplicemente promuovere uno sguardo differente su una narrazione già nota, ma darci una seconda occhiata, con la coda dell’occhio, per cercare di coglierne i segnali di coloro che hanno vissuto queste storie». Nel caso servisse un modello di ri-storia, di riattivazione legittima, funzionale e motivata del passato, probabilmente il luogo in cui cercarla sarebbe proprio l’insieme di produzioni storico-culturali queer del secondo Novecento, un insieme di metodologie, approcci e posture generate dal desiderio di creare comunità attraverso la Storia che potrebbero contaminare proficuamente altre storie e storie dell’arte.

Non mancano, poi, gli esempi di riattivazione consapevole dell’archivio, come l’almanacco di Luca Scarlini o il saggio di Lucrezia Calabrò Visconti, in cui un frammento minimo ma significativo della storia dell’istituzione permette una riflessione articolata sul presente, senza temere mistificazione, equivoco o fraintendimento, in cui il contatto col dato storico trascina fuori e innesca un sistema di riferimenti suggestivi che rivela le potenzialità evocative e produttive dell’analisi retrospettiva. L’indicazione di metodo, la proposta di postura storico-critica e l’invito a ricercare nello spazio interstiziale tra le varie discipline il nucleo radicale delle espressioni creative di un’epoca che vengono dal catalogo sono preziosi: uniti alle scelte fuori canone della mostra, possono ispirare trasversalmente le pratiche artistiche, l’attività critica e la ricerca storico-artistica italiane: quello che emerge è un modo di fare storia che salva e tutela le individualità e i percorsi eccentrici. La definizione data del catalogo, «un’antologia», mette in luce il doppio valore del termine: non solo raccolta di storie, ma anche etimologicamente raccolta di fiori, e dunque di individualità spiccanti, quei «fiori di campo» – selvatici e spontanei – evocati da Sofia Silva.  Significativamente, anche La Storia di Elsa Morante si chiudeva con un fiore, quello evocato dalla matricola 7047 della Casa Penale di Turi nelle Lettere dal carcere: «tutti i semi sono falliti eccettuato uno, che non so cosa sia, ma che probabilmente è un fiore e non un’erbaccia».

Scontratisi con le opere in un corpo a corpo rapido, erotico e forzatamente impulsivo, riordinati i ricordi e inanellate le storie attraverso il catalogo, diventa necessario interrogarsi sul senso e il funzionamento complessivo dell’operazione. La Quadriennale non è un’istituzione neutra: fondata nel 1927, costituiva il complemento fascista alla Biennale veneziana. Oggetto di continue reinvenzioni, ripensamenti e rielaborazioni susseguitesi per quasi un secolo, la Quadriennale è riuscita a mantenere alcuni dei suoi caratteri originali: su tutti la sede e la presenza quasi esclusiva di artisti italiani. Questo dato in particolare, oggi 2021, solleva importanti questioni di opportunità, relative al valore e al significato del concetto di italianità, da sempre centrale nei processi di definizione e di canonizzazione dell’arte “italiana” contemporanea: a ricordarlo in mostra, oltre al contributo di Stefano Chiodi in catalogo, figuravano gli Stivali Italia di Cinzia Ruggeri. Le tumultuose vicende degli ultimi mesi hanno chiarito come l’avvio di un discorso critico, la riflessione consapevole sui limiti fondativi e ineliminabili delle istituzioni e la presa in carico di una responsabilità storica sopraindividuale (tutte operazioni meritoriamente messe in atto da questa Quadriennale) non possano più essere sufficienti a giustificare la sopravvivenza di apparati istituzionali frutto di un passato mai pienamente rielaborato.

La mostra cercava di agire sull’istituzione dall’interno, forzandone i limiti storici e costringendola con aria di sfida ad assumere una postura innaturalmente trasgressiva che storicamente non le appartiene. Il tentativo è prezioso, il risultato sicuramente valido, il gioco vale la candela; storicamente, la Diciassettesima-ordinale pudicamente rimosso dal nome della mostra, come in certe edizioni anni Settanta della Biennale – Quadriennale d’Arteandava fatta. La sua funzione storica non è esaurita e il panorama dell’arte italiana necessita ancora di un’occasione istituzionale pubblica che sappia offrire periodicamente uno spaccato curato e ragionato delle ricerche artistiche condotte nel Paese; ciò non basta a cancellare le problematicità del contenitore istituzionale. La pandemia ha accelerato i tempi, evidenziato le istanze, acuito le idiosincrasie, radicalizzato gli sguardi, reso irrimandabili i tagli col passato: se davvero si vorrà prima o poi porre in essere una radicale operazione di decostruzione dell’oggetto-Quadriennale, l’edizione in corso potrà offrire spunti preziosi a una nuova edificazione che sappia valorizzare quel bagaglio di conoscenze, competenze e professionalità che l’Istituzione ha accumulato nella sua storia e che messe in moto sono ancora in grado di produrre una mostra come FUORI: necessaria, attuale, bella.

Sulla bellezza di questa Quadriennale occorre infine riflettere. È lo stesso Collicelli Cagol, nel suo testo in catalogo, titolato prendendo a prestito un verso e mezzo di Sandro Penna, a parlare di «una mostra eccentrica, inaspettata e, ci auguriamo, bella», intendendo con bellezza «un filtro attraverso cui leggere l’arte prodotta dagli artisti italiani – anche fuori d’Italia – per rinvigorire l’interesse dei pubblici più diversi». L’operazione è riuscita: la mostra era bella e tra le sue sale sfilavano i pubblici più diversi, con una massiccia – e bella – presenza di giovani e giovanissimi. Interrogandosi sul senso e il significato di questa bellezza, torna in mente una nota caustica di Alberto Arbasino, «Bello: fra le generazioni ideologizzate, detto soltanto per distrazione, sbadataggine, automatismo, faute de mieux. Di palazzi, edifici, meglio “è forte!”. Di mostre e musei, “è grande!”» (Un Paese senza, 1980). Ormai le generazioni ideologizzate hanno lasciato il campo a figli e nipoti, felicemente liberi da arrovellamenti terminologici di questo tipo e certo non preoccupati da una mostra che si definisce programmaticamente bella. Anzi, era proprio quella bellezza a rappresentare il canale di contatto e di attrazione che spingeva gruppetti di adolescenti ad affollare le sale del Palazzo.

Allo stesso tempo, era questa bellezza che rischiava di appannare – complici l’estensione dell’esposizione e la ristrettezza del tempo a disposizione – il contenuto delle opere presentate e il messaggio della mostra nel suo insieme. Il rischio era calcolato e, soprattutto, organico e funzionale al contenuto: le opere e la mostra mettevano in campo una peculiare capacità di seduzione, assorbendo l’attenzione del visitatore con un’estetica in apparenza superficiale, sfruttando poi questo a me gli occhi magico per veicolare la loro drammatica urgenza contenutistica. Il “bello” di FUORI era dunque un bello complicato, mai unidirezionale, sempre ambivalente e intrinsecamente partecipato: il bello che Penna insegnava ad apprezzare nella Lezione d’estetica: «Quando in una notte / buia e serena in una piazza amici / ballano senza donne al suono d’una / fisarmonica e tu non sei di loro; ebbene questo / non è bello per te? È anche bello / per un vecchio signore che si chiama / critico e trova molte cose belle, è andato / anzi più avanti nel trovare al mondo / e forse fuori, belle cose sempre, / più belle; eppure dice con amore: “quanto è bella / questa poesia”. E tu / mi guardi e non mi dai neppure un bacio?». Dal ricordo della mostra e dalla lettura del catalogo si esce rassicurati: il panorama là fuori è drammatico, l’oggi ci ha a lungo costretti dentro, ma dentro FUORI le energie continuavano a fluire, incanalandosi lungo direttrici ben individuate. La coerenza visiva dell’insieme assicurava nuova forza alle opere, oggetti «lontani indipendenti liberi ingenui appassionati naturali antagonisti» (ancora Chiari) che ci raccordavano a un passato indigesto, a un presente complicato, a un futuro bello, riattivando così il potenziale onirico della Storia. Prima di uscire su via Nazionale, avevamo dato un ultimo sguardo alle figure che si intrecciano nel disegno di Bussotti: «E tu / mi guardi e non mi dai neppure un bacio?» è la formula con cui ci avevano catturati e portati Fuori.

In copertina: Sylvano Bussotti, Arti plastiche e figurative, 1990 (1961), china su carta, Courtesy Archivio Sylvano Bussotti

(Livorno, 1996) è allievo del corso di perfezionamento in Storia dell’Arte presso la Scuola Normale Superiore, con un progetto di ricerca dedicato alla ricezione del movimento surrealista in Italia tra anni Sessanta e Ottanta. Già allievo del corso ordinario della Scuola Normale, si è laureato presso l’Università di Pisa discutendo una tesi dedicata alla rivista «La Città di Riga».

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