“In linea di principio, non siamo tra coloro che diffidano dei pittori che scrivono o dei letterati che dipingono”. Così Montale sul Corriere della Sera presentava la ristampa delle Poesie di Filippo de Pisis (Vallecchi 1953). Il conte Luigi Filippo Tibertelli alias Filippo de Pisis (così si fece chiamare in onore di un suo antenato pisano) e Eugenio Montale nascono entrambi nel 1896, l’uno a Ferrara, l’altro a Genova. È qui che s’incontrano nel 1919, nell’anno interbellico dell’impresa fiumana capeggiata da d’Annunzio, mentre ricorre un decennio dal Manifesto del Futurismo di Marinetti e da poco a Parigi è stato diffuso quello Dada di Tzara. All’amico Montale dedica l’epigramma Alla maniera di Filippo de Pisis nell’inviargli questo libro, nelle Occasioni (1939). La poesia descrive una scena di caccia:“Una botta di stocco nel zig zag / del beccaccino – / e si librano piume su uno scrìmolo. / (Poi discendono là, fra sgorbiature / di rami, al freddo balsamo del fiume”. Per ringraziarlo de Pisis gli invia Il beccaccino, opera del ’32 con due uccelli morti.

Anche Montale, com’è noto, si diletta a dipingere; e in un chiasmo de Pisis, il “marchesino pittore”, è come scrittore che debutta: I Canti de la Croara, dedicati a Pascoli (sul quale scriverà la tesi di laurea), escono nel 1916 con la prefazione di Corrado Govoni. Nello stesso anno incontra a Ferrara – lui entusiasta, loro rimbrottanti – i Dioscuri Giorgio de Chirico e Alberto Savinio (al secolo Andrea de Chirico), nonché Carlo Carrà. Una giostra di menti che di volta in volta si influenzeranno, si tollereranno, si respingeranno. De Chirico, inizialmente perplesso riguardo al talento di de Pisis, elogerà Emporio (1916), zibaldone di “oggetti spleenetici” pullulanti di emozioni, sensazioni e associazioni di idee – cose dolci, antipatiche, arcigne, tediose, ridicole e tristi – nei confronti del quale è debitore Hermaphrodito di Savinio, esordio letterario in forma di pastiche multilingue (in volume nel ’18, ma i frammenti escono sulla “Voce” già nel ’16, appunto).

Se “la casa del poeta” di via Centoversuri nella città turrita (alla quale de Chirico dedica un disegno nel ’18) è una fucina d’idee e opere per gli artisti, fra le pareti bianche delle stanze di Villa del Seminario, la “Villa degli enigmi”, vedono la luce significativi quadri tanto del Pictor optimus che di Carrà: Le muse inquietanti, Ettore e Andromaca, Il trovatore, Solitudine, La camera incantata, Madre e figlio, La musa metafisica. La villa nei pressi di Ferrara, adibita a ospedale militare di riserva nel ’16, diventa ben presto un centro per la cura di malattie nervose e disturbo post-traumatico da stress, dovuti allo shock della guerra o da essa amplificati. Così scrive Miriam Carcione nel suo libro assai dettagliato, prima monografia per intero dedicata alla produzione letteraria di de Pisis: “il professor Ruggero Tambroni, edificando nella campagna ferrarese un inattaccabile castello-fortezza, lotta per proteggere intellettuali, scrittori e pittori dal massacro bellico, impedendo loro di andare a morire al fronte come Umberto Boccioni o Antonio Sant’Elia, due dei tanti caduti in quegli anni. Il nosocomio per malattie nervose funge così da trait d’union tra pazienti affetti da disturbi psichiatrici e gli artisti ospitati al suo interno”. Uomini malati e alienati, uomini scossi e “protetti” da una realtà oscurata che cercano di non vedere. In quel 1916 a de Pisis viene diagnosticato un disturbo nervoso; viene curato col laudano, ma sarà quel disturbo, che si acuirà durante la Seconda Grande Guerra, a portarlo alla morte quarant’anni dopo.
Malgrado tutto, il “marchesino pittore” – autore anche di Adamo o dell’eleganza. Per una estetica nel vestire (a cura di Bona de Pisis e Sandro Zanotto, Abscondita 2005), è frenetico – come può esserlo Rossini, con le sue fringuellanti arie e prepotenti ventate di profumi di signore cotonate. Stavo per aggiungere “teatralizzando la vita”, ma non è esatto; mi pare più giusto considerare come la vita intima, ovvero la camera metafisica o delle meraviglie, la Wunderkammer delle persone (il dialogo con sé stesse a due o più voci, con i propri desideri, vuoti, fantasmi e fobie) e degli oggetti (non solo la loro storia, fattura e consunzione, ma soprattutto la loro potenza), sia una continua messa in scena. Si cercano spettatori e si è spettatori. Le tante Wunderkammern del collezionista de Pisis, tra Ferrara, Roma e Parigi, sono abitate da chincaglierie d’ogni tipo, simulacri di una pienezza assente; sovrabbondanza che talvolta fa irruzione, nella prosa, con filastrocche, intermezzi e puntini di sospensione: “Fior di giaggiolo!… / Gli angeli belli stanno a mille in cielo, ma bello come lui ce n’è uno solo!… / Fior di giaggiolo…”… “Ma a questo nuovo crearmi / attimi – gingilli di realtà – preferisco l’eterno ristare / per vendicarmi dell’‘al di là’”.

Flâneur egocentrico, esteriore o non, piuttosto, al di là anch’egli, o meglio, ritornante dell’al di qua, fantasma che ricerca fantasmi, insomma postumo? Scrive in Della morìa: “Queste camere bianche, dove sembrava rudemente proiettarsi la luce intensa, in certi attimi di abbandono, furono per me come la spettralizzazione della realtà indistruttibile”. Dalle vetrine delle macellerie, da quelle stanze dell’esposizione di rosse carni penzolanti da ganci ricurvi, irrompe cruenta la realtà bellica e l’incredulità di fronte all’impotenza.
Narciso paradossale, de Pisis non ammira la propria immagine riflessa. Vede invece la persistenza di ciò che è stato, è e sarà: lampo di una chiarìta splendente delle fosche acque lacunari e dall’oscurità della guerra, sasso rimbalzato dall’abisso. “Chi ha cercato di stabilire con Pippo un rapporto d’anima ha dovuto presto ritirarsi. De Pisis era, e rimase sempre, dice Comisso, ‘un divino fanciullo’, e solo un infante altrettanto ‘divino’ come Giovanni Comisso, uno scrittore che scrive a zampa di gallina come Pippo dipinge – e non meno genialmente – poteva tenergli dietro” (Montale). Pulchriora latent (“le cose più belle sono nascoste, latenti”) è il motto che de Pisis ripete nelle lettere all’amico Giovanni Comisso (l’amicizia testimoniata da Mio sodalizio con de Pisis, 1953, è tra i suoi capolavori) oltre a metterlo in copertina ai Canti de la Croara, nel suo primo ex-libris, una tavola da erbario (è anche appassionato botanico).
Scrive Elio Vittorini: “Lo chiamano superficiale […] e non si rendono conto dei novemila metri di profondità ch’egli raggiunge senza indossare lo scafandro”. Il mondo dipinto o descritto dal “marchesino pittore” è un mondo latente. Su carta velina paiono stenografati i quadri e incise, con candore di fanciullino, non privo di causticità irridente e aplomb aristocratico, le prose di Filippo de Pisis, mise en abyme del quotidiano esistere, “memorie di cieco” (per scomodare Derrida), tramestii e tempi languidi immaginati, intuiti e descritti. La parola esorcizza il gesto muto della pittura o il gesto pittorico esorcizza l’agrafia? Le prose del “marchesino” sono a loro volta latenti, nascondono l’ossessione della visione dietro la superficie/schermo di una descrizione minuziosa e maniacale, mettono gli occhiali da cieco a una luce abbagliante. Non per caso de Pisis è leucofobico. Quel che accade oltre le finestre, nelle stanze delle case, al di là delle vetrine dei negozi, sotto la patina degli oggetti, interessa il suo occhio metafisico e prensile, sempre presente dinnanzi alla propria visione.
Tuttavia, aggiunge Carcione, “se per de Chirico le finestre fungono da portali e assumono contemporaneamente il significato di chiusura/apertura verso l’esterno, per de Pisis queste si dimostrano disfunzionali e inutili: una volta entrati in quegli interni tenebrosi, non è più consentito sapere cosa accade oltre i vetri”. Nella Città dalle cento meraviglie troviamo “basse finestre delle rintanate case borghesi”, “scure finestre in fila”, “paurose”, “luminose con le persiane ugualmente socchiuse”, con “vetri polverosi” o con “rideaux serici” che “si animano di riguardanti” e da cui “qualcuno osserva, donne discinte, uomini in camicia. Osservano di tra gli spiragli impenetrabili”.
Che cosa, nella pittura e nella prosa di de Pisis, va più lontano dell’occhio e rende l’essere “visibile”? Un dèmone è, al tempo stesso, sia nell’oggetto della visione che nel contemplatore; tale complicità permette di oltrepassare l’immagine, di scorgere il soffio che la abita. D’altronde, se lo spazio del corpo non esiste al di fuori di quello mentale, non si esce dall’analogia. Proprio del dèmone è il suo potere metamorfico, il suo oltrepassare la forma con un eccesso di potenza. Esso è lo stesso, ma, di volta in volta, non identico: è il paradosso dell’attore.
Lettore di Nietzsche, oltre che di Schopenhauer e Stirner, de Pisis (o il suo fantasma?) ritorna infinite volte. Un ‘eterno ritorno’ da dove? Che cosa inscena l’attore de Pisis che non sia già in scena? Come l’Ulisse di de Chirico rema fra le pareti della sua stanza metafisica? Ma, soprattutto, chi ritorna infinitamente? “E non son forse io stesso che torno, colui che già prima passò?”. È lui l’eterno naufrago al quale a un tratto appaiono “grandi navi benefiche” (Pensieri e note, 1917-1918, San Marco dei Giustiniani 2002). Un eterno naufrago è il soggetto puro della conoscenza, più che individuo, meno che individuo, dàimon, attore che nel pensier si finge e che pur attende.
Miriam Carcione
La poetica della meraviglia. Filippo de Pisis scrittore
prefazione di Silvana Cirillo
Bulzoni, 2021, pp. 288, € 22