All’alba di domenica, dalle 6.58 alle 9.58, a Roma riapre Spazio Taverna con Alba Taverna. Un invito alla rinascita nell’ora dell’inizio del giorno. Per l’occasione si terrà una conversazione tra Marco Bassan e Giulio Bensasson, artista ospite della Finestra Taverna di ottobre 2021. Al termine della conversazione verrà presentato il programma Spazio Taverna settembre-dicembre 2021. Il 27, lunedì sera dalle 21.30, la prima “esperienza” della nuova stagione, dal titolo Abitazione, vedrà Andrea Cortellessa incontrare Andrea Zanzotto (qui per partecipare). Ogni testo, secondo Zanzotto, è un «luogo»: anche se, come i suoi, dedicato al plein air del paesaggio, ogni testo delimita infatti uno spazio circoscritto, un’allucinazione di esterno, una «fascia paradisiaca» (come definiva il poeta la casa avita nella Heimat di Pieve di Soligo, affrescata dal padre pittore). Al fondo dell’Abitazione si farà esperienza di luci e ombre, parole e silenzi; e sarà magari l’occasione di fare incontro con quella cosa misteriosa, sfuggente e oppressiva, che s’è convenuto di chiamare «poesia».
GIUSEPPE ARMOGIDA: Questa nuova realtà nasce in uno dei luoghi simbolo della città, nel rione Ponte, all’interno di Palazzo Taverna, un antico edificio nobiliare che conserva una memoria stratificata molto forte. Basti ricordare che, negli anni Settanta, negli ambienti di Spazio Taverna ha preso corpo un’esperienza artistica coinvolgente e decisiva per il milieu intellettuale della Capitale: gli Incontri Internazionali d’Arte – promossi da Graziella Lonardi Buontempo e curati dai critici Achille Bonito Oliva e Bruno Corà –, che hanno testimoniato il passaggio di tutti i più rilevanti protagonisti della cultura artistica dell’epoca. Vorrei sapere, allora, in che modo avete raccolto l’eredità di questo luogo, depositario di tracce e di emozioni, senza ricadere in una qualche forma di nostalgia.
MARCO BASSAN: Spazio Taverna è nato durante la pandemia di Covid-19. Con Ludovico non ci conoscevamo ancora bene: avevamo lavorato insieme solamente on-line, ma comunque avevamo trovato a livello artistico una sintonia estetico-narrativa, dato che ci interessavano gli stessi tipi di artisti e di pratiche. Quando la società in cui lavoro, la EIIS, sotto il cui patrocinio è nato il progetto Spazio Taverna, ha deciso di prendere in affitto questo nuovo spazio, siamo venuti a vederlo e lui ha subito riconosciuto lo spazio come quello di Graziella. Questo è stato un po’ il primo impulso propulsivo di Spazio Taverna, nel senso che la capacità di Ludovico di cogliere fin da subito l’energia di questo spazio è stata fondamentale per lo sviluppo del progetto. Spazio Taverna nasce come un progetto curatoriale e, se vuoi, filosofico, in quanto incarna una visione che, nel mondo circostante, cioè nei luoghi condivisi che viviamo quotidianamente, non si trova così frequentemente; o almeno questa è la percezione che ne abbiamo. Da una parte, questo spazio va a recuperare una serie di modalità di fare cultura che sembrano dimenticati, rifacendosi a certi modi di fare degli anni Settanta, di cui Ludovico ha una memoria frammentaria, e che questo spazio continuamente richiama; dall’altra rifacendosi ad alcune dinamiche rinascimentali, che abbiamo capito essere la vera potenza di uno spazio che emana una potenza remota, che permette a diversi saperi di convergere e incontrarsi. In questo senso Spazio Taverna ha un carattere “umanistico”, se intendiamo questo temine in un’accezione post-teologica, che considera l’uomo libero da alcuni vincoli e capace di utilizzare le forze che lo circondano in maniera creativa. Si tratta di una visione che si appoggia a un approccio simbolico alla vita, basato sulla contaminazione di mondi diversi. Dall’altra parte, questo spazio si pone in contrapposizione con una certa tendenza dell’arte contemporanea che, negli ultimi anni, sembra essere diventata troppo autoreferenziale, come un circolo che parla solo ai suoi soci. Sicché chiedere agli artisti di uscire dai loro recinti, incontrare altre persone e sviluppare dei progetti insieme è un tentativo di rompere questo meccanismo.

LUDOVICO PRATESI: Credo che i luoghi abbiano un’anima molto forte, soprattutto in questa città, ma in generale in Italia. Perciò, bisogna sempre rispettarli, lasciarli parlare e non modificarli più di tanto. L’attenzione allo spirito dei luoghi è fonte di ispirazione per traiettorie future che provengono da antiche memorie. Ascoltare il Genius Loci significa entrare in armonia con il contesto fisico circostante, più intimo e intenso rispetto agli orizzonti globalizzati. E questo luogo specifico ha una memoria molto stratificata, che risale molto indietro nel tempo, fino al Medioevo e – ancor più – fino all’antica Roma. Si tratta di uno di quei pochissimi palazzi romani dove bisogna ascendere per entrare, dato che si trova su una piccola altura, Monte Giordano, che prende il nome da un cardinale Giordano Orsini. Insomma, vi è un intreccio complesso di elementi che lo rendono molto particolare.
Quando siamo entrati ho subito percepito che c’era un’eredità di cui bisognava farsi carico, ma non sarebbe stato immaginabile fare quello che faceva Graziella, proseguire con le stesse modalità. Alle prime persone che abbiamo invitato, a luglio 2020, abbiamo detto esplicitamente che non si trattava di uno spazio per mostre e nemmeno per talk, ma un posto che proponeva “esperienze”. Inizialmente le persone non sapevano bene che cosa intendessimo per “esperienza”, ma poi, pian piano, abbiamo chiarito questo concetto, anche grazie alle nostre due pubblicazioni – il “Survival Kit” e, poi, il “Metodo” –, dove abbiamo elaborato delle linee guida che si sono rivelate molto utili e fruttuose. Quello che mi ha più sorpreso è stata la reazione molto positiva del pubblico, come se si aspettasse un’iniziativa del genere. Questo spazio è stato quasi fin da subito riconosciuto dalla città e accettato con entusiasmo. Ovviamente stiamo parlando di un periodo di pandemia, in cui in giro non c’erano molte cose da fare: nonostante le restrizioni abbiamo sempre continuato la nostra programmazione nel pieno rispetto delle regole sanitarie, considerando Spazio Taverna come un luogo di resistenza, dove l’arte potesse essere vissuta ed esperita senza il chiacchiericcio mondano. Questo sicuramente ha aiutato a creare una sensazione di accoglienza. Ora ci troviamo in una fase successiva, sicuramente più difficile: dobbiamo capire se questo spazio ha la forza di tenere legato a sé il pubblico che è riuscito a crearsi in questo anno di pandemia.
GA: Dicevi che per entrare in questo Palazzo è come se bisognasse compiere un’ascesi, attraversando una serie di stazioni. E, in effetti, il portone del Palazzo può essere considerato come una soglia all’interno della città. Una soglia che ha a che fare anche con quell’idea di ritualità che ricorre nel vostro programma. La ritualità dell’esperienza, intesa come la via per infrangere la gabbia dell’abitudine, necessita di un varco di accesso. Mi piacerebbe che chiariste cosa intendete esattamente per “esperienza”, dato che potrebbe apparire un termine vago e, se considerato nel suo senso più superficiale, potrebbe essere anche frainteso.

LP: “Esperienza” è una parola molto ambigua e si presta a possibili interpretazioni errate, però in italiano non ne esiste un’altra che possa descrivere le nostre serate. L’esperienza è qualche cosa che dev’essere esperita, vissuta in prima persona, e una volta vissuta spesso modifica un po’ i parametri con cui ci si accosta di consueto alle cose. Nel nostro caso volevamo che le persone invitate vivessero un momento di carattere immersivo, scaturito da un dialogo tra immaginari, proponendo così nuove forme di contaminazioni fra mondi potenzialmente distanti, in grado di accorciare le distanze tra l’arte e il pubblico. Una volta varcata la soglia di Spazio Taverna, lo spettatore diventa attore, in grado di percepire la densità e la generosità dell’esperienza. L’idea è che l’unicità della serata, enfatizzando il ruolo dello spazio come elemento agente nella sua realizzazione, generi memoria che trasforma. Spazio Taverna vuole essere un laboratorio, un luogo di incontri in cui si fanno esperienze, dove si progettano nuove modalità di vivere le cose e di interpretare il mondo: uno spazio di pensiero e di azione insieme. Le esperienze realizzate sono state diverse: c’è stato chi ha proposto modalità più formali, chi ha costruito intorno allo spazio una situazione di tensione, chi ha ripreso la storia di questo luogo, chi ha lavorato mettendo il proprio intimo al servizio degli spettatori, i quali hanno reagito ogni volta in maniera diversa. Abbiamo cercato di provocare delle reazioni di tipo trasformativo, sia sugli ospiti che sugli spettatori, e forse ci siamo riusciti.
MB: Nella tradizione ebraica c’è un detto che suona così: «Chi salva una vita, salva un mondo». Ogni persona contiene dentro di sé un mondo, un immaginario, che deve essere sviluppato nella direzione giusta. E la sfida di Spazio Taverna è far sì che ogni ospite invitato riesca ad esporre il proprio immaginario. Ciò che contraddistingue il concetto di esperienza è che il visitatore non guarda il mondo in maniera separata o distanziata, ma è immerso in questo immaginario. Questo è l’obiettivo di ogni serata, a volte più riuscita, a volte meno; a volte si tratta di un immaginario formale, a volte concettuale, a volte emotivo, e così via. In ogni caso, queste esperienze temporanee hanno come scopo quello di trasformare il visitatore: ecco il vero scopo di Spazio Taverna. Una sorta di situazione iniziatica, ovviamente laica, civile, e non religiosa o metafisica. L’idea è di far sì che i visitatori vengano inseriti all’interno di una disciplina (che è legata al concetto di ritualità), che permetta loro di accedere a delle camere interne a cui solitamente non accedono. E costruiamo per loro un percorso, affinché questo accada: una sorta di processo di avvicinamento, che dovrebbe diventare trasformativo. In nessun caso indichiamo una direzione della trasformazione, ma semplicemente tracciamo un percorso verso quelle camere interiori e poi ognuno attiva il suo proprio processo automatico di trasformazione. Non viene richiesta una trasformazione collettiva verso un modo di essere diverso, ma a ognuno di tastare la propria autenticità. L’idea che proviamo a proporre a Spazio Taverna è costruire una ritualità, un percorso, un’esperienza, che permettano alle persone di toccare la propria autenticità.

GA: Ma per toccare la qualità assoluta della propria natura, dicevate prima, è necessaria una disciplina. E questa disciplina è l’attenzione. Per Simone Weil l’attenzione consiste nel sospendere il proprio pensiero e nel lasciarlo disponibile, vuoto e permeabile al contatto con qualcosa. Forse potrebbe essere proprio questo il senso dell’esperienza. Un’attenzione che voi cercate di creare attraverso lo spazio, il quale diventa, dunque, strumento della e per la visione. Uno spazio in cui riveste particolare importanza l’aspetto dell’ospitalità, dell’accoglienza. Nel “Survival Kit” avete inserito una bellissima citazione di Giulio Paolini, in cui si dice che, così come l’artista non è autore ma ospite dell’opera, lo spettatore, a sua volta, non è un cliente a cui offrire intrattenimento e comfort, ma è ospite del luogo in cui si trova l’opera.
LP: Quando ho letto questa frase di Paolini sono rimasto folgorato. L’accoglienza è alla base di questo spazio, dove si incontrano mondi diversi. Spazio Taverna accoglie le persone che vogliono partecipare alle esperienze e che vengono guidate, perché, come dicevi prima, prendono parte ad una forma di ritualità. Di fatto, lo spettatore non sa mai quello che deve fare, per cui è accolto e accompagnato nel percorso e si rende completamente disponibile, aperto a qualsiasi possibilità. Non sa quello che andrà a vivere. Ma accoglienza vuol dire anche lasciare entrare qualcuno in uno o più mondi: chi desidera entrare e ha le chiavi della porta, può farlo… Forse Spazio Taverna più che una soglia è un ponte, che consente di andare da una parte all’altra, di attraversare una dimensione. In fondo, le persone, quando vengono qui, si lasciano alle spalle il loro mondo e entrano in una situazione in cui vengono guidati per mano.
MB: Questo spazio, in effetti, si pone in fortissima contrapposizione con il mondo esterno. Questo fatto dà da pensare. in questo periodo il mondo esterno è apparentemente molto libero, ma in realtà soffre di una serie di restrizioni molto forti: le persone si trovano in una forma di schiavitù, di cui però spesso non sono consapevoli. Vivono un certo tipo di libertà, pensando di possederla, ma in realtà è vero il contrario: è il sistema che li possiede. Sicuramente il percorso di progresso che sta compiendo l’essere umano è virtuoso, però il dominio della tecnica è qualcosa di cui l’uomo non ha piena consapevolezza perché è incapace di spirito critico. Anche la persona più attenta ricade continuamente in un certo tipo di automatismi, dei quali si nutre il mondo sociale e tecnologico. Questo spazio, invece, cerca di fare resistenza al mondo esterno. Quindi, sì, è un luogo accogliente, ma è anche molto “ruvido”. Ad esempio, non è previsto il momento del drink e della chiacchiera, che è ristretta al minimo: il visitatore viene, partecipa e, quando ha finito, viene invitato a uscire.
LP: … sei accolto veramente quando vieni riconosciuto per chi sei.

In copertina: Sonia Andresano, Umzüge aus karton, 2016 (Finestra, episodio IV, Sonia Andresano, Sebastiano Bottar)