Nello sciame. Asemic talks

Marco Giovenale: Al di là dei campi dell’arte e della scrittura, qual è il tuo lavoro, quotidianamente? Di cosa ti occupi? Dove vivi per gran parte del tuo tempo?

Federico Federici: Mi occupo quasi quotidianamente di Fisica, dedicando il resto del tempo alla scrittura e ad altre forme di ricerca in ambito artistico. A tal fine, i due ambienti che preferisco sono il laboratorio e lo studio, idealmente intercambiabili. A causa della pandemia, ho viaggiato poco nell’ultimo periodo. Diversamente, alterno mesi sull’Appennino ligure a soggiorni più o meno lunghi all’estero, a Berlino soprattutto.

MG: Se dovessi definire la “scrittura asemica”, o il più vasto campo dell’“illeggibile”, come ti esprimeresti, rivolgendoti a un pubblico non necessariamente a giorno di quanto accade nell’arte contemporanea?

FF: Parlando di scrittura asemica, tendo sempre ad aggirarne una rigorosa definizione. Le riconosco, però, una valenza più empirica che teorica, almeno in origine. Qualsiasi pratica sperimentale presuppone infatti strumenti, anche rudimentali, di partenza, costruiti per uno scopo o ad esso adattati. In questo caso, l’esistenza di codici di riferimento, di linguaggi o l’idea stessa di codice sono lo strumento.

In un approccio scientifico, la successiva elaborazione teorica risulta di fatto inevitabile. I dati grezzi, ricondotti a un preciso linguaggio formale, rielaborati e riletti, suggeriscono ipotesi ulteriori da mettere al vaglio. Anche la semplice riformulazione della domanda di partenza può segnare un progresso. La predisposizione intellettuale a non accogliere ogni avanzamento come assoluto è dunque decisiva. È una perenne guerra di posizione con il significato e la sua perdita, sia in senso scientifico che letterario. Da questa prospettiva, uno dei tratti più fertili della pratica asemica si esprime nell’intrinseca capacità di racchiudere domande trattenendo le risposte.

Ma cosa succede se gli strumenti di misura sono sabotati o starati? È questo il risultato ultimo della scrittura asemica? Un’inesauribile raccolta di evidenze non diversamente accertabili e quindi non correlabili? Personalmente, non ritengo sia la strada da seguire per liquidare il fenomeno, anzi proprio la riflessione teorica su ciò che si sta facendo indica l’assoluta affidabilità e consapevolezza nella calibrazione continua dello strumento prescelto.

In merito al più vasto campo dell’illeggibile, cui essa guarda, faccio di solito leva sul carattere evocativo di certe immagini e sui meccanismi interpretativi che esse innescano con naturalezza. Talvolta mi riferisco alla pagina asemica come a una porta di cui si cerca inutilmente in tasca la chiave smarrita, senza accorgersi che è appena socchiusa. La superficie testuale si pone quale diaframma estremamente sottile, attraverso cui l’unità iniziale del significato, che forse da qualche parte sussiste, è fatalmente diffratta proprio nel tentativo di localizzarsi e definirsi pienamente, come una linea di luce a demarcazione del buio.

Per contro, la scrittura “leggibile” tende, nella sua trasparenza, a offuscare elementi formali non meno significanti, sovrastati dall’intelligibilità del contenuto: la forma delle lettere, la distribuzione degli spazi, la misura dei versi e, in essi, delle parole.

Il codice, insomma, sembra un veicolo temporaneo, forma transitoria di qualcosa che ha fretta di comunicarsi, trasmutando forma. Rapportando questo all’Universo, sembra qui di ravvisare la stessa inarrestabile dinamica dell’energia, di cui tutto consta e da cui (e in cui) tutto si trasforma.

Allora, potremmo dire che un testo asemico è la muta del rettile sgusciato altrove, che in essa si è costruito forma vivente, la veste che ancora molto racchiude di chi l’ha portata. Oppure, continuando il gioco con la Fisica, la traccia di codice superstite è significato non liberato, intrappolato nella sua stessa rappresentazione, è difetto di energia, residuo di massa.

La lettura di un testo tradizionale sembra consumarsi progressivamente come esperienza in sé, per via della crescente familiarità con il contenuto. L’evidenza di un testo e la sua riduzione a essa distruggono dunque la capacità di continua significazione del testo stesso. La poesia dovrebbe sostanzialmente opporre resistenza a ciò. Altrettanto valga per una pagina asemica, per la quale, non a caso, si parla di scrittura, senza distinzione ulteriore tra poesia e prosa.

Altrove, mi è venuto naturale un accostamento a suoni o discorsi su nastri smagnetizzati da recuperare. In tal senso, Transcripts from demagnetized tapes (LN 2021) è un archivio di residui alfabetici e segni asemici variamente intrecciati. Come ci sono frequenze nel suono o nella luce che, verso l’alto o verso il basso, sfuggono ai nostri dispositivi biologici di percezione, la pagina asemica agirebbe come un sensore in grado di intercettare quei segmenti di energia, avvicinandoli indefinitamente a uno stimolo udibile o visibile, ma mai riducendoli a esso.

E ancora, la pratica asemica è la scrittura prima della parola, è ciò che la parola è prima che incontri un alfabeto, il suo carattere elementare, indivisibile. In questo senso, il suo irrompere nel significato discostandosene prontamente ha qualcosa di primigenio e originario.

Federico Federici, A pigeon first attempts to fly, 2021

MG: Quando e come hai incontrato la scrittura asemica, e come l’hai “scelta” come uno dei linguaggi (o anti-linguaggi) praticabili? Ha un ruolo determinante, anche sul piano quantitativo e/o del tuo interesse, rispetto al lavoro “testuale lineare”? Se non è prevalente, in che rapporto si pone, allora, con la tua scrittura leggibile?

FF: Il primo incontro risale a una ventina di anni fa, in maniera inconsapevole, sul confine tra la pittura e un approccio, per me nuovo, con il testo quale forma tipografica, certamente non nel solco dei calligrammi. Avevo progressivamente perso interesse nell’arte figurativa, persino nelle sue potenziali implicazioni simboliche. Questo ebbe immediate ripercussioni sulla mia percezione del testo come puro e semplice congegno metrico.

A ben pensarci, si è trattato di un lavoro di sintesi che ha coinvolto anche il mio percorso scientifico. Per anni, l’indagine sperimentale mi aveva infatti consegnato sterminate serie di dati da “semantizzare” secondo certe leggi, o dai quali semantizzarne altre. Il problema da affrontare era analogo, pur nella diversità dei linguaggi.

Alcune settimane fa, in uno dei gruppi Google che seguo, si è sviluppata un’interessante discussione intorno all’intercambiabilità (o meno) dei termini asemico e desemantizzato. Personalmente, tendo ad associarli a fenomeni distinti: l’uno a lavori già in origine asemici, l’altro a quelli giunti a perdita di semanticità attraverso uno specifico processo.

D’istinto, desemantizzare mi fa pensare a smagnetizzare, cioè ridurre o rimuovere l’ordine indotto da qualche campo esterno originario, secondo il quale la materia aveva reagito riorganizzandosi. Il testo-magnete perde così la pienezza di significato raggiunta nell’orientamento dei propri “domini”: più torna a un’iniziale instabilità, più tende a uno stato intrinsecamente asemico, pur senza mai realizzarlo.

La prospettiva implicita nella questione è piuttosto interessante. Le parti “lineari” potrebbero rappresentare l’immediata semantizzazione del pensiero, la “magnetizzazione” di indicatori elementari, inizialmente non correlati, mentre quelle asemiche possiederebbero i medesimi indicatori elementari, pur non esplicitandoli secondo procedure rigidamente regolate. «Il solo elemento di congiunzione tra linguaggio e intrinseca necessità è una regola arbitraria. È la sola cosa che, da questa intrinseca necessità, si possa formulare in una proposizione» (Ludwig Wittgenstein, Philosophische Grammatik, Oxford 1969, S. 133)

Alla maniera in cui, da fisico, possono interessarmi le proprietà e il comportamento della materia in condizioni talvolta estreme, qui affronto la materia testuale. Non intendo certo istituire, per pura suggestione, una perfetta, quanto improbabile, corrispondenza tra i due ambiti, ma indicare un diverso approccio alla testualità in senso lato, probabilmente utile nei casi meno convenzionali. Che si possano abbracciare arte e scienza con un unico sguardo non è una novità, anche solo considerando l’arte degli ultimi decenni.

La “scrittura” sembra manifestarsi solo in questo laboratorio. Ci sono voluti quasi quindici anni affinché il mio ultimo libro, Profilo minore (Aragno 2021), giungesse alla stesura di oggi. La disposizione di interi segmenti di senso compiuto su pagine affiancate, o su più colonne nella stessa pagina, apre alla possibilità di rendere significante la lettura su percorsi differenti. L’intero campo visivo è interrotto da spazi bianchi e disseminato di versi o blocchi testuali sospesi. Si può davvero parlare dell’azione di un campo di significato, indipendentemente dall’occasionale intensificarsi o allentarsi nella correlazione tra le parti. Gli stessi principi di massima, validi per le tavole più strettamente visuali, sono ora all’opera.

In EIS, al momento inedito, ho cercato di desemantizzare, nel senso precisato poco sopra, intere parti di testo, predisponendole a rappresentare fasi di vita diverse dello Snæfellsjökull, piccolo ghiacciaio islandese che ricopre l’imboccatura di un vulcano. A blocchi testuali rigorosi, se ne alternano altri con livelli variabili di astrazione semantica, secondo una sorta di ciclo dell’acqua. Come suggerisce Peter Schwenger nello scritto che introduce il libro, la disseminazione di qualsiasi traccia di scrittura insieme risponde e prende parte al campo che si va formando, con ciò intendendo tutta la rete di interazioni (foniche, visive, linguistiche ecc.) in sé continuamente significanti. L’assenza di un codice immediatamente riconoscibile, o la presenza di un blocco o di un’intera pagina bianchi non vanno intesi come un’improvvisa lacuna testuale, ma come vera e propria impronta del testo che tale deve essere in quel punto, in quel momento. Mi torna così in mente il modo in cui un amico, un tempo addetto ai sonar in Marina, era solito parlare del suo lavoro: certi sottomarini lasciano appena una scia di silenzio attraverso i mari.

Federico Federici, Halting problem, 2021

MG: L’attività in ambito scientifico è in relazione, indirettamente o meno, con il versante artistico e letterario? E come, su questo doppio versante, incide invece la costante triangolazione linguistica: italiano, tedesco, inglese?

FF: Come discusso in precedenza, la Fisica mi aiuta spesso a delineare una cornice teorica coerente, ma può suggerire anche i temi, o persino gli strumenti per indagare fenomeni altrimenti inaccessibili al puro testo.

Alla base di A private notebook of winds (LN 2020), per esempio, sta una serie di registrazioni di vento contro/intorno a cortecce di alberi morti lungo l’Alta Via dei Monti Liguri. Si tratta, dunque, di una di combinazione dei due approcci. Sui tronchi di un piccolo tratto di bosco, ho posato un set di microfoni piezoelettrici, poco sensibili alle vibrazioni dell’aria, ma adatti a registrare il suono prodotto dalle sollecitazioni interne al materiale cui sono appoggiati. Mi sono poi seduto da qualche parte sul sentiero e ho iniziato a prendere appunti.  A forme metriche rigorose, persino tradizionali, forse accentuate dai colpi sui tasti della vecchia Olivetti Studio 46, alternavo l’estro dell’improvvisazione asemica. Mi concentravo sulle impressioni acustiche più sottili dell’aria intorno ai tronchi o attraverso le foglie cadute e i rami spezzati. La lingua doveva farsi corda vibrante, membrana adatta a registrare gli sbalzi minimi di una indefinita forma interiore in risposta al vento. L’ascolto a posteriori delle tracce è servito a perfezionare il lavoro e ad assemblare i fogli sparsi in un libro d’artista.

Nel caso di EIS, ho impiegato la stessa tecnica per registrare i suoni del ghiacciaio in scioglimento. Ne ho poi combinato il fruscio e gli scricchiolii in una vera e propria composizione, con lo scopo di delineare una prospettiva puramente acustica di quell’esteso campo asemico che resiste comunque a lasciarsi dire.

In tutto questo, affiora continuamente una triangolazione linguistica in senso fortemente musicale: strumenti diversi (le lingue) suonano sempre una sola musica (la scrittura). Ogni parola ha un suo timbro, ancorché non semplicemente legato alla sola vocalità. Essa mantiene un carattere distintivo da lingua a lingua, per via di una leggera eccentricità del proprio alone semantico. È qui che, forse, si fonda l’antica idea d’intraducibilità del testo. Anche nell’aggiustare uno spartito perché si adatti meglio a questo strumento o a quello, qualcosa è tolto e qualcos’altro aggiunto.

Su un piano più teorico, tendo ad assimilare ogni lingua a un particolare tipo di geometria, utile a suggerire una forma per l’Universo – uso deliberatamente questo termine senza enfasi, a indicare genericamente tutto ciò che costituisce elemento di confronto, contrasto o complemento alla pratica individuale. Staccarsi dalla visione euclidea della propria lingua madre è un buon modo per aggirarne il piatto, benché stringente, conformismo e smettere di abbracciare le “cose” (e l’idea stessa di “cosa”) in quello specchio lucidato male. La scrittura deve innescare un aggiustamento, una deriva della “realtà”, uno spostamento verso qualcosa di più astratto forse, certamente non essere un rassicurante esercizio di contenimento.

MG: Pensi che la pratica dell’asemic writing sia diversa da altre pratiche verbovisive (poesia concreta, poesia visiva, …)? O ne fa parte?

FF: Ritengo sia una declinazione possibile, ma un eccesso di catalogazione congelerebbe le dinamiche virtuose di tale frammentarietà creativa. L’indagine intorno all’elemento asemico può riguardare uno scrittore quanto il senso del colore puro un pittore. Pur da presupposti diversi, Modigliani e Klee si soffermarono a lungo sul rapporto tra linea e colore. Qui il confine corre invece tra linea e parola, con l’inevitabile carico di significazione che ne consegue. Sullo sfondo, intravedo il vecchio pregiudizio del testo, che rischia di essere per i letterati un fattore limitante non meno oscuro della ricerca dell’etere per i fisici di inizio novecento.

Il testo è uno spazio di relazioni. Prosa e poesia ne sono espressione secondo schemi abbastanza convenzionali. Il significato richiede, in definitiva, di stabilire i termini di tale nesso. Ritornerei dunque all’idea di campo sviluppata con Peter Schwenger. Ipotizzare che sussistano testi che ne siano privi è altrettanto fuorviante che tentare di concepire uno spazio assoluto eppure vuoto, nel quale scorra il tempo. Al primo segno, il meccanismo del significare si innesca immediatamente. Non esiste superficie realmente vuota: il lettore/spettatore vi proietta un’aspettativa di testo o di immagine; lo scrittore/pittore attende che il proprio gemito primordiale riecheggi in una consonante sorda.

Federico Federici, Motherboard and cells, 2021

MG: Testi asemici, sebbene ancora non battezzati così, sono apparsi spesso qui e là nel corso del secolo scorso. Poi all’inizio del XXI sembra che una gran quantità di artisti/scrittori, un po’ dappertutto nel mondo, abbiano iniziato a concentrarsi sull’asemic writing. Non si tratta più dell’occorrenza casuale e occasionale di materiali asemici nel più ampio contesto dell’arte recente, ma sembrerebbe davvero – ora – una pratica specifica, peculiare, addirittura una corrente. Sei d’accordo?

FF: Quando, in passato, mi sono posto il problema, ho tentato di inquadrarlo al di là del mio interesse, all’inizio non strettamente formale, nella scrittura asemica. Un conto è l’affiorare di precisi fenomeni storicamente determinati, un altro la dimensione individuale nell’affrontarli. Ho forse trovato un argomento per me convincente in Simulacres et Simulation (1981) di Jean Baudrillard, laddove egli profeticamente afferma: «viviamo in un mondo in cui c’è sempre più informazione e sempre meno significato». Sono quindi portato a inquadrare la diffusione della scrittura asemica come tratto sintomatico dei tempi.

L’informazione è diventata merce incredibilmente remunerativa nella grottesca mise-en-scene delle reti sociali, configurate a perfetta e idealmente sconfinata catena di distribuzione. È il mastino messo a guardia di una presunta condizione di libertà, moderna e finalmente inclusiva. Per tale ragione, deve essere assimilabile in fretta e scambiabile apparentemente alla pari, come un buono pasto per un pezzo di sapone. Il nuovo consumatore di informazione, ora perfettamente integrato e globalizzato, si aggira in questo gran bazar che gli si apparecchia innanzi. Mentre aggiorna e condivide meticolosamente la lista della spesa, quella dei libri da leggere, dei luoghi visitati e delle nuove amicizie strette come un mantra di successo, sedotto dall’ordinaria replicabilità di questo automatismo e dai punti di fuga scintillanti delle merci, diventa via via più inconsapevole della propria sostanziale marginalità – i mercati non vanno disturbati. Si riempie la testa di argomenti infondati di cui sa nulla, sovraesposti, quindi estremamente convincenti. «Sei ciò che riesci a comprare», dice lo slogan. Il ribaltamento del rapporto domanda-offerta, domanda-risposta è compiuto. Dove prevalgano le risposte, le domande sono sospese e il problema (apparentemente) risolto. Il fatto che tale problema non sia, in realtà, neppure stato posto, è alla base dell’informazione involontariamente “consumata”.

Il rinnovato interesse per la scrittura asemica potrebbe dunque ascriversi a un suo ruolo potenzialmente sovversivo, in quanto paradossalmente reazionario nel contesto. Non specchio delle dinamiche descritte, ma approccio che impone riflessione, nel ripristino di un ordine dialettico. Dallo slancio vitale di un contenuto sempre inespresso, il significato non sfocia in «sempre più informazione». Rimane piuttosto come ipotesi da esplorare, nell’equilibrio formale di due forze: la domanda e la risposta. Se di una parola si indaga spesso la radice, qui l’interesse si sposta sullo stadio antecedente: il seme.

MG: Alcuni autori affermano che un vero e proprio “movimento” asemico sta – più o meno rapidamente – evolvendo, crescendo. È anche la tua idea della situazione? O pensi che, invece, si tratti semplicemente di una estesa costellazione di individualità differenti, ben lontane dal poter essere raccolte sotto un’idea di “movimento”?

FF: È spesso arduo cogliere se e come artisti, impegnati nello stesso campo di ricerca, nella stessa epoca, interagiscano tra loro. La stesura di un manifesto sottoscritto porrebbe fine alla questione, ma aprirebbe all’istanza successiva: come superarne i confini? D’altro canto, arte e scienza hanno da tempo mostrato di sapersi evolvere senza il vincolo di una regola da infrangere.

Trovo la comunità bene organizzata in rete, sia sulle piattaforme più in voga, che attraverso gruppi e mailing list, utili soprattutto a raccogliere o a rilanciare spunti teorici. Un’attenta ricognizione di “The New Post-Literate”, fondato da Michael Jacobson nel 2008, offre un quadro dettagliato del potenziale in atto e può suggerire perché qualsiasi idea di canone, almeno in senso convenzionale, si riveli oggi inadeguata. Ciò non toglie che numerosi artisti già si distinguano per l’impegno quotidiano nel declinare idee di massima in un senso inedito e fortemente divergente.

Alla base di una prospettiva duttile e moderna, proporrei lo sciame come paradigma e la comunità in rete come arnia, ispirandomi alla swarm intelligence che bene si adatta alla natura dislocata ed essenzialmente informatizzata dei contatti.

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