Esce in questi giorni (Fabrizio Serra Editore, pp. 135) la ricca monografia di Chiara Portesine, «Una specie di Biennale allargata». Il giuoco dell’ecfrasi nel secondo romanzo di Edoardo Sanguineti, che conferma come quella «expanded» (ma Portesine preferisce definire, la sua, «filologia visiva») sia forse la lettura più idonea a una testualità polimorfa e perversa come, per antonomasia, la sua. Dal libro, per la cortesia dell’autrice, proponiamo un estratto con apparato iconografico da lei allestito appositamente per Antinomie.
A.C.
Il giuoco dell’Oca viene dato alle stampe dopo una revisione piuttosto tormentata, protrattasi fino ai primi mesi del 1967 – come apprendiamo da una lettera inedita inviata a Cesare Vivaldi il 29 marzo 1967, in cui Sanguineti racconta di essere «in preda alle ultime bozze del mio nuovo romanzo, morto di fatica, degno di pietà». Nelle intenzioni dell’autore Il giuoco dell’Oca, la cui stesura fu avviata subito dopo la pubblicazione di Capriccio italiano (1963), avrebbe dovuto rappresentare il secondo tempo di un’ideale trilogia romanzesca, completata a posteriori dall’appendice dell’Orologio astronomico (2001). Le elevate aspettative riservate alla ricezione del secondo romanzo verranno frustrate dalla tiepida accoglienza di pubblico e critica, come certifica lo stesso Sanguineti a colloquio con Fabio Gambaro, rivelando di aver subito «una certa frustrazione per l’accoglienza che ricevette Il giuoco dell’Oca. Io ero molto soddisfatto e invece la reazione della critica e dei lettori fu molto più fredda che nei confronti del Capriccio. Questa delusione non ebbe un effetto depressivo, al contrario ebbe quasi una sorta di reazione euforica: […] ebbi cioè l’impressione di essere andato troppo innanzi. Un testo così non era ancora accettabile»[1].
Dal disinganno per il mancato allineamento tra la foscoliana «qualità dei tempi» e il tentativo di una riforma novissima del genere romanzesco deriverà, con ogni probabilità, la lunga defezione dalla prosa. Il ritorno alla narrativa verrà procrastinato fino alla realizzazione di Smorfie (1986), una raccolta di brevi sequenze accompagnate dai disegni di Tommaso Cascella – più simile, nella fattura impaginativa, a un libro d’artista piuttosto che a un romanzo (o anti-romanzo) sperimentale. In generale, l’intera produzione successiva al Giuoco, ad eccezione dell’Orologio astronomico, si potrebbe ascrivere alla categoria del romanzo-pinacoteca, in cui le parole vengono attivate da un referente figurativo – i disegni di Lucio Del Pezzo, nel caso di Spedizione notturna (1989), e di Ugo Nespolo, per Vociferazioni (2008). Questa terna pittorica, tuttavia, non istituisce una cesura anomala rispetto alle scritture romanzesche antecedenti ma si propone, al contrario, come la conferma dimostrativa di un motore ecfrastico già operativo nei romanzi degli anni Sessanta. Potremmo azzardare l’ipotesi che l’intera produzione in prosa funzioni, per Sanguineti, come un laboratorio di ricerca e di sperimentazione atto a testare le potenzialità narrative dell’ecfrasi – partendo dall’allusività confusiva di Capriccio italiano per arrivare ai libri illustrati della fase senile, in cui la descrizione dialoga interlinearmente con la riproduzione fotografica della fonte.
Sarà necessario chiedersi allora come agisca il dispositivo ecfrastico nei primi due romanzi, in cui l’assenza materiale del referente è compensata da un abuso di indicatori e di segnalazioni deittiche. Nel Capriccio l’ecfrasi viene trattata come una delle modalità alternative di estroflessione dell’onirismo; gli elementi figurativi vengono sovrascritti e ricombinati con la storia del narratore, ripercorrendo, come si apprende dalla Nota d’autore, una «convivenza coniugale, colta nel suo momento di crisi […] ma raccontata secondo l’ottica dell’onirismo». Pittura e incubi assolvono alle medesime funzioni narrative, in un tentativo di esplorazione dell’associazionismo analogico e del linguaggio para-verbale. Dunque l’«esperienza del sogno» e quella della «realtà», come si legge in una recensione di Cesare Vivaldi, risulterebbero «perfettamente e legittimamente uguali, indivisibili»; l’omogeneità del medium linguistico, per quanto «contorto e affannoso»[2], garantirebbe questo effetto di indistinzione che mima la faticosa conciliazione tra Io ed Es, tra immagine vistae immagine sognata.
Diversa è la costruzione del secondo romanzo sanguinetiano in cui è proprio il meccanismo ecfrastico a reggere l’impalcatura macrostrutturale. L’abbondanza di tracce paratestuali arriva a stimolare il «lettore testardo»[3] per costringerlo a riconoscere l’esistenza di un ipotesto sommerso, un rebus visivo da risolvere. Mentre per il lettore comune il romanzo sarà fruibile, dadi alla mano, come uno strampalato gioco dell’oca, per il lettore ecfrastico assomiglierà piuttosto a «una specie di Biennale allargata»[4], in una stratificazione dei livelli di fruizione prevista dallo stesso autore. Tra le due modalità di attraversamento (e barthesiano «piacere») del testo esiste, tuttavia, una gerarchia qualitativa, come rileva lo stesso Sanguineti a proposito del Capriccio, asserendo che «nei miei testi ci sono dei riferimenti che il lettore, se conosce l’opera del pittore, naturalmente, può comprendere meglio»[5]. Questo apparente declassamento del fruitore medio non dipende dal miraggio intellettualistico di una cultura per iniziati ma rientra in un preciso progetto di pedagogia letteraria. Sanguineti, infatti, vuole fabbricareil proprio lettore, costruendo a tavolino una complessità testuale che stimoli l’atteggiamento critico e non il rispecchiamento passivo. I capitoli del Giuoco sono programmati per essere compresi, anche se a costo di un surplus di fatica ermeneutica, all’insegna di una ricercata «ambivalenza nel rapporto con il fruitore – ti dispiaccio piacendoti e ti piaccio dispiacendoti»[6]. Del resto, come osservava acutamente Umberto Eco nel dibattito sul Romanzo sperimentale, «sarebbe pazzesco se un autore d’avanguardia scrivesse per non essere mai, mai, mai capito».
Al lettore ideale del Giuoco si chiede di diventare una sorta di «eroe decriptatore», il cui archetipo immemoriale è incarnato da Edipo, conformemente a una connessione tra enigmistica e psicoanalisi (sanguinetianamente, tra rebus e T.A.T.) che si ritroverà enunciata in un articolo pubblicato sull’«Unità» il 26 aprile 1981, dove leggiamo:
L’ultimo eroe edipico, in ogni modo, è inutile dirlo, fu Freud. L’ultima saga di decriptazione concerne l’autore della Interpretazione dei sogni (e del Motto di spirito), che, emblematicamente, inaugura il nostro secolo. Con Freud, […] l’enigmistica si risarcisce, una volta per tutte, della sua degradazione storica, della sua perdita d’aureola, per risalire, definitivamente, dal giuoco alla scienza. L’ultima Sfinge dell’Occidente si chiama, da allora in poi, Inconscio.
Di conseguenza, alla fedeltà sempre più iperbolica con cui vengono riprodotti i dettagli plastici si accompagna l’implicito tentativo di adoperare il referente artistico come se si trattasse di una tavola di Rorschach, in cui il narratore-paziente «ci vede quel che ci sogna sopra»[7]. Anche Il Giuoco dell’Oca si articola, apparentemente, come un raffinato schedario di quadri proiettivi, trasferiti dalla tela alla pagina attraverso descrizioni «spesso abbastanza puntigliose, talvolta abbastanza pretestuose» della fonte originaria[8].
I materiali visuali del Giuoco funzionano, inoltre, come magazzini per l’accumulazione di un frommiano «inconscio sociale», solidamente ancorato alla storia e alla cultura visiva in cui il narratore-sognatore si trova quotidianamente immerso. Il reale è letteralmente intrappolato nella carta moschicida della scrittura sanguinetiana; la voce narrante sembra affetta da una vera e propria patologia dell’esattezza, in una coazione a censire inventarialmente il visibile che ricorda da vicino una reminescenza infantile più volte citata dalla critica:
Da bambino – iniziava allora l’epoca dei grandi magazzini, dalla dannunziana “Rinascente” alla PTB, in un’Italia ancora molto povera – ero affascinato dai cataloghi pubblicitari, che raccoglievano l’intero campionario della merce disponibile. Possedevo un quaderno: ritagliavo e incollavo le immagini nel tentativo di includervi ogni cosa. Questo quaderno portava un titolo: Tutto.[9]
La prospettiva di questo saggio consente di confutare la vulgatacritica secondo cui il lascito del Giuoco dell’Oca si esaurirebbe in un enigma intellettualistico irrisolvibile, sul piano della comprensibilità semantica, e autoreferenziale, dal punto di vista delle (mancate) relazioni con il presente storico. La sinergia, apparentemente contraddittoria, tra gli strumenti della filologia visiva e della storiografia sociologica permetterà, invece, di riscoprire un testo saturo di significati letterali e di spunti per la prassi. Di fronte allo straripante onnivorismo di questa Wunderkammer romanzesca, ho inteso focalizzare lo studio soltanto sui capitoli-Galeria[10], in cui gli espedienti della scrittura ecfrastica vengono impiegati per la ricreazione di un preciso referente visivo (un quadro, una fotografia, una pubblicità), sebbene nel Giuoco vengano ospitate anche citazioni testuali – ad esempio, dall’Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna (l) e dal Faust di Goethe (x, xvii, xx) – e cinematografiche – in particolare, da Vampyr di Carl Theodor Dreyer (xxxix), indagate in modo puntuale da studiosi come Clara Allasia, Elisabetta Baccarani, Niva Lorenzini ed Erminio Risso.
L’idea di strutturare il romanzo come se si trattasse di un gioco da tavola soddisfa pienamente la tendenza generazionale a istituire delle ingerenze sistemiche tra dominio letterario e ludico, praticata soprattutto nell’alveo della letteratura combinatoria e oulipiana. Nel caso di Sanguineti il gioco si fa estremamente serio, a partire proprio dalle istruzioni pubblicate nella quarta di copertina della prima edizione. La stesura di questo vademecum informativo si rivela tutt’altro che ingenua, dal momento che, come emerge dalla comparazione dei due riquadri, Sanguineti ha travestito le «spiegazioni» stampate, in basso a destra, sul tabellone del «Giuoco dell’Oca» prodotto dalle Edizioni Marca Stella nel corso degli anni Sessanta.


A differenza dei veri e propri esperimenti combinatori, il tasso di casualità e di ‘autogestione’ dell’atto di lettura risulta prepotentemente incrinato dal protagonismo deittico dell’autore, che gesticola incessantemente in direzione del lettore mostrando a dito il trucco ecfrastico che origina ciascuna casella. Se è vero che, a livello potenziale, il romanzo sanguinetiano prevede e legittima tutte le possibili letture alternative, al contempo la chiave per decodificare l’«archilettura» è additata, ad ogni pagina, dagli stessi prestanomi diegetici di Sanguineti, in un’opera che si professa à la Eco aperta ma che preferirebbe la complicità di un iper-lettore che ne richiudesse, scrupolosamente, gli spifferi. Questo libro è scritto proprio nell’ottica di mettere tutti i fruitori nella condizione di diventare, se lo vorranno, lettori ideali, e questa dovrebbe essere, forse, la sanguinetiana «missione» della critica accademica, se questa coltiva ancora qualche remota ambizione di detenere un mandato sociale o una forma di dialogo con il pubblico dei lettori – non comuni o ideali ma, semplicemente, reali.
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Alcuni esempi
Si riproducono qui, a titolo di esempio e di dimostrazione empirica, alcune delle caselle sanguinetiane impaginate assieme alle fonti figurative rintracciate all’interno dello studio.
LXXVIII
Quella bestiolina da cartoni animati, con la pelle a palline, le piccole corna flessibili, le palpebre semiabbassate, la coda a uncino innocente, quella bestiolina da CAROSELLO, che sembra fatta tutta di gommapiuma, passeggia sopra un materasso molto morbido. Del bambino con il pigiamino, che è un pigiamino a palline come la pelle della bestiolina, si vede soltanto un pezzettino. Quella signora, che si è strappata un po’ di bestiolina, un po’ di materasso, molto bambino, perché voleva emergere qui con tutta la sua faccia, per guardarmi un po’, che sembra uscire tutta fresca e nuova da un antico quadro, sta tra d, mi e e, ghi. La d si integra in de, do, il mi in min, mir, la e in me, ne. Il ghi non si integra. L’autorizzazione è doppia, < . > 5 MARZO 19 < .. >, 14 APRILE < .. >62. In basso si legge VENEZIA, <M>AGGIO 1962, e nitized. Sopra il materasso si legge R, CA, e più in basso, chiarissima, una BOTTIGLIA. Poi si legge su e a molle. Poi si legge <r>itratto fra. Poi si legge UET, GA. Questo UET, questo GA, come il VENEZIA di prima, stanno sopra un enorme SIMMONS. È completa la prima S. Sono quasi complete la I e l’ultima S. Sopra la I, al posto della r di <r>itratto, c’è una stella a cinque punte. Il MMON si integra tutto, da solo.

LXXIX
Tutta la scena della bambina rossa, con le scarpette rosse nei piedi, MADE IN HONG KONG, con il cilindretto giallo in mano, con la trottolina per terra, in primo piano, con il NO. 661, con il dischetto bianco, con il buco, sta sopra. Le note sono fa re re (un’ottava sopra) re (un’ottava sopra) re (un’ottava sopra) re do, ecc. Il titolo è VOICEDBOPPERTOP (V rosso, O giallo, I rosa, C rosso, E verde, D viola, B verde, O rosa, P giallo, P bruno, E rosso, R viola, T bruno, O verde, P rosso). Tutto il resto è giallo. Le scene gialle sono quattro. Due mani in A, freccia da destra a sinistra, una mano sopra, una mano sotto, la tacca verso destra. Una mano in B, freccia dall’alto in basso, la tacca verso sinistra. Una mano in C, nessuna freccia, due righe di movimento a sinistra, due righe di movimento a destra, la tacca verso sinistra, fa re (un’ottava sopra) re a sinistra, la a destra. Nessuna mano in D, nessuna freccia, due righe di movimento a sinistra, tre righe di movimento a destra, la tacca verso destra, la fa do a sinistra, si al centro, re re a destra, la re in un angolo. Nel buco della scena della bambina rossa ci metto il tagliandino con il buco. Faccio coincidere i buchi, li sovrappongo. Il tagliandino dice di guardarci il mondo. Dice look through this hole at the world. Il tagliandino arriva da Praga, via Milano. Ci guardo il mondo.

LXV
Una crudele spatolata di bianco ci fa come la luce, lì a noi, nel settore destro. Urta, come sa urtare soltanto un fuoco, quella spatolata, quella bestia orribile di palude che solleva il suo muso duro, con le sue fauci dolenti, quando si rompe tutto il suo cranio così, contro il nero opaco del suo settore, con tutto un suo disperato impeto, con il suo culo tanto in fiamme. Si rovescia furioso, allora, di fronte a quella bestia così selvaggia, il magro bracco moribondo che la raggiunse per primo. Scuote una sua zampa sola, per un attimo, ancora. Sopra quella luce crudele, ma lassù, ma lontani, ci sono quelli che si calano giù una loro cosa, con cautela, in una lunga fila, con una lunga fune, in un profondo abisso della California o del Texas, sotto gli occhi di un gatto di marmo, tutti indifferenti, che si possono credere cinesi. Sopra gli strati geologici del dirupo americano, che sono perfettamente caratterizzati, corrono i due cavalli del galoppo, invece. Corre il cavallo vittorioso, un po’ discosto dal dirupo, sopra la dirittura d’arrivo, precedendo di sette lunghezze, almeno, il secondo cavallo, di fronte alla tribunetta dei giudici, davanti all’ultima siepe. Ma nel settore sinistro, in un apposito vano, in alto, tra due colori informi, quattro bottigliette di Coca-Cola ci stanno proprio di misura, lì di riserva, per noi.

Immagine di copertina: Gianfranco Baruchello, Il giuoco dell’oca (proprietà dell’artista, collage, 82,5 x 63 cm, 1967, particolare).
[1] Fabio Gambaro, Colloquio con Edoardo Sanguineti. Quarant’anni di cultura italiana attraverso i ricordi di un poeta intellettuale, Anabasi, Milano 1993, p. 86.
[2] Cesare Vivaldi, Capriccio italiano, «Tempo presente», 8, 1963, pp. 68-70: 69.
[3] Cito la definizione da un’epistola inviata a Cesare Vivaldi il 26 luglio 1963, in cui Sanguineti, a proposito del Capriccio, asseriva che la noia «è la tappa d’ingresso a quel giardino delle delizie che (se esiste) è il premio del lettore testardo».
[4] Luigi Weber, Con onesto amore di degradazione. Romanzi sperimentali e d’avanguardia nel secondo Novecento italiano, il Mulino, Bologna, 2007, p. 214n.
[5] Tommaso Lisa, Intervista a Edoardo Sanguineti, in Pretesti ecfrastici. Edoardo Sanguineti e alcuni artisti italiani, Società Editrice Fiorentina, Firenze, 2004, pp. 7-22: p. 22.
[6] Gambaro, op. cit., p. 213.
[7] Edoardo Sanguineti, Il trattamento del materiale verbale nei testi della nuova avanguardia, in Ideologia e linguaggio, a cura di Erminio Risso, Feltrinelli, Milano 2001, pp. 77-107: 98.
[8] Lisa, op. cit., p. 21.
[9] Edoardo Sanguineti, Teatro antico. Traduzioni e ricordi, BUR, Milano, 2006, p. 13.
[10] Per ulteriori ricognizioni relative ai fumetti e al teatro, si rimanda ad altri due articoli in pubblicazione: Un Giuoco a fumetti: il secondo romanzo di Edoardo Sanguineti e il riuso in chiave pop del comic strip, «Letteratura & Arte», 19, 2021 e Nel segno di Faust (e di Berio): il palcoscenico del romanzo nel Giuoco dell’Oca di Edoardo Sanguineti, «Italianistica», 3, 2021.