Gli sguardi di ‘Voce a vento’. Conversazione con Claudia Losi

13/10/2021

Lo dico sinceramente: Claudia Losi ha un viso luminoso e allegro, e la sua persona, da cima a fondo, emana soddisfazione, felicità e un brio infantile capaci di contagiare il suo interlocutore. Artista prolifica a partire da un immaginario personale, libero e poetico, Losi crea situazioni che scardinano la quotidianità, esperienze che favoriscono dinamiche di relazione e partecipazione comunitaria, incontri inaspettati che offrono inneschi su come osservare ciò che ci sta attorno in modo diverso.

Le sue opere – che siano installazioni site-specific, sculture, performance, ricami, opere su carta e fotografie – sono eleganti, ospitali, pluridisciplinari. Sono delle strade aperte all’incontro tra uomo e paesaggio, tra organismi vegetali e mondo animale, tra natura, scienze, memorie personali e collettive, storia e antropologia. Spesso le sue tante idee danno la possibilità di vivere esperienze commoventi, come nel caso della performance Voce a vento (2018) di cui parlo a lungo con lei all’interno di una conversazione avuta su Skype lo scorso luglio e riportata qui di seguito.

Nel raccontare l’origine, la realizzazione e gli sviluppi di questo articolato lavoro corale, Losi chiarisce il suo sguardo sul significato di paesaggio, sulle condizioni affinché ci sia cura, sull’idea di memoria “mobile”, oltre a soffermarsi sulla sua metodologia e pratica di scambio nelle esperienze collaborative e ambientali.

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Cecilia Guida: Claudia, vorrei iniziare dal punto di partenza di Voce a vento. Come è nata l’idea del progetto?

Claudia Losi: Nel 2017 sono stata invitata dall’associazione Jazzi a realizzare un progetto nel Parco del Cilento, Vallo di Diano e Alburni. La curatrice Katia Anguelova mi ha chiesto di andarci per capire insieme se avrei potuto lavorare a un intervento che fosse, in un qualche modo, fortemente legato ai luoghi in cui l’associazione Jazzi, mia committente, desiderava operare. La zona individuata era quella intorno a Marina di Camerota, nella parte interna del Parco, ovvero un’area di una bellezza straordinaria ma meno conosciuta rispetto alle zone costiere. Nello specifico, nella prima fase abbiamo fatto una serie di sopralluoghi sul Monte Bulgheria durante i quali abbiamo ascoltato, parlato e camminato accompagnate spesso da abitanti locali che conoscevano benissimo il territorio.

Sin dalla prima visita mi ha colpito il modo in cui il suono si muove su quel versante della montagna, che a una certa altezza è totalmente priva di alberi e popolata solo da una vegetazione bassa. È un’area particolarmente ventosa la cui caratteristica consiste nel fatto che mi è sembrata essere disegnata e “ricomposta” da voci e suoni provenienti anche da luoghi distanti. Il suono e il vento sono stati i due elementi principali che hanno segnato il mio primo “incontro” con il territorio; in quei giorni Francesco Franceschi, il fondatore di Jazzi, durante una conversazione mi ha gettato il guanto chiedendomi di fare una “seconda balena”. Ricordo che stavo per svenire! Comunque ho accettato la sfida o, come si dice, ho indossato il guanto, con la controproposta di costruire pian piano, partendo dai suoni, una narrazione che fosse capace di raccontare il luogo e nello stesso tempo di uscire da esso, in altre parole una storia che fosse lì e non lì. Un obiettivo che può sembrare contraddittorio ma che riguarda il tipo di sguardo che si decide di avere su un luogo e il conseguente processo di rielaborazione dell’esperienza vissuta – un tema enorme, direi infinito, un mio pallino fortissimo che mi segue da anni!

CG: Da anni la tua ricerca è incentrata sul rapporto dell’uomo con il paesaggio, sugli aspetti storici, sui segni e sulle tracce sedimentate nella memoria dei territori in cui viviamo. Penso per esempio a Whalebone Arch (2020), a Ossi (2019), a Dove il passo (2015), al più noto Balena Project (2004-ongoing) e a Tavole Vegetali (1995). In Voce a vento hai introdotto un medium che fino a quel momento non avevi mai adottato, ovvero la voce, e nello specifico dei canti corali scritti da te, musicati dalla cantante e compositrice Meike Clarelli e cantati da trenta donne emiliane e cilentane mentre percorrono lentamente i sentieri pietrosi e ventosi del Monte Bulgheria. In che modo questi canti a più voci sono in relazione con il paesaggio cilentano?

CL: L’idea di avere più voci che abitassero effettivamente, fisicamente, il monte è diventata la traduzione sonora ma anche visiva di ciò che intendo per paesaggio, ovvero un ventaglio di possibili sguardi sui luoghi. Se il paesaggio si compone di sguardi e da dove ci si situa rispetto a quello stesso luogo, così il modo in cui si decide di usare la propria voce e ciò che si dice attraverso la propria voce fa sì che il corpo diventi esso stesso paesaggio. In qualche modo il nostro corpo si radica nei luoghi in cui si trova: banale a dirsi ma un corpo che cammina su un monte non è la stessa cosa di un corpo in casa o a letto. Il corpo non è neutro, non è qualcosa che si può spostare come un bicchiere da una parte all’altra mantenendo la stessa forma, ma muta perennemente e in funzione di ciò di cui fa esperienza. Respiriamo aria diversa, il nostro corpo è in continuo mutamento, è un paesaggio in movimento e la voce è la sua esternazione, il suo sguardo sull’aria che lo contiene.

Questa era la visione a cui ho cercato di dare una forma concreta attraverso un gruppo di donne che, a un certo punto, avrebbe attraversato i sentieri del Monte Bulgheria e cantato una serie di testi scritti da me e poi messi in musica da qualcun altro. Queste donne hanno ritessuto i canti nel luogo con i propri corpi creando un nuovo paesaggio temporaneo, che non ha lasciato un effettivo segno fisico nello spazio. Spesso faccio fatica a pensare dei segni troppo invadenti in luoghi, come nel caso del Monte Bulgheria, che sono così potenti di per se stessi e che devono essere rispettati. In questi casi preferisco progettare delle azioni temporanee di cui si può conservare memoria.

Voce a vento, performance Parco Nazionale del Cilento, del Vallo di Diano e degli Alburni, 2018

CG: Mi viene in mente che il canto, la danza e più in generale la musica sono espressioni dello spirito dionisiaco in contrapposizione alla razionalità e all’equilibrio apollineo. Il fatto che tu abbia coinvolto in questa performance collettiva solo donne è una casualità o risponde a un’intenzione precisa?

CL: Durante i miei sopralluoghi, che non sono stati neanche troppo lunghi, parlavamo della storia e del tipo di struttura sociale di queste terre. Mi è stato raccontato di come il femminile fosse caricato di una quantità di lavoro, di responsabilità enormi: le donne erano quelle che trasportavano l’acqua e il cibo dal mare alle montagne, percorrendo i sentieri pietrosi del monte con pesi micidiali portati sulla testa, camminando con le mani appoggiate ai fianchi in modo tale da bilanciare e scaricare il peso a terra. Come anfore camminanti su e giù per i pendii scoscesi. Molte donne, ovviamente, restavano a casa, alcune raggiungevano i pastori per qualche mese portando con sé tutta la famiglia. In passato queste zone erano abitate mentre ora solo pochi pastori le percorrono. Ho immaginato il movimento delle voci con le quali le donne si chiamavano da una parte all’altra della valle, insieme ai flauti, agli scampanellii e ai belati, parlandosi dalle finestre di uno jazzo all’altro, chissà cosa si raccontavano… Mi è stato raccontato anche che ancora si tratta di terre molto maschili dove la vendetta e il fuoco vengono utilizzati ancora oggi, e può succedere, per uno sgarro, che qualcuno bruci un ulivo centenario che si trova nell’appezzamento di un altro. Come in tutti i luoghi con una struttura agricola e pastorale di questo tipo, vigono delle dinamiche dove il femminile è messo apparentemente in secondo piano: ruolo fondamentale ma taciuto, non dichiarato mai.

Oltre a questo, è stato importante il racconto intorno alla scuola medica salernitana, che si riforniva delle erbe medicamentose che crescevano in questi monti. Salerno è stato un centro di eccellenza già nell’Alto Medioevo. Qui intorno all’anno 1000 è esistito un personaggio molto interessante, anche un po’ mitico, Trotula De Ruggiero, la prima donna medico della quale abbiamo notizia, almeno nel mondo occidentale, che scrisse fondamentali trattati di ginecologia. Fu una delle prime a parlare di donne come medico donna. Questa figura che conosceva perfettamente l’uso delle sostanze vegetali medicamentose e aveva una conoscenza profonda del territorio mi è rimasta molto impressa. A questo si lega l’incontro con Dionisia De Santis, signora locale che ha una conoscenza straordinaria di questo erbario naturale che è quella zona del Cilento: vederla raccogliere le foglie e fiori e sentire le sue spiegazioni su come mangiarle, sulle sostanze che vi sono contenute e che possono aiutare in determinati situazioni era come assistere a una lezione sul paesaggio partendo da uno sguardo vegetale.

Il coinvolgimento delle donne e le loro voci sono state una conseguenza. Ho sentito questo luogo chiamare una voce femminile in contrapposizione alle voci maschili, potenti e “brucianti”. Sentivo una voce femminile che non fosse solo, per forza, accogliente ma curativa, ctonia, tellurica. E per tutta una serie di fortunate coincidenze ho trovato sul mio cammino Meike Clarelli, cantante e direttrice di cori, che ha preparato un gruppo di donne (prima emiliane, perché Meike lavora tra Modena e Bologna con “Le Chemin des Femmes” e le “Core”, e poi aggiungendo due cori locali, “Kamaraton” e “Vivat”) che quasi inconsapevolmente portavano con sé questa forza.

Non c’era alcuna intenzione chiara e definita che fosse un progetto solo di donne ma è successo che in quel momento questo luogo per me chiamava questa identità vocale in cui si intrecciassero le parole che mi portavo dietro già da un po’. Ovvero quelle legate al lavoro femminile: la grande fatica che attraverso la voce doveva essere stemperata, come per le mondine – mia nonna era una mondina –; mi è sempre rimasta molto impressa questa fatica perenne, l’azione continua del femminile nella cura. Parola che fa quasi paura a usarla adesso perché è diventata una spugna negli ultimi due anni, se ne è fatto abuso. La cura è presenza, curare comporta il fatto di esserci, di compiere azioni d’attenzione.

Voce a vento, performance Parco Nazionale del Cilento, del Vallo di Diano e degli Alburni, 2018

CG: In Voce a vento il tentativo di conoscere e comprendere il territorio si accompagna inevitabilmente a un gesto, o meglio a un’esperienza di riscrittura, seppur temporanea, dello stesso. Quale valore attribuisci ai segni disseminati (le grandi maniche a vento) nei sentieri e ai ricordi di questo attraversamento, individuale e nello stesso tempo collettivo, delle donne che hanno partecipato?

CL: Tenuto conto che ho cucito in studio le maniche a vento prima della performance (lavorandoci anche di notte), quello che mi interessava era di mettere assieme questa idea di voci che vagano, il canto di queste parole che si muovevano nello spazio attraverso queste correnti, con questi oggetti tessuti, questi “inviti per l’aria”. Le maniche a vento sono come delle parole temporanee che hanno abitato questi luoghi perché hanno raccolto quest’aria. Che è transitata, non la fermano o la tengono lì, l’attraversano, sono la sua forma; la forma di queste maniche a vento è nella sua pienezza quando c’è aria. Mi piaceva questa idea: come la parola poetica ha bisogno di situarsi in uno specifico luogo, deve restare ma nello stesso tempo essere transeunte, non essere definitiva – non diventare lapide, allo stesso modo volevo che queste parole diventassero dei segni temporanei (infatti sono rimasti installati solo per tre mesi).

L’allestimento delle 30 maniche a vento è stato davvero molto complesso: dovevano segnare un percorso, una sorta di partitura musicale. Io non conosco la scrittura musicale ma l’idea di una partitura la cui punteggiatura si componeva di questi segni visivi che a loro volta assumevano una forma piena grazie all’aria una partitura aerea da un certo punto di vista – l’ho trovata importante per indicare un sentiero che di fatti è stato abitato solo da alcune delle voci. La processione è stata un atto rituale, una sorta di omaggio rituale al luogo che attraversavamo.

L’aspetto della memoria individuale e collettiva di cui mi chiedi è importante e riguarda chi ha esperito quest’azione e chi l’ha realizzata. Il punto è stato trovare una modalità che permettesse il riverbero di tale esperienza collettiva oltre all’evento, una eco anche trasformata tenuto conto che non si può replicare un’esperienza di quel tipo, come qualunque esperienza non potrà mai esere replicata e condivisa ma sarà sempre diversa, in un fluire perenne. Ragionando con Katia, il desiderio è stato proprio quello di far sì che la memoria di questa esperienza diventasse mobile, che potesse appartenere anche ad altri ma sotto forme non necessariamente legate a un’esperienza fisica di quel luogo. In realtà, il canto, il suono, permettono in maniera più sensuale e non mediata dal ragionamento di farlo, per esempio quando ascolti una canzone segui le parole e i suoni, ne fai esperienza nuova diventando nuova memoria, come un racconto che passa di bocca in bocca, modificandosi ogni volta.

Libro d’artista e vinile, 2021, Ph. Daniele Signaroldi

CG: Le canzoni della performance sono sette e parlano di miti antichi, delle azioni del raccogliere e del conservare, delle fatiche del corpo, del tempo meteorologico, di lotte, di sacrifici, di preghiere, di fiori e di piante mentre si sentono i suoni della natura e i versi degli uccelli nel sottofondo. I loro testi sono particolarmente evocativi e capaci di generare nell’ascoltatore delle immagini mentali che appaiono, si spostano dietro/avanti/a fianco, scappano e sfuggono di continuo ma come se volessero appartenere e diventare parte del paesaggio che raccontano. E quindi mi sembra che nell’ascolto si crei una tensione tra la possibilità di presenza e la loro assenza. I brani sono stati incisi su un vinile a tiratura limitata e da qualche settimana si trovano anche su Spotify, perché hai deciso di renderli disponibili su questa piattaforma?

CL: Il disco Voce a vento è stato davvero una costruzione collettiva. Molte cose le ho imparate grazie al lavoro di Meike, che è una musicista e una cantante, quindi non ero solo io a decidere. Ho voluto un progetto aperto che potesse prendere delle forme anche per me inaspettate. Detto questo, uno può decidere di ascoltare il disco, valutare se piace, sentirlo e “frequentarlo” in senso letterale. Questa modalità mi sembrava corretta sotto diversi punti di vista, per la sua fruibilità più agile e perché permette di capire se c’è l’interesse a entrare ulteriormente nel progetto. Sostanzialmente si tratta di un invito a renderlo libero.

Inoltre, c’è anche una questione propriamente musicale perché la partner del progetto è Meike . Il nostro incontro è stato assolutamente casuale e grazie a un amico che mi ha parlato di lei e mi ha suggerito di contattarla. Chi avrebbe mai accettato di fare questa cosa? Dico questo perché ti assicuro che all’inizio c’era una quantità di punti interrogativi a cui non ero in grado di rispondere, non conoscendo bene quello che avevo messo in moto. Mi sono molto affidata e, dall’altra parte, lei si è presa a preoccupazione la mia idea, mi ha ascoltato profondamente. Meike fa parte di un collettivo che si chiama “Collettivo Amigdala” (un’associazione che si occpua di arti performative e teatrali, con attenzione particolare al tema della rigenerazione urbana, con sede a Modena) e per anni ha lavorato nei centri antiviolenza sulle donne, pertanto ha una storia personale di ascolto molto importante. Questo aspetto non è neutro riguardo al desiderio di mettersi alla prova con un progetto assolutamente folle, per il fatto che intendeva mettere insieme tante voci diverse e senza una direzione, e per il quale non si sono dati all’inizio molti elementi chiari: voce femminili, paesaggio e le mie parole. Io non ho diretto dicendo tu fai questo, questo e quest’altro ma mi sono affidata.

Quindi l’immagine del paesaggio, delle tante voci, dei tanti punti di vista è il traslato di ciò che è avvenuto nelle relazioni con le persone che sono state coinvolte e che hanno fatto fisicamente il lavoro. Il tipo di legame che si è creato tra i vari componenti di questa crew, il paesaggio umano che è nato attorno al progetto con le sue tante variabili hanno rappresentato gli elementi fondamentali di quello che dici rispetto ai canti. Essi creano un paesaggio sonoro in cui sembra di essere presenti e assenti a un tempo, dove le voci sono lontane e vicine, e dove i suoni sono sia reali sia di donne che simulano quelli animali.

Questa presenza-assenza era evidente anche nella fase progettuale, all’interno dell’organizzazione di questa prima performance di Voce a vento. Essere cioé presenti come individui – a livello strutturale tutti eravamo presenti – ma nello stesso tempo assenti, nel senso che ognuno aveva la capacità di stare, di muoversi e di spostarsi quando capiva che l’altro poteva avere le parole giuste, l’azione giusta da compiere. È stato un reciproco affidarsi.In queste situazioni ho imparato a esserci e a non esserci, do l’abbrivo alle cose e mi sposto leggermente perché non voglio essere io il punto. Ciò che mi interessa è osservare le dinamiche che si creano. Sono lì fisicamente, c’è la mia presenza ma nello stesso tempo mi sottraggo. E come se dessi l’impostazione al telaio e poi la navetta andasse da sola.

CG: Il progetto ha avuto inizio con la realizzazione di tre “laboratori camminati” all’interno del Parco del Cilento. L’espressione “laboratorio camminato”, che mi sembra tu abbia inventato, combina la situazione laboratoriale, che rappresenta un momento conoscitivo collettivo di natura dialogica, e l’azione del camminare, che è di per sé un’esperienza di esplorazione lenta, riflessiva e immersiva all’interno di un territorio. Chi ha condotto i “laboratori camminati” e in che cosa consistevano?

CL: Non so sinceramente se sono stata io a coniare “laboratori camminati” ma è un’espressione che ho sentito e uso volentieri. Trovo che sia perfetta perché fa riferimento a un laboratorio che si realizza solo attraverso il coinvolgimento diretto, e in cui alcune guide che hanno dato delle regole “osservative” e hanno impostato la lente rispetto all’osservazione del paesaggio. Ho chiesto a sguardi possibili esterni di venire e di guardare insieme a me. Spesso abbiamo invitato ai laboratori persone che conoscevano bene il territorio, dal geologo allo storico, e conoscevano tutto di quell’area, come lo storico che può raccontarti per ore cosa è accaduto lì dalla nascita di Cristo fino all’Unità d’Italia, e Dionisia De Santis che, come ricordavo, è esperta dell’erbario naturale del Cilento. Gli ospiti esterni dei laboratori sono stati fondamentali perché così come io portavo lo sguardo da fuori, chiedevo loro (in alcuni casi le conoscevo molto bene, in altri un po’ meno e il loro coinvolgimento era anche un’occasione per incontrarli e conoscerli meglio) di sudare insieme, e di offrire le loro parole.

Il primo laboratorio camminato ha ospitato Matteo Meschiari, che ha una pratica di taglio antropologico-letterario-filosofico molto puntuale, ed è consistito in esercizi camminati provenienti da varie discipline dove l’attenzione al passo, alla respirazione, all’ascolto del terreno sotto i piedi, alla presenza dell’altro che cammina accanto, diventavano gli aspetti importanti. Dopo qualche settimana siamo scesi con Francesco Careri degli Stalker, che ha suggerito una metodologia molto semplice basata sullo stare in silenzio e sul non usare il cellulare neppure per fotografare, con l’intento di provare a “stare” in quello che stavamo facendo e di muoverci con maggiore attenzione su quei sentieri. Infine, l’ospite dell’ultimo cammino (percorsi dei tre laboratori erano diversi l’uno dall’altro e con lunghezze e difficoltà differenti) è stata Elisa Biagini, poetessa fiorentina con una capacità molto stretta di usare la parola e con questa creare luoghi e immagini potenti. Durante il cammino ogni tanto, in alcuni punti, calibrava o, meglio, offriva la sua voce ai partecipanti leggendo delle brevi sottolineature poetiche.

CG: Ritorno sul pubblico perché mi interessa capire a chi era rivolta la performance visto che l’azione si è svolta nel Parco del Cilento risalendo il Monte Bulgheria, come fossero il palcoscenico di un teatro naturale, dove il gruppo delle performer coincideva praticamente con gli spettatori…

CL: È un punto fondamentale perché anche con Katia c’eravamo poste la stessa domanda. A parte il battage soprattutto locale, gli ospiti erano perlopiù persone che avevano voglia di fare un po’ di trekking. Non era un percorso difficile perché c’erano anche dei bambini, però non era nemmeno una passeggiata piana. In più, il giorno della performance, al mattino era piovuto parecchio, poi fortunatamente nel pomeriggio il cielo si è aperto ed è venuto l’arcobaleno! Un dono divino, direi!

Avevamo immaginato che lungo il percorso vi fossero una serie di “stanze”, dei punti di sosta del coro. Meike era la prima, all’inizio del sentiero, ad aprire il cammino, a lei si aggiungevano le cantanti che si rispondevano cantando o facendo dei versi animali mentre salivano. Era difficile cantare distanti, eppur era molto interessante ascoltare queste voci che pian piano si aggregavano fino a raggiungere il gruppo finale sul monte, in attesa su un pianoro antistante uno jazzo abbandonato, pieno di piante di cardo in fiore. Alla fine di questo percorso stava la voce ospite (così come sono stati ospiti coloro che hanno fatto il laboratorio camminato, anche nella performance c’era una voce ospite importante e imponente): Elena Bojkova, del coro “Le Mystère des voix bulgares”, con una voce direi “pastora” che arrivava lontano, in competizione con la sua stessa eco. Infine le 31 voci hanno cantato insieme, irraggiandosi a 360 gradi, fino al mare, scommetto!

Il pubblico in fila seguiva l’azione, alcune persone si univano, altre tenevano il passo, altre rimanevano dietro. Non so cosa abbiano percepito ma il punto non era tanto sentire bene ma ascoltare quello che si sentiva, che è una questione molto diversa perché, come ti dicevo all’inizio, c’erano delle folate di vento che, per l’orografia del terreno, muovevano le voci in in modo anarchico. Magari si riusciva ad ascoltare a una distanza di 30 metri perché arrivava un’ondata di voci, mentre a pochi metri non sis sentiva quasi nulla. È stata un’esperienza molto emozionante a detta dei presenti – io in quel momento ero una specie di camoscio che continuava a saltare a destra e a sinistra, per come ero tesa, e come al solito non so che cosa è successo. (!) Alla fine c’è stato un momento di raccoglimento dove tutti si sono disposti in cerchio, come in un teatro naturale. A conclusione di tutto, verso il tramonto, con delle lampade siamo scesi a valle e così si vedevano queste piccole luci che riprendevano il cammino.

A livello visivo è stata fatta una documentazione (il video è di Vittorio Antonacci) che desse l’idea della temperatura visiva della performance. In seguito, in fase di post-produzione, il coro emiliano si è raccolto in uno studio di registrazione per rifare molti dei canti, perché alcuni erano inservibili così come erano stati registrati in loco. Quindi si sono intrecciati i suoni reali a quelli in studio.

CG: Canto-corpo-paesaggio sono gli elementi in conversazione in questo lavoro, c’è qualcosa che non ha funzionato, che avresti cambiato o che si è sviluppato diversamente da come avevi immaginato e previsto mentre preparavi la performance?

CL: È come avere una visione d’insieme ma non sapere esattamente cosa sarà. Come un cammino si fa facendo, sai che vai da A a B, ma come e cosa incontrerai in questo cammino non lo sai, la stessa cosa vale per questo progetto. Non conoscevo Meike, non sapevo esattamente cosa sarebbe successo, insomma il livello di rischio era altissimo. Non sapevo cosa sarebbe potuto accadere – è successo molte volte anche con Balena Project – perché non potevo avere il controllo su tutto e se lo avessi costruito a tavolino avrebbe preso un sapore che non mi interessava. Quando do l’abbrivo a progetti di questo tipo, non so che cosa succederà e cosa aspettarmi.

Non so se sono delusa perché non so come avrebbe potuto essere diversamente. Per esempio, avrebbe potuto esserci più gente ma sarebbe stato un dramma perché la sua gestione sarebbe stata molto più difficile. Avrebbe potuto non piovere e così io non avrei avuto il patema d’animo per tutto il giorno, invece è andato tutto bene. Avrei potuto non passare le cinque ore precedenti a stirare gli abiti di Antonio Marras perché potessero essere perfetti sulle donne, ma invece pensarci e farlo prima. Ora sto scherzando ma questi piccoli eventi di fatica sono tra l’altro fisicamente impegnativi, io in questi casi ci sono, faccio la lavorante, non sono lì a guardare cosa sta succedendo ma cerco di dare il massimo perché penso di dover essere la prima a impegnarmi per il progetto, perché se gli altri mi vedono guardare e dire un po’ più a destra e un po’ più a sinistra, non funziona, non deve essere un set teatrale ma deve crearsi un comune sentire. Quindi rispetto a ciò che avevo immaginato, di solito accade sempre di più del previsto.

CG: La realizzazione di questa azione ha richiesto una vera e propria progettualità collettiva per la quale hai collaborato con donne di diversa provenienza culturale e professionisti di altri ambiti disciplinari (tra l’altro, le tuniche delle donne sono state disegnate e dipinte da Antonio Marras), il confronto continuo e quotidiano all’interno del collettivo ”EN Laboratorio Collettivo” che hai co-fondato nella tua città, Piacenza, nel 2017 ti ha aiutata in questo senso – intendo dal punto di vista metodologico?

CL: Direi al contrario nel senso che “EN Laboratorio Collettivo” è nato nel 2017 ma le azioni che mi hanno coinvolto di più all’interno del gruppo sono legate al Festival dal titolo “Sette giorni per paesaggi”, che ha avuto inizio nel 2019. In qualche modo Voce a vento è stato propedeutico rispetto alle attività del festival, in particolare sul tema e sul ruolo del paesaggio, che abbiamo portato avanti con le altre persone del collettivo. Nel 2020 “Sette giorni per paesaggi” ha avuto luogo in versione podcast, quindi di sole voci, però l’idea di paesaggio sonoro è ritornata, trasformata in tante voci per dire “paesaggio”. Sicuramente l’esperienza del collettivo, per il ruolo che ho al suo interno, è stata fondamentale. E poi il modo in cui sto continuando, il processo di “Passo chiama Passo”, la collana editoriale che raccoglie Voce a vento così come altri progetti, si è nutrito di quanto ho imparato attraverso il Festival.

CG: Come hai appena ricordato, Voce a vento è anche il primo di tre volumi di una nuova collana editoriale dal titolo con il ritmo alterno “Passo chiama Passo” pubblicata da Kunstverein Publishing (Milano) in co-produzione con Snaporazverein (in Svizzera) e Shapdiz Foundation (in Italia e Bulgaria). E inoltre alcuni degli elementi principali della performance ritornano in lavori che hai sviluppato successivamente quali Windsocks (2018-2021), sorte di aquiloni cuciti a mano che si gonfiano quando il vento li attraversa, e il più recente Amulets for Voices (2021), ovvero piccole sculture in ceramica che “propiziano” il canto e l’ascolto. Questa espansione del progetto risponde a qualche obiettivo?

CL: Quando abbiamo deciso di creare con Katia e Kunstverein la collana “Passo chiama Passo”, con il supporto importante di Federica Bianchi di Snaporazverein, ovvero una serie di libri d’artista che mettessero insieme tante umanità, ambiti e paesaggi diversi, abbiamo pensato a un contenitore in cui raccogliere almeno tre performance, ognuna molto divera dall’altra, sempre più complicate e ambiziose. Poi chissà che forma prenderà perché non è detto che questa sia la definitiva.

Nel 2019 presso la Ikon Gallery di Birmingham abbiamo realizzato, in collaborazione con il “Collettivo Amigdala”, Being There, dove mentre ero lì ho scritto dei testi sulla città rispetto al tema del lavoro femminile, del bisogno di raccontarsi per resistere, della cura (era il periodo salviniano, quello bieco…), dei “tempi di lotta, coraggio e compassione”. Anche questa volta Meike, con il musicista Davide Fasulo, ha messo in musica le mie parole e diretto i cantanti (italiani e inglesi). Con Ikon abbiamo lavorato a un offsite della performance: su una barca un gruppo vocale misto di professionisti inglesi (questa volta c’erano anche uomini) ha navigato lungo un canale di Birmingham mentre alcuni altri seguivano e interagivano con loro dalle sponde del canale, mentre il pubblico seguiva la barca. Ci sono state delle difficoltà organizzative e pertanto ho dovuto riadattare un po’ la mia idea, che inizialmente era quella di avere, su questo lungo canale percorribile interamente anche dal pubblico, dei gruppi vocali locali e di vario tipo che rispondessero ai cantanti sulla barca, e quindi si attivasse tra loro una specie di conversazione. Purtroppo questo, per diverse ragioni non imputabili a noi, non ha potuto avere luogo. Abbiamo registrato i canti fuori e dentro alla barca e il paesaggio sonoro che scorreva attorno: il treno che passava, le persone che si affacciavano alle finestre, l’acqua etc.; il pubblico che ascoltava mano a mano diminuiva e dopo un’ora di cammino alla fine restava circa un terzo di coloro che erano partiti.

Nel 2020 un collettivo di giovani curatrici, dal nome “a.topos”, studentesse di Jonathan Watkins (che è il direttore della Ikon Gallery), mi hanno proposto una piccola mostra a Venezia nelle stanze di un bel palazzo storico di Campo San Polo e lì ho installato Windsocks:delle maniche a vento inutilizzabili, dalle forme simili a quelle usate per Voce a vento, fatte in tessuto per serigrafia molto fitto, d’un bianco lattiginoso. Dei fantasmi del progetto passato appesi ai soffitti per legarsi al progetto successivo, Being There_Venezia.

Being There, Birmingham, performance, 2019, ©IKONgallery

L’auspicio affinché tutto funzionasse è avvenuto tramite Amulets for Voices, piccole sculture in argilla azzurra: si tratta di figure femminili-maschili (non si capisce bene il genere) che si parlano, cantano, si ascoltano o tappano reciprocamente le orecchie. Tutto è partito da un’immagine di donne inuit del nord del Canada che cantano con le mani a coppa davanti alla bocca, una di fronte all’altra, i mignoli a contatto: cantano nella bocca dell’altra, il fiato dell’uno diventa fiato per l’altra – la cosa peggiore per il Covid! Questo gesto mi piaceva molto come immagine totemica propiziatoria per il progetto. Infine, la riproposizione della performance vocale di Birmingham ha visto stavolta la partecipazione di 12 donne del coro “Le Chemin des Femmes” e le “Core” (c’erano solo donne in questo caso) e dei rematori (della Remiera dei Sartori) che hanno vogato con le quattro imbarcazioni, dei sondoli, per un lungo percorso tra i canali veneziani. Mi interessava, anche questa volta, la relazione di queste voci con lo spazio che le ospitava. Come rimbalzavano tra le case, sulla superficie dell’acqua, interagendo con la sorpresa del pubblico che le incrociava casualmente.

Come vedi, il progetto sta prendendo un’altra forma e sta mettendo insieme paesaggi diversi. Nella prossima pubblicazione mi piacerebbe mettere insieme Sardegna, Bulgaria e forse ancora più a est, chissà (grazie a Paolo Rosso anche solo per l’ipotesi)!

Non so cosa succederà e quale sarà, letteralmente, il prossimo passo.

Voce a vento
di Claudia Losi con Meike Clarelli
Kunstverein Milano, 2021, 35€
primo volume della collana Passo chiama Passo

Per ascoltare i brani di Voce a vento clicca qui sotto:

In copertina: un particolare della performanceVoce a vento, Parco Nazionale del Cilento, del Vallo di Diano e degli Alburni, 2018

Cecilia Guida

Dottore di Ricerca in Comunicazione e Nuove Tecnologie dell’Arte, si occupa delle relazioni tra pratiche artistiche partecipative, pedagogie radicali e spazio pubblico contemporaneo. Insegna Storia dell'Arte Contemporanea e Ultime tendenze nelle arti visive all'Accademia di Belle Arti di Brera. È autrice di “Spatial Practices. Funzione pubblica e politica dell’arte nella società delle reti” (Franco Angeli, 2012); curatrice e traduttrice dell’edizione italiana del saggio di Claire Bishop, “Inferni Artificiali. La politica della spettatorialità nell’arte partecipativa” (lucasossella editore, 2015); co-curatrice, insieme a Laura Salas Redondo e a Erick González León, di “(d)estructura. Viajes por Cuba/ Cartografía Social” (Viaindustriae publishing, 2018). Ha curato, insieme a Lorenzo Balbi e ad Arturo fito Rodríguez, la mostra e il libro “Muntadas. Interconnections, interconnessioni, interconexiones” (ARTIUM, Vitoria, 2019, Villa delle Rose, Bologna, 2020 | ed. Corraini, 2019).
Dal 2018 è responsabile del public program del progetto di arte pubblica “ArtLine Milano”.

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