Il problema è stato posto nella sua nuda drammaticità dal recente saggio di Wu Ming 1 su QAnon (La Q di complotto. QAnon e dintorni. Come le fantasie di complotto difendono il sistema, Alegre 2021), la galassia ultraconservatrice all’origine dello sfregio al Campidoglio nei giorni dell’insediamento di Joe Biden alla Casa Bianca: fino a che punto sono produttive, nell’era del web, la guerriglia semiologica e le tattiche di détournement teorizzate e praticate da Guy Debord oltre cinquant’anni fa? Il retroscena è noto: pare (la certezza, non dico quella hegeliana, non è del mondo delle fake news…) che QAnon abbia avuto origine dal lusus situazionista di un attivista, il quale, sotto uno pseudonimo probabilmente ispirato al romanzo Q di Wu Ming (di qui l’interesse, a tratti anche angosciato, dell’autore del saggio citato all’inizio), ha iniziato a parodiare le teorie cospirazioniste diffuse in rete, ottenendo – beffarda eterogenesi dei fini – l’effetto opposto di alimentarle con nuove leggende (nere). Se la dialettica dell’Illuminismo era cosa nota, si va ora prospettando un’inedita, più insidiosa dialettica della parodia che a quella crisi aveva tentato di reagire. Che cosa opporre all’inghiottitoio delle fake news, a questa massa fluida e informe che è capace di inglobare anche i tentativi di demistificarla con le sue stesse armi?
Da più di un decennio Pietro Montani va elaborando una riflessione su ciò che egli chiama il «sensorio digitale», la quale, sebbene prioritariamente incentrata sul rapporto con il passato, in particolare quello traumatico, mira a estendersi anche all’archivio web del presente. Montani, al pari di Wu Ming 1, denuncia i limiti del détournement situazionista, tra i quali egli addita in particolare l’inabilità a produrre «autenticazione». Non sempre la parodia è in grado di produrre significato e significatività, anzi talvolta essa è esposta alla propria neutralizzazione, volontaria o meno, da parte di particolari contesti di ricezione.
La nozione di autenticazione è al centro di un precedente saggio dell’autore, il cui titolo suggerisce la soluzione prospettata: L’immaginazione intermediale (Laterza 2010). In effetti, per Montani non c’è fact-checking che tenga, per quanto si tratti di pratica utile in casi e contesti determinati (oltre che strategia di sopravvivenza per il giornalismo mainstream): l’autenticazione più fondata, ai tempi del web, deriva per l’autore da pratiche intermediali, nelle quali parole, suoni, immagini fisse e in movimento riguadagnano, attraverso il montaggio, un potere di significazione. Potere paradossale, certamente, in quanto ottenuto attraverso l’artificio (in questa direzione andrebbero riattualizzate le fortunate tesi di Omar Calabrese sull’età neobarocca); per riprendere una distinzione di Matteo Meschiari (in Artico nero, Exòrma 2016), una forma di intensità, se si vuole, più che di verità, ma pur sempre una via di fuga per non rimanere intrappolati nelle paludi delle fake news.
Nel suo ultimo saggio, Emozioni dell’intelligenza. Un percorso nel sensorio digitale, Montani rintraccia pratiche di autenticazione negli stessi social media, le forme più svilite di comunicazione digitale, spesso sbrigativamente liquidate sulla base degli atteggiamenti narcististici o delle pratiche di cyber-bullismo che effettivamente vi allignano. Come mostra il caso di Feroza Aziz, giovane donna di origini afghane il cui esempio è ricordato da Montani a inizio libro (il cui limite più vistoso – a dire il vero l’unico – consiste nella scarsità di esempi tratti dai social media, a confronto con la sontuosa pletora di esemplificazioni tratte dal cinema), anche TikTok, la piattaforma più effimera e “rudimentale”, può diventare luogo di elaborazione della complessità del reale, se non addirittura di traumi individuali o collettivi. Così Feroza Aziz è riuscita a lanciare un messaggio contro la repressione delle minoranze, aggirando le maglie della censura cinese, allestendo un finto set da influencer sul social dei ragazzini. Ciò è potuto accadere, secondo Montani, in virtù della specifica strutturazione intermediale di questo genere di piattaforme, in grado di attivare potenti processi di autenticazione. Questi ultimi fungono a loro volta da stimolo per quelle che, seguendo Lev Vygotskij, l’autore chiama «emozioni intelligenti». Il montaggio di immagini e parole dà vita a una «scrittura estesa», la quale corrisponde in realtà alla natura più profonda dell’immagine stessa, se diamo retta all’etimologia del russo obraz (‘immagine’, appunto) proposta da Ejzenštein, che la ricollega al ‘ritagliare’ e alle ‘spaziature’ piuttosto che al ‘plasmare’: a un’articolazione, dunque, simile a quella del linguaggio.
Sviluppando un discorso già presente in altri saggi, Montani rintraccia nel cinema il precedente più significativo della nuova forma espressiva sincretica, in particolare nella «cinescrittura» (Kinopis’mo). Più che «proiezione», osserva Montani a partire da Ejzenštein e Dziga Vertov, il cinema è «iscrizione» su uno schermo. In ciò consiste la sua specifica «figuralità» (la genealogia del termine non è specificata, ma non stupirebbe sentire evocato il nome di Auerbach), da intendersi come costituzione intermediale e pertanto da distinguersi dall’«immaginario cinematografico», sul quale si basano le teorizzazioni dello «specifico» della settima arte.
Riprendendo un’espressione del saggio di Benjamin sull’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Montani osserva che il cinema è valso come «addestramento» alla «scrittura estesa» di cui potenzialmente ognuno, oggi, può essere l’autore; il che vale anche come efficace messa in mora di troppo rigide delimitazioni tra ‘cultura alta’ e ‘cultura bassa’. Si potrebbe addirittura risalire, più indietro ancora, alla tradizione rinascimentale e barocca degli emblemi e delle ‘imprese’, forme verbovisive sincretiche nelle quali – a dar retta alle dichiarazioni dei teorici – troviamo un consimile riferimento a un orizzonte di autorialità diffusa; troppo differenti risultano tuttavia le condizioni tecnologiche, affinché si possa parlare di vera e propria analogia e, su tali basi (giusta la lezione della morfologia storica di Carlo Ginzburg), ipotizzare discendenze e filiazioni.

Oltre che una genealogia – ed è questa la parte più innovativa del libro, rispetto a quelli precedenti dell’autore – Montani propone un saggio di antropologia dell’intermedialità, che affronta in modo originale problematiche emerse con autori come Belting o Mithen. Il capitolo secondo, dedicato alla «mediazione immaginativa», immerge il lettore nei primordi dell’umanità, quando non esisteva il linguaggio e l’immaginazione, anziché immagini, produceva artefatti materiali e strategie di carattere cooperativo. Da una specializzazione delle funzioni dell’immaginazione, in un passato di homo tutto sommato recente, nascerà anche il linguaggio, di lì in poi ineludibile polo di confronto per l’immagine; ma nel suo fondo, data la comune origine, a essa vincolato da un’«essenziale solidarietà». Qui il discorso di Montani lambisce le teorie warburghiane sull’originaria «coalescenza» di espressione verbale ed espressione iconica, e le prolunga nell’attuale panorama mediale del web. Perché, anche nelle sue forme digitali più avanzate, l’immagine reca necessariamente traccia di questa condizione arcaica, tanto più rilevante nel momento in cui «è in corso una macroscopica “verifica dei poteri” cognitivi ed emotivi nell’ambito dei rapporti tra parola e immagine». L’evocazione fortiniana lascia intendere quanto engagement implichino e possano generare riflessioni sui fondamenti come quella di Montani.
Pietro Montani
Emozioni dell’intelligenza. Un percorso nel sensorio digitale
Meltemi, 2020, pp. 154, € 15
In copertina: An Xiao, The Artist is Kinda Present (reenactment Twitter-mediato di The Artist is Present di Marina Abramovic, MOMA, 2010)