Walter Niedermayr, un atlante delle trasformazioni

Walter Niedermayr, italiano di lingua tedesca, è un artista tra i più radicali. Forse dovrei dire che è sudtirolese ma secondo la definizione di Europa data da Étienne Balibar, “paese di frontiere e di confini, delimitazioni in perenne cambiamento all’interno di zone iperdeterminate”, dovrei dire piuttosto che Niedermayr è insieme il primo e l’ultimo degli europei: perfetto esempio dello stare senza stare in una nazionalità relativa, al margine estremo di una penisola. Oppure – se si preferisce – Niedermayr è un artista in perlustrazione nell’impermanente, pur avendo da sempre casa e studio a Bolzano.

Nel novembre 2017, a Innsbruck in occasione della mostra Koexistenzen (Coesistenze), l’ho ascoltato parlare nella sua lingua madre per un’ora. I presenti, austriaci, tedeschi, italiani, hanno ascoltato un uomo noto nell’ambiente per essere rigoroso e di poche parole. In Italia avevo assistito ad altre conferenze di Niedermayr, ma in quell’occasione oltre confine mi sono accorta, guardando il pubblico, che Niedermayr suscitava negli ascoltatori tanto serietà quanto qualche inaspettata (per noi italiani) risata compartecipe. A Innsbruck scoprivamo un Niedermayr spiritoso (non solo in privato). Rientrando a Bolzano di notte su un’Audi bianca, bianca come lo era ormai solo la vetta più alta delle montagne nei dintorni, Walter aveva guidato a una tale velocità (almeno per noi esseri di pianura), sull’autostrada del Brennero, da smentire la sua puntigliosa lentezza: quella lentezza che gli aveva permesso di definire Koexistenzen, perlustrando tutta la Val di Fiemme per sette anni. E così, pur di non continuare a fissare il tachimetro, non restava altro che procedere a un interrogatorio. Carta d’identità a parte, Walter, cosa sei? Italiano, sudtirolese, austriaco, tedesco? Senza decelerare Niedermayr aveva risposto di essere visto con sospetto da tutti: austriaci, tedeschi, italiani, sempre qualcuno che “non è dei nostri”.

Walter Niedermayr, Dreizinnenhütte, 36/2020

Per qualche anno Niedermayr ha lavorato in Germania, per Siemens. All’epoca amava i film sperimentali, e inevitabilmente qualcosa si sarà riverberato nel suo lavoro di ricerca. Magari un po’ di Harun Farocki, dico, senza cercare conferme: il gesto di continuo ritorno, un gesto in cui ri-vedere, misurare i processi di trasformazione, opponendosi al potere di identificazione delle immagini. Fotografia, video, scrittura, tutte ipotesi di traduzione di un possibile, quanto provvisorio, presente. Il dittico, il polittico, lo spazio mancante tra rappresentazione e realtà, uno spazio bianco qualche volta imperfetto, mai definitivo. Rientrato a Bolzano, nel 1978, Niedermayr ha cominciato a interessarsi di fotografia: “senza fretta”, dice, quando glielo si chiede. La prima volta che ho visto Walter Niedermayr lavorare è stato nel 1991, durante un lungo seminario con Lewis Baltz. Tra gli altri, a Linea di Confine, c’era anche Cristina Busin, sua moglie, presenza costante e preziosa nella vita e nel lavoro. Prima dell’incontro amicale con Lewis Baltz, c’era stato l’incontro di Niedermayr con la sua opera, un tassello per comprendere cosa fosse già stato fatto nella tradizione del paesaggio (Baltz aveva scardinato qualcosa), così come era stato utile studiare la tradizione italiana e tedesca per definire la propria filosofia della fotografia, richiamandosi a Vilém Flusser. Del resto né Baltz, né Niedermayr hanno mai affrontato il lavoro estetico come una compensazione simulata da grandi star della contestazione, né hanno usato la seduzione a carattere romantico, pronto soccorso per un’epoca di anime in perenne stato di rimozione. Distante da ogni genere di autopromozione dell’artista contemporaneo o da innocenze consolatorie, l’interesse di Niedermayr si è concentrato sull’esistente, sul paesaggio vissuto dall’uomo o per meglio dire sul paesaggio utilizzato, invitando lo spettatore, spesso anche attraverso l’allestimento, a riflettere sul carattere provvisorio della rappresentazione fotografica. Per esempio, le immagini raccolte in Walter Niedermayr, Transformations (libro pubblicato da Silvana Editoriale, testi di Stefano Chiodi, Catherine Grout, Walter Guadagnini) restituiscono una realtà aumentata dalla visione personale, paradossalmente aumentata proprio dalla desaturazione delle stampe, non ultimo aumentata anche dal presente che – a volerlo guardare, davvero, questo presente – rivela tutto ciò che siamo in grado di affermare sul futuro.

Walter Niedermayr, Lech Rüfikopf, 20/2015

In Transformations ci si sofferma su un presente (già passato, indicazione di un prossimo futuro) che comprende la fine degli anni Dieci, fino alla conclusione del primo ventennio (ventennio che si chiude con una pandemia di imprevedibile impatto sociale e durata). Una scrittura asemica scorre sulla superficie delle serie fotografiche di Walter Niedermayr, come in The Spirit of White o in The Aspen Series, etc. Una scrittura costituita da un nuovo alfabeto, un alfabeto formato dalle tracce dell’uomo sulla neve, che come era scritto in Breve storia della fotografia di Walter Benjamin potrebbero rimandare all’indicazione di un colpevole: “Non è forse vero che ogni angolo della nostra città è la scena di un crimine? Che ogni passante è un criminale? Il fotografo non ha forse […] il dovere di smascherare la colpa nelle sue foto e di identificare il colpevole?”. Certo identificare il colpevole non è compito di Niedermayr, qualcosa chi guarda dovrà pur fare! Di sicuro, Niedermayr sembra ri-definire (ancora una volta) la riconoscibilità dell’immagine vera. E tuttavia, senza distanziarsi dalla copia bidimensionale e piatta della realtà, dalla natura del fotografico, Niedermayr cerca piuttosto una mediazione tra realtà e nuova interpretazione personale; e così, sebbene la sua fotografia si riferisca sempre all’esistente, noi ne partecipiamo ineluttabilmente estraniati.

Walter Niedermayr, Hintertuxergletscher, 23/2004

Dal momento che la montagna gli è nota fin da bambino (e continua a essere il suo contesto, la sua “carta da parati”), Niedermayr ha deciso di riguadagnarsela viaggiando in molta parte del mondo, dalle Montagne Rocciose alle Alpi. Quando la montagna aveva determinato la sua fortuna e specifica riconoscibilità nel mondo dell’arte, Niedermayr ha scelto di seguire logiche non viziate dai processi di valorizzazione applicabili a un brand: il brand alpino, locuzione terribile ma perfetta per chi, come direbbe Giorgio Falco, segue da duecento anni lo stile dominante, ovvero la visione con cui le Alpi sono concepite dagli anglosassoni ottocenteschi: la montagna emozionale oggi unisce passatismo italiano e stile anglossassone da storytelling, il tutto sotto la rassicurante protezione del mercato. Ecco quindi che un ambito potenzialmente di Niedermayr, le Alpi, è replicato da altri in termini estetico-divulgativi.

Walter Niedermayr, Spazi Con-sequenziali / Con-sequential spaces, 238/2007

In ogni caso, relegare Niedermayr a uno specialista delle trasformazioni alpine sarebbe errato, poiché non si è mai interessato unicamente alla montagna: è passato attraverso corridoi, tunnel sotterranei, ambulatori, celle di prigione negli istituti penali di Tegel-Berlin, di Krems- Stein, di Gerasdorf a Vienna, di Sachsenhausen, uno dei primi campi di concentramento, 35 chilometri a nord di Berlino. C’è da chiedersi quanto di tutto ciò che esiste, al di fuori dell’ambito alpino, sia stato portato ad alta quota. Per due anni, dal 2004 al 2006, Niedermayr ha svolto un’indagine su una delle opere principali dell’intero tratto della linea ad alta velocità Milano-Bologna: il Viadotto Modena, lungo poco più di 7 km. Anche in quel caso la mostra, presso Linea di Confine, era stata la più interessante degli ultimi anni. In quel biennio Niedermayr aveva lavorato in un cantiere a nord-ovest della città di Modena, un cantiere adibito alla produzione delle travi utilizzate nella costruzione del viadotto: “accanto alle tradizionali lavorazioni, svolte con grande abilità manuale da operai specializzati, si trovano sofisticati processi produttivi e possenti macchinari, necessari alla produzione dei viadotti”.

Un cantiere, per definizione, è una realtà transitoria. La transitorietà della realtà è tema ricorrente in Niedermayr (da cui il titolo dell’ultimo libro Transformations). In quel caso aveva posizionato la sua camera accompagnando gli operai nel lavoro e in seguito aveva riassemblato il cantiere stesso – attraverso strategie di sequenza e ripetizione – nelle sale espositive, non dimenticando il rumore assordante che accompagnava la vita di quegli uomini, per dodici ore al giorno (numerosi erano stati gli incidenti e i morti per giungere alla realizzazione della TAV). Il suono era la prima cosa che si sentiva quando si accedeva negli spazi dedicati. In un’era di rimozione del tema “lavoro”, quello specifico rumore assordante era impossibile da sfuggire.

Si arriva poi all’ampia serie, la più recente, sulla Val di Fiemme: inaspettatamente Niedermayr ha estratto il retaggio valoriale invisibile o immateriale che nei secoli ha regolamentato la produzione dello spazio negli undici comuni della “Magnifica Comunità di Fiemme”, ente che da più di novecento anni convive dialetticamente con l’ambiente. Walter Guadagnini – curatore della mostra a CAMERA – mette in rilievo queste parole di Niedermayr sul lavoro delle Coesistenze: “Con questo progetto pluriennale vorrei inoltre dare vita a un approccio artistico che consenta di comprendere il modello dei ‘Commons’ come riferimento maestro per una gestione accorta delle risorse ambientali della Comunità e delle sue città, come di tutti gli abitanti, che concorrono alla sua vitalità reinventandola di volta in volta”.

Walter Niedermayr, Panchià. Coesistenze/Coexistences, 08/2016

Case, spazi antropizzati, orti, boschi adattati a misura della vita quotidiana, della vita in comunità. Sette anni di studi e (diecimila) riprese, numerose interviste, voci che riecheggiano – attraversando le sale di CAMERA – nei pressi delle immagini delle case. “Le mie opere possono essere osservate su molti livelli: è così che si evidenziano aspetti diversi tra loro, anche se per me quello che conta non è l’approccio documentaristico bensì la visualizzazione in senso consapevolmente soggettivo.”

Walter Niedermayr, Spazi Con-sequenziali / Con-sequential spaces, 303/2021

Esposte a Camera anche alcune tra le ultime e inedite fotografie realizzate a Palazzo Turinetti, edificio storico e sede legale del Gruppo bancario San Paolo. All’architetto Michele De Lucchi è stata affidata la curatela del progetto di riconversione. Niedermayr ha iniziato a osservare la demolizione, valutando se poteva costruire una sua interpretazione di un rivolgimento d’uso: da banca a nuovo spazio museale a Torino. Uno spazio dedicato all’arte contemporanea, specificatamente alla fotografia. Una destinazione che ha sollecitato Niedermayr a confrontarsi con la mutevolezza dell’intervento umano, quindi violento, come sottolinea Guadagnini, “là dove l’intervento violento sul luogo nasceva dalla volontà di sfruttare produttivamente lo spazio naturale, qui la violenza dell’intervento è necessaria per costruire uno spazio destinato alla fruizione artistica, che di per sé si vuole disinteressata. Disinteressata sì, ma fino a un certo punto, se è vero che, con l’arguzia […] Niedermayr non rinuncia a riprendere un cavalletto all’interno di un caveau, sottolineatura certo non involontaria di una ulteriore trasformazione cui possono essere destinati gli oggetti, quella dal valore artistico a quello economico”.

Walter Niedermayr, Kitzsteinhorn, 33/2015

Ogni volta che Niedermayr ha deciso di mostrarci qualcosa, lo ha fatto per unità strutturali, dedicandosi allo studio della storia, dell’ambiente, delle implicazioni, evitando di avventurarsi nell’intenzione di produrre un documento o un mero simbolo estetico. Di fronte a questi ultimi dodici anni, condensati ed esposti, assistiamo all’innesco di un presente tanto devastato o irrecuperabile quanto complesso (come la scelta di ritrarre la Val di Fiemme, prototipo invece di convivenza), contemporaneamente sembra anche definirsi l’edificazione di un nuovo atlante, un atlante in cui di colpo ci ritroviamo in un altro luogo rispetto a quello in cui siamo abituati a stare.

Walter Niedermayr
Transformations
a cura di Walter Guadagnini
Torino, CAMERA, dal 29 luglio al 17 ottobre

catalogo Silvana Editoriale, 152 pp. ill. a col., € 38

In copertina: Walter Niedermayr, Les deux Alpes, 84/2018

è artista visiva e scrittrice. Ha esposto il suo lavoro in numerose mostre monografiche e collettive, in Italia e all’estero. Nel 2011 è tra gli artisti del Padiglione Italia alla Biennale di Venezia con “Italian East Co(a)st” (divenuto, in via definitiva, “Condominio Oltremare”). Nel 2012, con Giorgio Falco, ha pubblicato “The Collared Dove Sound”, nel 2014 “Condominio Oltremare” (L’orma) e nel 2020 “Flashover” (Einaudi) . Ha collaborato con diverse riviste on line; scrive di fotografia e arte su “il manifesto”. Ha insegnato Storia dell’arte e della fotografia. Nel 2020 ha pubblicato il romanzo “Il medesimo mondo” (Bollati Boringhieri). Sono in uscita a settembre due fototesti: per “Around Photography” e per il progetto “Welcome Stories”, promosso dalla Fondazione Palazzo Magnani, Reggio Emilia.

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