Nel 1971 Fabio Mauri presentava negli Stabilimenti Safa Palatino a Roma la performance Che cosa è il fascismo in cui i performer-attori dell’Accademia d’Arte Drammatica di Roma erano stati istruiti dall’artista per ri-mettere in scena una cerimonia fascista, i Ludi Juveniles, alla quale Mauri aveva assistito anni prima a Boboli insieme all’amico Pier Paolo Pasolini (quel Pasolini che nel ’75, con l’Intellettuale, sarebbe stato trasformato dall’artista in “schermo umano”). «Noi eravamo un po’ diseguali, uno con le fasce storte, l’altro col fez in un modo ecc.», racconta Mauri nell’intervista realizzata da Stefano Chiodi a proposito di quell’esperienza «impressa nella memoria» che «sembrava un’incidente, ma è la sostanza di una vita».
Quella di Che cosa è il fascismo è un’operazione di ricostruzione della memoria individuale e collettiva che pone innanzitutto il problema della possibilità di rappresentare e figurare l’infigurabile attraverso l’assunzione sul proprio corpo (quello dello spettatore/voyeur e dell’attore) di quell’estetizzazione o, per dirla con Susan Sontag [Fascinating Fascism, 1974], di quella forza seduttiva del fascismo che esalta la carne/corpo anestetizzando la morale. «Ricompongo con pazienza con le mie mani, l’esperienza del turpe. Ne esploro le possibilità mentali», afferma Mauri a proposito di un’altra performance (l’Ebrea del ’71) e, attraverso questi lavori di ricomposizione in cui, scrive Chiodi, «il totalitarismo fascista e razzista [torna] come finzione», sembra contemporaneamente operare anche una decostruzione (o sorta di détournement) dell’estetica seduttiva e ritualizzata di quei cerimoniali. Se infatti, come «ricordava bene: i capimanipolo, i capiclasse, i capisquadra, erano i più stupidi, sempre […], nel gruppetto di intellettuali con cui condivideva una piccola notorietà bolognese – Pasolini, Serra, iniziarono a sentire il ridicolo della parole d’ordine, della mascherata settimanale».

È con gli occhi carichi di tutte queste finzioni che vado a vedere la mostra di Adolfo Porry-Pastorel. Nato nel 1888 e attivo come reporter e giornalista tra gli anni Dieci e Quaranta, Pastorel divenne famoso per essere stato «il fotografo di Mussolini», quello “originale”, istaurando con lui un rapporto complesso fatto di fiducia ma anche di profonde diffidenze (tanto da venire attenzionato dalla censura fascista). Un rapporto che gli ha permesso di accedere al “dietro le quinte” della vita privata e pubblica del Duce, fino a diventare testimone privilegiato (e insieme fautore) di quella estetizzazione della politica, di quella costruzione artificiale e artificiosa dei segni del potere operata dal regime. Se da una parte i suoi scatti sembrano catturare il “grado zero” dell’iconografia fascista, dall’altra si ha l’impressione che questo “grado zero” sia ormai impossibile da fruire come tale perché, quella presunta irrappresentabilità dell’orrore ha invece prodotto un universo di finzioni (o simulacri, per dirla con Jean Baudrillard) che interferiscono e si frappongono all’oggetto ancipite trasformandolo in una sorta di “reale” perduto o irraggiungibile.

Non è solo la reiterazione della finzione/simulacro a deformare il “reale passato” e a renderlo più “finto del finto” (ovvero quella «PRECESSIONE DEI SIMULACRI» di cui parla Baudrillard, che rende il Duce sempre più simile a Corrado Guzzanti) e nemmeno la intrinseca finzionalità delle immagini e dei segni archetipici del regime, ma è lo stesso sguardo di Pastorel a creare degli effetti stranianti e perturbanti, come se volesse mostrare l’artificiosità e vacuità della costruzione degli slogan e dei cerimoniali fascisti, anticipando quello stesso détorurnement messo in scena anni dopo da Mauri: c’è infatti sempre qualcosa di patetico nelle immagini, qualcosa fuori posto, qualcosa di quel turpe di cui parla Mauri che rivela un potenziale decostruttivo in nuce. Accanto alle fotografie del Duce in disarmo al mare, vi sono infatti le immagini dei piccoli balilla ingoffiti da giacconi fuori misura o, ancora, un gruppo di donne impilate una accanto all’altra che sembrano emulare goffamente le future immagini patinate dei rotocalchi. Dico goffamente perché, anche in questo caso, si percepisce una stortura estetica nei corpi tutt’altro che perfetti delle Undici signore, spesso immortalate con gli occhi semichiusi tipici delle foto mal riuscite, trasformandole così in una sorta di simulacro difettoso della messa in posa, una leziosità imperfetta che sembra sottrarre quella “patina” tipica delle venture immagini patinate.

Ci mostra il simulacro rivelando l’impostura Pastorel, la finzionalità non solo del regime ma di quel fotogiornalismo di cui è considerato fondatore, anticipando, ad esempio, le riflessioni di un altro grande fotoreporter italiano, Uliano Lucas che, assieme a Tatiana Agliani, pubblica nel 2015 La realtà e lo sguardo. Storia del fotogiornalismo (Einaudi), sottolineando il sostrato sempre ideologico delle immagini dei fotogiornali e la contraffazione spettacolarizzante del “reale”. Nel 1908 Pastorel aveva fondato l’agenzia V.E.D.O. (Visioni Editoriali Diffuse Ovunque), anticipando di quasi quarant’anni la Magnum di Robert Capa e Henri Cartier-Bresson, gettando le basi (quasi a costruire un canone) del venturo fotogiornalismo italiano: quel carattere ironico e dissacrante, lo sguardo leggero e laico, la delicata attenzione per la vita di tutti i giorni, sono infatti tutti tratti che restano piuttosto stabili nella storia del reportage italiano e che ritroviamo, ad esempio, anche in Paolo di Paolo e quel suo modo di fotografare che, come ha scritto Marco Belpoliti, si riconnette al «teatro all’italiana».

Infine, ad accentuare la più o meno ricercata strategia di smascheramento del “reale” contraffatto, vi è un altro elemento straniante che corre sulle pareti della piccola galleria: ossia l’accostamento semantico delle immagini e segni del potere fascista a quelle dei set cinematografici e del mondo circense. Se le fotografie dei set sembrano stare lì per “documentare la finzione” (rinviando a quell’inquadratura che mostra la messinscena allestita per la “Campagna del Grano”, col Duce impegnato nella trebbiatura), quelle che ritraggono la vita del circo (tra nani, giganti, scimmie ed elefanti) sembrano voler sottolineare tutto quel «ridicolo delle parole d’ordine, la mascherata» che soggiace al mostruoso, banale e vano orrore irrapresentabile e iperrapresentato. Un orrore che tanto deve la sua genesi alla forza delle immagini mediatiche e che forse, proprio in queste ultime – una volta scavalcatane la patina di seduzione – può trovare gli anticorpi, quel potenziale decostruttivo che ci mostra il re finalmente nudo.
Adolfo Porry-Pastorel. L’altro sguardo. Nascita del fotogiornalismo in Italia
a cura di Enrico Menduni
Roma, Museo di Roma dal 1° luglio al 24 ottobre
In copertina: Adolfo Porry Pastorel, Paracadutista, Roma 1940