Michel Leiris, la scrittura e il soggetto 

La struttura del soggetto e la possibilità di scrivere, l’irruzione dell’eterogeneo nel simbolico e lo statuto della parola sono immediatamente messi in gioco dall’attività letteraria di Leiris, fin da L’Âge d’homme. La separazione dal corpo, dalla soggettività agente – che la scrittura impone e garantisce – deve essere disgregata attraverso un intervento violento, capace di trasformare l’invenzione in rischio e in confronto con il limite.

Secondo Leiris, l’attacco ai meccanismi di separazione e di formalizzazione del linguaggio non può avvenire al di fuori di uno scontro, di una restaurazione del pericolo in cui il soggetto scrivente si installa, per spezzare una delle forme essenziali di neutralizzazione del simbolico. Proiettare tutta la contraddittorietà del desiderio, il percorso di negatività che segna il soggetto processuale all’interno della comunicazione letteraria, fare della contraddittorietà e delle frustrazioni del progetto esistenziale l’oggetto della scrittura, rappresenta per il Leiris dell’Âge d’homme una prima ipotesi di iscrizione dcl lavoro letterario nell’orizzonte dell’autenticità e del confronto radicale con la verità. Scrive Leiris nel dicembre 1945/gennaio 1946, analizzando il processo di elaborazione dell’Âge d’homme:

Lo tormentava un problema, che non gli lasciava tranquilla la coscienza e gli impediva di scrivere: forse quello che avviene nel campo letterario è senza valore se rimane “estetico”, anodino, esente da sanzioni, se non c’è nulla, nello scrivere un’opera, di quello che per il torero è il corno aguzzo del toro (e qui ricorre una delle immagini più care all’autore). In realtà soltanto questo, per la minaccia materiale, che rappresenta, conferisce un valore umano alla tauromachia, le impedisce di essere grazie vane da ballerini.[1]

Così non solo l’attività letteraria è sottratta alla gratuità e all’anodino, ma il soggetto scrivente è ridefinito esistenzialmente in termini di precarietà e di pericolo, è piombato nell’incertezza totale di un’autoesposizione, che non è più garantita da alcun valore, né circoscritta da alcun meccanismo di difesa. Affidandosi a un particolare esercizio di scrittura, Leiris non può spezzare l’opposizione corpo/simbolico, ma può tentare di disgregarne l’articolazione prevista dalla struttura della separazione e modificate il rapporto scrittura/soggetto o, come si diceva una volta, arte/vita.

Tuttavia il progetto di trasformazione della letteratura e del suo funzionamento sociale non può limitarsi a una ristrutturazione dei materiali interni al testo: per il Leiris dell’Âge d’homme si tratta di operare una ridefinizione del letterario attraverso l’altro, l’eterogeneo, cioè mediante il soggetto.

Questa implicazione (che, com’è ovvio, non è affatto nuova nella storia della letteratura) si presenta tuttavia in Leiris con un doppio movimento: da un lato è smascheramento dell’io, sottrazione all’io della maschera e rivelazione di un’immagine più profonda che incrina la figura sociale del soggetto e lo restituisce ad una più complessa dialettica di motivazioni e di comportamenti; dall’altro la rivelazione dell’io è auto­proiezione nella dinamica del pericolo, implica un processo segnato dalla rottura, dalla lacerazione, dall’autodistruzione. La rivelazione dell’io attraverso la letteratura è per il Leiris dell’Âge d’homme il prodotto di un’effrazione, di uno scardinamento dell’orizzonte formale dell’io, della polverizzazione della sua rigidità socialmente oggettivata: non può essere altro che un fatto traumatico. Dire quello che si è sospende le garanzie, il credito sociale acquisito, introduce un elemento di disturbo persino nelle relazioni più strette. Se la scrittura irrealizza le cose e media attraverso il linguaggio ogni rapporto, se la scrittura è inserita nel simbolico in quanto struttura linguistica, allora l’effrazione del simbolico, la sua riconnessione alla dinamica del desiderio potrà avvenire soltanto attraverso un duplice movimento di reintroduzione dell’eterogeneo nel testo e di reintenzionamento del testo nell’eterogeneità del soggetto.

L’Âge d’homme e l’ipotesi di una letteratura come tauromachia sono appunto questo movimento, questa dialettica dello smascheramento che è soprattutto rottura delle separazioni e ricostituzione di una processualità lacerata, scissa, ma non più tagliata tra corpo e simbolico, scrittura e soggettività agente. Nella vertigine della confessione Leiris incrina la struttura della rimozione letteraria: da un lato parla direttamente della propria sessualità rivelando tutto un orizzonte di esperienze che la morale sociale e la rimozione culturale tendono a escludere dalla comunicazione, in un duplice meccanismo di superamento di un divieto sociale e di un’auto­difesa dell’io; dall’altro spezza la neutralizzazione esistenziale del testo, la sua natura di oggetto separato dal soggetto e lo fa diventare un atto, un gesto che si rivolge contro l’io e  lo sottopone anche a un processo di degradazione.

Fare della scrittura un territorio di rivelazione delle pratiche di un corpo che è il proprio corpo e di un oggetto psichico che è l’ego strutturato dalla propria coscienza significa – secondo Leiris – dismisurare insieme la scrittura, la coscienza e il corpo stesso e produrre forme di «infinitizzazione del senso»[2]. L’attacco al simbolico come attacco ad un meccanismo di equilibrio che garantisce il presente del soggetto è anche una violazione dell’io, implica nuovi livelli di strutturazione e nuove articolazioni dell’esistente.

Questo, dunque, il progetto di poetica, l’intenzionalità produttiva che rende possibile L’Âge d’homme. Ma l’oggetto occultato e svelato che Leiris propone nell’Âge d’homme ha una struttura tendenzialmente rigida, è una realtà psichica già acquisita e filtrata dalla coscienza, e sostanzialmente depurata dall’eterogeneo che la percorreva. Nell’Âge d’homme Leiris tratta l’oggetto occultato e svelato insieme come forza del non detto e come materiale letterario, lo organizza strutturalmente e linguisticamente all’interno di un flusso controllato. L’oggetto occultato e svelato opera insieme come processo di irruzione di altro e come materiale già strutturato e ridefinito, incrina uno statuto comunicativo, ma non ne spezza violentemente il sistema di significazione.

Così L’Âge d’homme non è un flusso di confessione ma una rielaborazione letteraria complessa, che introduce mediazioni continue e distanzia di fatto il meccanismo di autorivelazione.  Basta scorrere l’indice del volume e i titoli dei capitoli per avere un’idea di come la mediazione letteraria intervenga a distanziare il soggetto esistenziale narrato e a inscriverlo in un orizzonte di riferimento culturale fortemente connotato: Personaggi tragici. Antichità. Lucrezia. Giuditta. La testa di Oloferne. Lucrezia e Giuditta. Gli amori di Oloferne. Il banchetto di Oloferne. La zattera della Medusa[3]. 

Sono titoli che rinviano a personaggi storici o biblici, carichi di implicazioni culturali, che frenano l’impulso della confessione per sottoporlo ad una simbolizzazione esplicita. Il ricorso a Lucrèce e Judith attesta la volontà di leggere le donne incontrate in relazione a figure mitiche e quindi un’apertura alla mitofania che sottolinea una debolezza dell’interpretazione esistenziale immediata. E anche l’evocazione più originale di Holopherne per la figurazione di sé, legata soprattutto al timore di una mutilazione alla gola, o al fantasma della perdita della testa, riflette il medesimo processo.  La comprensione piena del senso dei rapporti avviati con le donne incontrate è realizzabile solo in relazione all’orizzonte mitografico. È come se il rapporto scrittura della confessione/eventi veri narrati non fosse sufficiente a capirne il significato. E anche se l’istanza rivelativa non viene cancellata è tuttavia inscritta in un quadro di più ampia significazione, che se non smentisce sicuramente riduce l’istanza di rivelazione del sé e il meccanismo di trasformazione delle condizioni della scrittura. In questo modo la confessione si inscrive in pattern definiti dal riferimento culturale e diventa un elemento inscritto in una gabbia altra, preesistente, storicamente consolidata, perdendo in radicalità immediata. L’autorivelazione è quindi un elemento del testo che non è strutturato dall’andamento della confessione, ma dal quadro di evocazioni culturali attuate.

Così L’Âge d’homme si rivela qualcosa di parzialmente diverso dalle intenzioni e dal programma letterario enunciato dall’autore e la sua scrittura appare quindi non come un flusso libero, ma come un movimento inscritto in un ampio orizzonte culturale e da questo condizionato. E alla fine la volontà di confessione, che certo permane, risulta inscritta e filtrata da una formalizzazione simbolica. Questo carattere, va detto subito, non sottrae valore all’operazione leirisiana, ma ne cambia il progetto e l’assetto e finisce per affermare, accanto alla confessione, la letterarietà del testo.

Nell’Âge d’homme lo smascheramento dell’io è sì un confronto con il non detto, ma è anche, di più, un gioco di specchi in cui l’io si ritrova perché non si è mai perduto veramente, un processo parallelo di disgregazione dell’immagine sociale e di riduzione dell’io alla rigidità di un oggetto psichico, che permette il padroneggiamento dell’eterogeneità. L’Âge d’homme è insieme un processo di moltiplicazione delle immagini e delle funzioni dell’io e di solidificazione di un materiale psichico ricondotto alla dialettica della conoscenza. Questa duplice natura del progetto letterario dell’Âge d’homme si ribalta d’altra parte nel carattere programmato e cristallizzato della ricerca scritturale. Come l’io analizzato, la scrittura di Leiris è più registrazione di una rigidità strutturata dall’ analisi che dinamica in trasformazione. Ma la prevalente rigidità dell’io esibito come un oggetto determinato, un’entità psichica prodotta e delimitata dalla coscienza, tende a trasformare la scrittura in on rendiconto che ha il rigore necessario della configurazione dell’occultato, del non detto, ma non la sua forza dirompente, non la sua aggressività che disgrega i codici. L’io oggettivato non diventa soltanto un ente psichico che l’io scrivente analizza. L’io oggettivato è anche sottoposto ad una sorta di mineralizzazione, di riduzione a cosa. Diventa un libro.

Essendomi accanito a dare forma alla mia statua e avendo parlato solo di me, era di me che si parlava quando si parlava del libro, e questa statua che avevo preso tanta cura a scolpire la vedevo ora, con orrore, levarsi come una pietra funeraria nella realtà esterna che aveva preso.[4]

L’io trasformato in libro è diventato una statua, una pietra funeraria. Il libro dell’io anticipa la morte, è una sorta di fissazione funeraria dell’io, è il segno della morte dentro la vita. Quelle parole incatenate attorno all’io materializzano la sua deiezione dalla vita, la sua trasposizione in linguaggio, segnano, drammaticamente, il suo distanziamento dalla dinamica esistenziale, la sua sottrazione al mondo. Il libro dell’io è la morte in cui il soggetto ha cristallizzato il proprio io, affidandolo a quell’alterità vivente che è la scrittura e facendolo diventare altro da sé. Il libro dell’io è la morte che il soggetto ha vissuto per scrivere, sottraendosi alla vita, negandosi al flusso esistenziale per affidarsi alla mineralizzazione della parola concatenata. Nella cristallizzazione allucinata dell’Âge d’homme la morte sovrana si afferma come condizione necessaria dello sguardo analitico, forza produttiva che garantisce la scrittura.

L’io dell’Age d’homme è un io che ha rimosso totalmente la struttura del divenire per trovare nella fissazione della scrittura una sanzione rovesciata, capace di attribuirgli una garanzia permanente di significato, cioè di valore. Ma la morte non è solo la forma che sovrasta l’io cristallizzato dell’Âge d’homme, è anche l’apertura infinita che il soggetto scrivente deve solcare e possedere se vuole accedere alla scrittura. «Il linguaggio è la vita che porta la morte e si mantiene in essa», scrive Blanchot nella Littérature et le droit à la mort[5]. L’esercizio della scrittura è segnato dalla figura della morte, implica per il soggetto scrivente il porsi nella sospensione radicale della vita, nell’incombere della morte[6]. La morte nella scrittura appare in primo luogo come dialettica dell’assenza che informa lo statuto della parola. La parola implica l’assenza delle cose.

L’angoscia del soggetto scrivente è prodotta dall’irrealizzazione, dalla morte in cui piomba le cose di cui parla. Ed è un’angoscia che non implica tanto la sparizione del soggetto scrivente, quanto il suo inserimento in una dialettica dell’assenza. Ma quale angoscia investe il soggetto scrivente e la pratica stessa della scrittura quando l’oggetto delle parole concatenate, la cosa irrealizzata dalla parola è l’io stesso, è la realtà psichica ed esistenziale stessa dello scrivente? La forma particolare dell’intensità dell’opera di Leiris è proprio questa: che l’oggetto irrealizzato dalla parola letteraria strutturata, la cosa inabissata nell’assenza, nel vuoto, sottratta dalla nominazione alla dinamica vitale è l’io, è il soggetto scrivente stesso.

Così la letteratura di Leiris si installa in una contraddizione radicale, è costituita da un movimento processuale che si rovescia su se stesso e sembra sottrarsi continuamente la possibilità di essere. La vera tauromachia della scrittura leirisiana è allora non tanto lo smascheramento del proprio io, l’esibizione del proprio negativo, ma l’autoproiezione in un esercizio linguistico che nello stesso tempo sottrae la realtà all’io e l’io al reale, sospende il contesto di relazionalità intersoggettiva e piomba il flusso esistenziale nella glacialità della parola. Il lavoro scritturale di Leiris è, dunque, in primo luogo rapporto con la propria assenza, ricerca del proprio io presente nell’assenza, deiezione dell’io nella lontananza dell’assenza per rendere possibile la nominazione letteraria: permanenza estenuante di un atto in cui l’io si piomba nella morte simbolica per poter essere parola, e la nominazione letteraria diventa il passaggio nel vuoto dell’io, che è la condizione perché si materializzi un altro io, più segreto. Fare del proprio esercizio l’irrealizzazione del proprio io significa. forse indicare con lucidità paradossale lo scandalo permanente della letteratura, la sua alterità radicale al mondo, vivere al massimo livello di significazione e di esplicitazione possibile l’esercizio della scrittura come morte dell’io, la sublimazione del linguaggio come spostamento del flusso vitale dal campo dell’intersoggettività, la ricerca stilistica come irrealizzazione radicale dell’esistenza.

Leiris sperimenta l’irrealizzazione in modi differenti nell’ambito della propria opera. Nel ciclo La règle du jeu l’io è direttamente incorporato al discorso, fa tutt’uno con lo sguardo autoanalitico, realizza una dinamica di implicazione radicale tra quelli che Leiris chiama je raconté e je raconteur. Nella Règle du jeu l’io agente e l’io scrivente insieme si dialettizzano e tendono a sovrapporsi, e la figura dell’io scrivente è continuamente modificata e posta in discussione dallo stesso atto di scrivere, dalle contraddizioni e dagli eventi narrati. Cosi nella Règle du jeu la parola irrealizzante investe non soltanto l’io oggettivato, ma anche il soggetto che compie l’oggettivazione. Lo stesso io scrivente è piombato nella morte simbolica della scrittura, le parole che nomina lo congelano in una permanente dialettica di presenza e sparizione. All’estremo della contraddizione l’io scrivente si trova nella condizione di esistere come tale soltanto attraverso la scrittura e di essere nello stesso tempo deietto nell’assenza, irrealizzato proprio dalla scrittura che lo fa esistere. La scrittura impone all’io la relazione con la propria morte simbolica come condizione per la sua esistenza. Proprio nell’esperienza di Leiris – che configura in modo strettissimo il rapporto soggetto/scrittura, arte/vita – la scrittura si realizza come morte simbolica dell’io e l’io accede alla letteratura solo all’interno di un processo di irrealizzazione totale.

L’io della Règle du jeu è un io processuale che si costruisce e si decostruisce metodicamente, affronta la negatività del soggetto, vivendola come linguaggio, problema della scrittura, della parola che irrealizza, è un io frammentato che non sa dove andare, che accumula ricordi e riflessioni in un caos fluido che non può essere ricondotto (e da chi?) a unità. Così la storia dell’io leirisiano non è soltanto la registrazione di un confronto con la pulsione di morte, come vettore che scardina la costruzione del soggetto equilibrato e lo ripiomba continuamente in una «mitologia del sangue e della morte»[7], ma è l’avventura di un testa a testa con il processo di simbolizzazione, che è appunto storia della rimozione e dell’installazione nell’altro.   La Règle du jeu è infatti integralmente costruita su una dialettica (operante soprattutto in Biffures e, diversamente, nella parte metaletteraria di Fibrilles e in Frêle bruit) tra sguardo sull’io e sguardo sul linguaggio, che è però immediatamente, sguardo dell’io e sguardo del linguaggio, conoscenza dell’io che non può realizzarsi fuori del linguaggio e conoscenza del linguaggio che si applica all’io come luogo non di germinazione, ma di riproduzione, di rivisitazione del linguaggio.

La centralità della dialettica io/linguaggio nell’analisi/costituzione del soggetto che Leiris opera significa anche radicamento dell’io dentro il processo di autospossessamento e di autocostituzione, di franamento e di riorganizzazione che investe la dinamica del desiderio nell’accesso al linguaggio. L’io di Leiris è in primo luogo la sua costituzione nel simbolico, perché è il territorio della scissione e del reintenzionameuto della scissione. Con un’evidente convergenza con la riflessione di Lacan[8] – che fra l’altro è anche suo amico – Leiris registra l’essenzialità dell’accesso al linguaggio, perché vuole condurre nell’orizzonte della scrittura la dialettica della rimozione e della mancanza, della scissione e della verbalizzazione sostitutiva. Leiris scopre nella simbolizzazione la genesi del soggetto e nello stesso tempo rileva la fine dell’autonomia dell’io e la scoperta inquietante e strana dell’altro come orizzonte fondamentale in cui si è progressivamente assunti.  

L’apertura di Biffures è un grande esempio di letteratura della conoscenza. Grazie a un flusso che gradualmente definisce uno spazio e un soggetto immaturo appena attivo, attraverso la dialettica tra il detto del bambino (…reusement) e la correzione dell’adulto (heureusement) viene delineato mirabilmente il rapporto tra il soggetto in formazione e il simbolico, cioè tra il soggetto e il grande Altro che sovraintende all’inscrizione nella vita sociale, con una chiarezza e una forza narrativa di assoluta intensità e di totale sperimentazione. È la teoria di Lacan vissuta e radicata nella vita quotidiana, è l’idea dell’Altro mostrata nel concreto della vita, nella sperimentazione esistenziale del piccolo soggetto che scopre il mondo. Un passaggio esemplare di letteratura e conoscenza, che mostra al tempo stesso i risultati di un percorso cognitivo e l’irrilevanza della verità vissuta. Che l’episodio di «… reusement» sia vero o inventato non ha nessuna importanza. Quello che conta è la forza della sua figurazione conoscitiva:

Per un momento resto interdetto, in preda a una specie di vertigine. Perché quella parola storpiata, di cui ho appena scoperto che in realtà non è quel che avevo fin allora creduto, mi ha messo in grado di oscuramente avvertire –grazie alla sorta di deviazione, di scarto impresso al mio pensiero – in che cosa il linguaggio articolato, tessuto aracneo dei miei rapporti con gli altri, mi trascenda, protendendo da ogni parte le sue antenne misteriose.[9]

Quello che conta è l’inarcarsi della scrittura in un percorso complesso variegato, fatto di aperture, di piani che si intersecano, di subordinate che si mescolano, creando una intenzionale complessità del testo, che dà anche il senso della singolarità del processo psichico e della difficile e non rettilinea acquisizione della conoscenza. La scrittura di Leiris come movimento processuale, fluidità frantumata direttamente emergente dall’io, insieme si propone di radicare il linguaggio nell’essere reale del soggetto e di eliminare le condizioni di frattura, di separazione che 1a rendono possibile. Il programma che ispira l’ipotesi leirisiana, infatti, implica la realizzazione di un’unità nel soggetto tra pulsionale e simbolico e nel mondo tra cosa e parola che determinerebbe (con la fine della separazione tra linguaggio e realtà) la cancellazione della scrittura stessa. Leiris vive questa articolazione contraddittoria della scrittura nella sua determinatezza negativa in primo luogo come impossibilità di trasformare la scrittura in atto e poi come impossibilità di unificare realmente nella pratica significante come nel vissuto il je raconteur e il je raconté.

La Règle du jeu è il tentativo permanente, lo sforzo di Sisifo di catturare e verbalizzare la ricerca in atto, è la traccia di un inseguimento continuo in cui l’io scrivente tende a far diventare il vivente parola e la parola vivente. Un’assenza, un diaframma interrompono la ricerca, spezzano il tentativo di sovrapposizione, il progetto di unità. Ma la volontà di unificare la scrittura e l’eterogeneo significa nella Règle du jeu la realizzazione di un rapporto di cattura, attraverso la parola, dell’aspirazione fondamentale dell’io. Leiris infatti precisa con chiarezza l’intenzione primaria di Biffures:

Che io sia illuminato alla fine di questi bifurs (o prospezioni tentate in ogni senso) e dopo molteplici biffures (o eliminazioni successive di valori illusori) – sulla mia natura e sul mio scopo, su quel che più intimamente voglio e su ciò che nella mia vita potrei realizzare di più valido e più appropriato.[10]

Il progetto che fonda e organizza la scrittura di Biffures (e di tutta La Règle du jeu, in fondo) è la volontà non solo di conoscere il proprio desiderio radicale, attuando un processo di ricerca che si scontra con una negatività generalizzata di chiusure e di costrizioni esterne e interne all’io. Nella propria indagine autoanalitica Leiris segue la dinamica intensiva dei flussi e delle interruzioni, registrando non solo il processo di oggettivazione del desiderio, i suoi investimenti nel campo dell’intersoggettività, ma l’intrecciarsi dell’attività rammemorativa con la volontà di appropriazione conoscitiva del proprio desiderio attraverso la scrittura.

Così la scrittura è il tramite di una ricerca sul desiderio e sulle frustrazioni ed è essa stessa sorretta, percorsa nella sua integrità dalla volontà del soggetto di riappropriarsi di sé. Ma la riappropriazione della aspirazione fondamentale significa l’installazione dell’io nella propria verità. La Règle du jeu è questo processo infinito in cui l’io tenta di appropriarsi nuovamente di sé, conoscendo la propria verità, mentre la verità sfugge continuamente, si riflette di volta in volta in uno specchio più nascosto, rimanda ad altri eventi e ad altre situazioni, a un’altra maschera. La ricerca leirisiana mette in moto un processo in cui la scoperta dell’io produce frammentazioni continue della verità dell’io, rifrazioni, immagini che si intrecciano, si sovrappongono, figure contraddittorie che sembrano negarsi reciprocamente.

La scrittura diventa in tal modo una fluidità negativa, fondata sulla mancanza e prodotta dalla determinazione a colmare questa mancanza, un processo permanente, un atto di rincorsa di qualcos’altro che non potrà mai essere realmente posseduto. Non a caso la ricerca di Leiris dura da quasi quarant’anni e la sua conclusione con Frêle bruit (e non con il progettato Fibules, abbandonato perché troppo ambizioso) è programmaticamente fittizia e segnata dal riconoscimento dell’organicità dello scacco della scrittura, «macchina che gira a vuoto», «disfatta che non cessa di affermarsi…voce rotta, voce bianca, voce morta»[11].    

L’impossibilità segna infatti nel profondo la pratica della scrittura. È in primo luogo un’impossibilità radicale di cogliere come processualità reale, trasformabilità, 1a struttura del proprio fondamento attraverso l’esercizio scritturale. È, in secondo luogo, l’impossibilità di realizzare una scrittura come atto, gesto determinato che subito garantisce al soggetto scrivente l’unità determinata (e forse illusoria) della prassi. È, ancora, l’impossibilità di far aderire totalmente l’io scrivente all’io (de)scritto, la scrittura al soggetto, la volizione della scrittura al desiderio del soggetto, il tempo della letteratura e il tempo della vita.

Tra l’io che sono e l’io che scrivo, un doppio scarto si scava dunque. […] Prima che la trascrizione sia finita la cosa da trascrivere si è modificata. […] Quindi… l’inevitabile differenza tra il momento in cui si descrive e quello che viene descritto può divenire una dissonanza stridente […]. Quello che scrivo oggi essendo troppo spesso un passato largamente superato, io mi vedo (non senza disagio) diviso tra due durate: il tempo della vita e il tempo del libro, che non arrivo quasi mai – se non approssimativamente – a far coincidere.[12]

Ma è proprio questo scarto temporale, questa sovrapposizione irrealizzata (e impossibile) di identità, questa differenza tra la volizione dell’io e la volizione che informa l’esercizio scritturale, a rendere possibile la scrittura stessa. E la scrittura è l’articolazione processuale di questa differenza, è la riproduzione intensiva dell’impossibile identità, la moltiplicazione estensiva dello scarto, la scoperta dello iato temporale ineliminabile tra l’io scrivente e l’io scritto.   

Nell’inseguimento della dimensione nascosta del soggetto, la scrittura è movimento non solo verso quell’altro che è l’io (da raccontare), ma, ancora, di specchio in specchio, di riflesso in riflesso, verso quell’altro, quell’oggetto, dislocato nel tempo, verso cui si intenziona l’io. E questo movimento è, naturalmente, segnato dallo scacco:

Similmente se voglio dar corpo al momento presente – alla presenza in sé – ecco che esso sfugge, svanisce e tutto quel che posso dirne – non potendo, s’intende, interpellarlo direttamente (e invece vorrei, a voce alta, gridargli…) – tutto quello che posso inventare per portarlo – o farlo ritornare – alla realtà, si riduce al vaniloquio più sterile: allineo frasi, accumulo parole e figure di linguaggio, ma in ognuna di queste trappole, ciò che resta preso è sempre l’ombra e mai la preda.[13]

E La Règle du jeu è questo movimento frustrato di cattura dell’io e della vita, in cui l’io, l’io che cerca di afferrare la “Vita” e l’io che è la Vita, sono non già il soggetto esistenziale, ma la scrittura stessa. L’io è diventato la scrittura, una processualità differenziale che ormai ha assorbito l’io dell’atto (cioè l’io dell’atto di scrivere) e lo ha fatto diventare una sua funzione mobile, una rifrangenza produttiva. L’io psichico, l’io vivente sono diventati una piccola variabile dinamica dentro il più vasto movimento della scrittura, sono un accendersi di pulsazioni, un oscillare di sensazioni, dentro quell’articolazione implosiva della differenza nel linguaggio, quel trattamento del desiderio e del suo vuoto che è la scrittura. E la grande letteratura – anche quando si dice autobiografica – si attesta non come scrittura dell’io, ma come una «corsa protesa, diventata oggetto di se stessa»[14], scrittura intransitiva e infinita che si dispiega per se stessa.

Alla fine, dunque, il testo autobiografico non si rivela diverso da un’altra scrittura e da un’altra narrazione. Perché la credibilità di un racconto soggettivo non è né forte né nulla, è semplicemente indifferente, irrilevante, e il narrato risponde alle stesse regole e alle stesse esigenze di un racconto o di un romanzo. Tutto il narrato non è né vero né falso e in ogni caso non avrebbe nessuna importanza il suo essere vero o falso. Un falso che risponde alle esigenze della costruzione dell’intrigo e della forza dello scritto è più giusto di un vero che non acquista forza narrativa. Dunque mentire o dire una presunta verità è la stessa cosa. Perché la presunta verità rischia di essere una menzogna o di essere narrata in forma non corrispondente e in ogni caso si presenta con ogni probabilità come una maschera di una maschera, che magari nasconde davvero qualche verità inconscia, magari inconfessabile e rimossa. Tutto questo rende il patto autobiografico non tanto debole quanto non rilevante e aperto alle smentite che un’analisi più approfondita delle ragioni di un evento potrebbe rivelare.

Con la radicalità dell’apertura al linguaggio il Leiris maturo nega la finta verità della letteratura come tauromachia e afferma la complessità del rapporto con la scrittura. L’approfondimento delle ragioni e delle condizioni del discorso autobiografico lo porta al limite sul crinale della legittimità e finisce per metterlo in crisi. Alla fine della creazione letteraria di Leiris l’autobiografia è superata, l’io è ridotto a nessuno e lo sviluppo problematico del linguaggio diventa lo spazio privilegiato. 

Quello che Leiris sperimenta sia nella struttura definita dell’Âge d’homme, sia nella fluidità processuale della Règle du jeu, è che il soggetto che si autorappresenta non è il soggetto che è rappresentato. E il movimento del racconto dell’io perde la propria finalità e si rivela frustrato, sconfitto. Infatti tra il je raconté e il je raconteur, l’io che scrive e l’io che è scritto, c’è ormai una separazione netta, una differenza radicale. L’io da rappresentare è qualcosa che è lontano, distaccato e che l’io scrivente non può che trattare come un oggetto di scrittura, non come qualcosa di intimamente unito.

Come scrive Bachtin, «identificare assolutamente il mio io con l’io del quale racconto è impossibile, come è impossibile sollevarsi prendendosi per i capelli»[15]. E allora il movimento verso l’io rammentato è doppiamente frenato da due filtri che sono da un lato la distanza dell’io e dall’altro la mediazione del linguaggio. E mentre Leiris si interroga sulle possibilità dell’autorappresentazione insieme e ancora di più si interroga sulla possibilità della conoscenza. Non c’è possibilità di autoconoscenza se non attraverso filtri, specchi, mediazioni e allontanamenti. Non c’è possibilità di autoconoscenza perché quello che dovrebbe essere conosciuto è già svanito, è già evaporato, è già stato dimenticato. E se quanto dev’essere conosciuto non è lontano e magari non sembra svanito, allora quello che l’io scrivente affronta non è se stesso, ma un altro che è legato al sé, ma insieme va aldilà della conoscenza possibile. E l’io scrivente è qualcosa che immagina di lavorare su se stesso, di esplicitare la propria soggettività, ma non fa che costruire un doppio altro, un altro che è diverso dall’io scrivente e un altro che è diverso dall’altro che si vorrebbe oggettivare. Quindi l’inseguimento di una verità presunta risulta niente di più di un tentativo, di un’interpretazione, che ha a che fare con un oggetto che può sembrare l’io stesso ma non lo è. 

L’illusione che parlare di sé possa essere più facile e più veritiero di parlare d’altro è davvero un fraintendimento radicale. Semmai ci si potrebbe chiedere se parlare di sé non sia più difficile, visto il sistema di rimozioni che indubbiamente opera dentro di noi. Quindi tutta l’operazione attivata da Leiris, sia nella ricerca delle proprie esperienze trasgressive, sia nelle interrogazioni sul linguaggio come tramite conoscitivo, rischia di essere un percorso estremamente creativo sotto il profilo letterario, ma meno produttivo sotto il profilo conoscitivo.

La scommessa della letteratura è dunque non tanto quella di cogliere una verità incontrovertibile dell’io che si oggettiva, ma quella di attivare fantasmi e percorsi che disegnino figure di possibili attraverso cui nuove configurazioni trovino la loro forma. In fondo negli scrittori più radicali non è una verità che viene attivata, ma una serie di figure del possibile, non sono i lacerti di un’esperienza vissuta che trovano oggettivazione, ma le forme fantasmatiche che alludono al grande zero dell’esistenza, e lo trasformano in figure simboliche. Conta l’oggettivazione di un vasto orizzonte del possibile, in cui riconoscere frammenti di essere e non essere. Ed è quello che Leiris nell’illusione dell’estrema verità e della sovranità della morte riesce a figurare, aldilà della poetica del corno di toro o delle sperimentazioni sul linguaggio: un possibile che supera l’illusione del soggetto disvelato, della conoscenza realizzata e scopre non l’io ma il nessuno e il niente che si celano.


[1] Michel Leiris, Età d’uomo, traduzione di Andrea Zanzotto, Milano, Mondadori, 1966, p. 12 (L’Âge d’homme, Paris, Gallimard, 1939, De la littérature considérée camme une tauromachie, introduzione alla seconda edizione, 1946, p. 10: «Un problème le tourmentait, qui lui donnait mauvaise conscience et l’empéchai d’écrire: ce qui se passe dans le domaine dc l’écriturc n’est-il pas dénué de valeur si cela reste “esthétique”, anodin, dépourvu de sanction, s’il n’y a rien, dans le fait d’écrire une oeuvre, qui soit uu équivalent (et ici intervient l’une des images les plus chères à l’auteur) de ce qu’est pour le torero la corne acérée du taureau, qui seule – en raison de la ménace matérielle qu’elle récèle – confère une réalité humaine à son art, l’empeche d’etre autre chose que graces vaines de ballérine?»). Si veda poi il ciclo autobiografico La Règle du jeu: I. Biffures, Paris, Gallimard, 1948; II. Fourbis, 1955; III. Fibrilles, 1966; IV. Frêle Bruit, 1976. Vale la pena di rammentare da un lato l’assonanza tra L’Âge d’homme e L’Âge d’or, film surrealista di Buñuel (1930) e dall’altro la ripetizione in La Règle du jeu del titolo del film più importante di Renoir (1939).

[2] Julia Kristeva, La rivoluzione del linguaggio poetico,traduzione di Silvana Eccher dall’Eco, Angela Musso e Giuliana Sangalli, Venezia, Marsilio, 1979, p. 569 (La révolution du langage poétique, Paris, Seuil, 1974).

[3] I titoli originali dei capitoli sono Tragiques. Antiquités. Lucrèce. Judith. La tete d’Holopherne. Lucrèce et Judith.  Amours d’Holopherne. Le festin d’Holopherne. Le radeau de la Méduse

[4] Michel Leiris, Fibrilles, cit., p. 87 (traduzione mia): «M’étant acharné comme je l’avais fait à façonner ma statue et n’ayant parlé que de moi, c’était de moi qu’on parlait quand on parlait du livre, et cette statue que j’avais pris tant de soin à sculpter je la voyais maintenant, avec horreur, se dresser comme une pierre funéraire dans la réalité extérieure qu’elle avait prise» (traduzione mia).

[5] Maurice Blanchot, La littérature el le droit à la mort, in Id., La part du feu, Paris, Gallimard, 1949, p. 338 (traduzione mia).

[6] La prima parte di Fourbis è intitolata «Mors». Sulla morte nella letteratura di Leiris si veda anche la Postfazione di Andrea Zanzotto a Età d’uomo, cit., pp. 334-5, oltre ai testi citati nella nota 7.

[7] Alain-Michel Boyer, Michel Leiris, Paris, Editions Universitaires, 1974, p. 56 (traduzione mia). Cfr. anche Jean-Baptiste Pontalis, Michel Leiris ou la psychanalyse interminable, in Id., Après Freud, Paris, Julliard, 1965; Philippe Lejeune, Il patto autobiografico,Bologna, il Mulino, 1986 (Le pacte autobiographique, Paris, Seuil, 1975); Catherine Maubon, Michel Leiris. En marge de l’autobiographie, Paris, Corti, 1994.

[8] La ricerca di Leiris ha palesi convergenza con l’interpretazione di Lacan del soggetto e della funzione del linguaggio nel soggetto. Ci si potrebbe chiedere se è Lacan che insegna a Leiris o è Leiris che insegna a Lacan. Gli studi di Lacan sull’altro e il linguaggio sono degli anni Cinquanta (Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi e Intervento sul transfert, in Scritti, a cura di Giacomo Contri, Torino, Einaudi, 1974 (Écrits, 1966). Biffures è scritto già negli anni Quaranta. Il pensiero di Lacan coglie spesso suggestioni dal mondo del surrealismo (Dalì, Buñuel, Leiris) e della cultura più radicale (Bataille).

[9] Michel Leiris, Biffures, traduzione di Eugenio Rizzi, Torino, Einaudi, 1979, p. 6 («Et, un instant, je demeure interdit, en proie à une sorte de vertige. Car ce mot mal prononcé, et dont he viens de découvrir qu’il n’est pas en réalité ce que j’avais cru, m’a mis en état d’obscurément sentir – grace à l’espèce de déviation, de décalage qui s’est trouvé de ce fait imprimé à ma pensée – en quoi le langage artticulé, tissu aracnéen de mes rapports avec les autres, me dépasse, poussant de toutes cotés ses antennes mystérieuses», p. 10).

[10] Ivi, p. 261 («Que je sois éclairé – à la fin de ces bifurs (ou prospections tentées un peu dans tous les sens) et après de multiples biffures (ou éliminations successives de valeurs illusoires) – sur ma nature et mon but, sur ce que le plus profondément je veux et sur ce que je voudrais réaliser dans ma vie de plus valable et de plus ressemblant», p. 262).

[11] Michel Leiris, Frêle bruit, cit., pp. 284 e 396 (traduzione mia): «Machine tournant à vide», «Déroute qui ne cesse pas de s’ affirmer… voix cassée, voix blanche, voix morte». 

[12] Michel Leiris, Fibrilles, cit., pp. 220-1, traduzione mia («Entre le moi que je suis et le moi que j’écris, un double écart se creuse donc (…) Avant meme que la transription soit achevée la chose à transcrire s’est modifiée (…) Pourtant… l’inévitable décalage entre le moment où l’on décrit et le moment qu’on décrit peut devenir une dissonance criante (…) Ce que j’écris au présent n’étant que trop souvent   du passé largement dépassé je me vois (non sans malaise) divisé entre deux durées: temps de la vie et temps du livre, que je n’arrive presque jamais – serait-ce approximativement – à faire coincider».

[13] Michel Leiris, Biffures, cit., p. 17 («Si je veux également, donner corps à ce moment présent – à cette présence meme – voilà qu’il se dérobe, qu’il s’estompe;  et tout ce que je puis dire de lui – ne pouvant, et pour cause! l’interpeller directement (alors que je voudrais, à voix haute, lui crier … ), tout ce que je puis inventer pour l’amener – ou le faire revenir – à la réalité tourne au bavardage le plus vain: j’aligne des phrases, j’accumule des mots et des figures de langue mais dans chacun de ces pièges, ce qui se prend, c’est toujours !’ombre et non la proie»,  p. 23).

[14] Ivi, p. 18 («Course tendue … devenue son propre objet», p. 23).

[15] Michail Bachtin, Estetica e romanzo, traduzione di Clara Strada Janovic, Torino, Einaudi, 1979, p. 403.

In copertina: Michel Leiris, 1922

è nato a Torino. Già professore di Analisi del film nell’Università “Sapienza” di Roma, ha insegnato anche a Paris 8, al Centro Sperimentale di Cinematografia e in altre università europee. È stato direttore scientifico del Museo Nazionale del Cinema e ha coordinato il progetto del nuovo museo alla Mole Antonelliana. Ha pubblicato una dozzina di libri e curato circa venti cataloghi e volumi collettanei. Tra i titoli recenti, “L’enigma del desiderio” (Marsilio, Premio Umberto Barbaro), “Lo specchio e il simulacro” (Bompiani, Premio De Lollis), “La macchina del cinema” (Laterza), “Microfilosofia del cinema” (Marsilio), “Il cinema e l’estetica dell’intensità” (Mimesis). Ha fondato e co-diretto “Imago. Studi di cinema e media”, e ha fatto parte del comitato di indirizzo di “alfabeta2”. Negli ultimi anni ha iniziato un’attività di narratore pubblicando un noir, “Cuore scuro” (Piemme 2008), un romanzo storico di detection, “Autunno a Berlino” (Piemme 2011) e un ampio affresco “Odio senza fine” (Mimesis 2019), dedicato alle tragedie degli anni trenta in Europa. Vive a Roma. Ha tre figlie grandi e un figlio piccolo.

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