È in corso sino all’8 ottobre, nella magnifica cornice del M.A.N.U. (Museo archeologico nazionale dell’Umbria) di Perugia, la mostra Il canto della terra. Orizzonti di Land Art, a cura di Paolo Repetto con la collaborazione di Valter Sposini. Dal catalogo, che ospita anche contributi della direttrice del Museo Maria Angela Turchetti, di Daniele Zepparelli direttore dell’Umbria Green Festival nel cui ambito si svolge la mostra (e che continua sino al 25 settembre), e di Andrea Cortellessa, proponiamo il contributo di Paolo Repetto.
La natura indossa sempre i colori dello spirito
Ralph Waldo Emerson
A partire dalle prime testimonianze che ci sono pervenute dalla Preistoria, i mirabili esempi di Lascaux e Altamira, fino ai nostri giorni, l’uomo ha fissato su di una parete, un foglio, una tela, il proprio stupore di fronte alla drammaticità del mondo, la propria meraviglia di fronte al prodigio della realtà. Dapprima, forse, la semplice esigenza di rappresentare; poi, soprattutto, la necessità di comunicare un’emozione – attraverso i generi più disparati, con le tecniche più diverse – l’emozione di un io che incontra l’Altro, il diverso da sé; la comunione con la bellezza e il sacro; lo scontro con la paura e la necessità; lo stupore della coscienza di fronte alla festa o alla tragedia della vita. La meraviglia dell’individuo che scopre il fascino della natura – incantamento, dialogo, lotta, visione. Una parete, un foglio, una tela, sono sempre stati i mezzi fondamentali attraverso i quali l’uomo, un artista, ha voluto comunicare la propria visione del mondo, ha voluto dare espressione, nei limiti di una forma, alle proprie perplessità, e le angosce, i desideri, i propri sogni. Rappresentazione, immagine, simbolo. Ma se l’arte è soprattutto comunicazione di un’emozione, un’esperienza, in una forma insieme rappresentativa e libera, realistica e simbolica, perché non allargarne i confini in un universo molto più ampio e variegato? Perché limitarsi ad una semplice superficie bidimensionale? Perché circoscriversi in un limite convenzionale, pittorico o scultoreo?
A partire dai primi decenni del secolo scorso, qualcuno cominciò ad allargare il senso dell’arte, ad ampliare la concezione della forma, impiegando ogni sorta di materiale, realizzando quadri e sculture con una ricca congerie di elementi disparati: da pezzi di giornali a semplici oggetti, da pezze di stoffe a tasselli di legno e cartoni, ferro e plastiche. L’arte come gioco e trasfigurazione, il gesto del fare come manipolazione e reinterpretazione delle infinite presenze del mondo. Tutto corrisponde al tutto, tutto è diverso e uguale al tutto. Qualsiasi oggetto: comune, prefabbricato, o di scarto; banale o anche apparentemente brutto, può contenere in sé, può nascondere in sé un dettaglio, una curva, un lato che rivela qualcosa, che dice qualcosa. Soprattutto l’arte non è, non può essere soltanto semplice rappresentazione della realtà, un’imitazione del mondo. L’arte è molto di più: è colore, segno, forma, gesto, emozione, disperazione. Un equilibrio di rapporti e tensioni e forze. Un’idea che compone e rivela una forma. Una tela, un oggetto, un foglio bianco: silenzio, luce, candore. Perché intaccarne la purezza, la verginità, la grazia? Perché limitarsi al suo esiguo spazio? Perché non oltrepassare, non andare oltre alle forme convenzionali? L’arte come pensiero, come specchio della coscienza. Le inesauribili possibilità del fare arte. Dialogo ed interrogazione; armonia e scontro. L’incontro tra l’io ed il mondo, l’individuo e l’Altro, questo e quello. Il limite e l’illimitato. Dapprima lo schermo, il diaframma, il simbolo di questo incontro-scontro attraverso una parte, una superficie, una tela. Più tardi l’apertura di questa relazione-lotta in altre visioni, oltre le consuete forme. Il superamento dell’idea “che il lavoro sia un processo irreversibile che si conclude con uno statico oggetto-icona”. L’arte come qualcosa di perennemente mutevole, il concepire senza la necessità di arrivare ad un punto che sia ben delineato “rispetto al tempo e allo spazio” (Robert Smithson).
Percorrendo la misura di un quadro, possiamo superare la sua dimensione, possiamo andare oltre, al di là. Attraverso un taglio oltrepassiamo la tela tradizionale. Quella superficie bidimensionale, quel diaframma si è dissolto. Procediamo oltre. Scavalcando quello spazio convenzionale non abbiamo più nessuno schermo, né rappresentativo né simbolico: siamo ritornati al contatto diretto col mondo, con la realtà, con la natura. I nostri sguardi, i nostri piedi, sono di nuovo sulla terra. Riscopriamo l’immensa presenza del paesaggio. Le nostre gambe ripercorrono strade, sentieri, prati, boschi, colline. I nostri occhi scorgono immensi orizzonti. Le mani toccano di nuovo l’essenza del mondo. La grande presenza della pianura, immobile, sterminata. La tela è la terra stessa. La natura come immensa superficie, vasta creta, con la quale, sulla quale lavorare. “L’opera d’arte non è più la rappresentazione pittorica di un paesaggio, bensì il paesaggio stesso” (Schum). La magia di un luogo: spazio, misura, forma, visione. La consistenza, il fascino delle pietre, delle rocce, dei minerali. “Invece di mettere un’opera d’arte in un luogo, un luogo può diventare un’opera d’arte”. Un luogo reale, esterno, in parte può essere spostato, “rappresentato” in un luogo interno: il museo, la galleria, la casa. Site and Nonsite, luogo e non luogo. Alcuni raccoglitori di metallo possono contenere delle pietre; cartine, foto, mappe delimitano in maniera insieme astratta e reale la geografia, la realtà di quel luogo. “Il nonsite (un’opera di terra in uno spazio chiuso) è un’immagine logica tridimensionale astratta, che tuttavia rappresenta un luogo reale” (Smithson). L’esterno può diventare interno. L’illimitato può limitarsi: campionatura, raccolta, metafora, opera.
Ma il gesto artistico può anche rimanere all’esterno, può realizzarsi direttamente all’aperto, nella vastità del paesaggio. Attraverso l’impiego di ruspe, scavatori, l’uomo può mutare uno spazio, può decorare una vasta porzione di paesaggio. Una coscienza incide la propria visione direttamente sul mondo. Su di un vasto lago salato la realizzazione di una grande spirale. “Quel luogo era una forma a spirale che si avvolgeva su sé stessa in un’immensa circolarità. Da quello spazio roteante emerse la possibilità della Spiral Jetty (Molo a spirale). Nessuna idea, nessun concetto, nessun sistema, nessuna struttura, nessuna astrazione poteva mantenere una compattezza nella realtà di quella testimonianza. La mia dialettica del luogo e del non-luogo ruotò su sé stessa fino a raggiungere uno stato indeterminato, in cui il solido ed il liquido si perdevano l’uno nell’altro. Era come se la terraferma oscillasse con delle pulsazioni, e il lago rimanesse una roccia immobile. La riva del lago divenne il margine del sole, una curva bollente, un’esplosione da cui scaturivano una protuberanza infuocata. La materia sprofondata nel lago rispecchiava la forma a spirale” (Smithson). Il simbolo di un percorso come movimento, tempo, materia e spazio che si consumano. La forma ipnotica per eccellenza: sempre diversa e sempre uguale, insieme statica e dinamica, simmetrica e irregolare. (Presenti in mostra alcune foto vintage di Gianfranco Gorgoni sulla Spiral Jetty, anche durante i lavori con Robert Smithson.)

Il mondo che pulsa, che si trasforma. L’ininterrotta metamorfosi delle cose tra aria, acqua, terra e fuoco. L’idea dell’artista di essere letteralmente nella materia, dopo aver speso secoli nella sua manipolazione. Innumerevoli sono i modi in cui la coscienza, un individuo, può intervenire sul paesaggio. Si possono disegnare grandi anelli sul ghiaccio (Dennis Oppenheim, Annual Rings, 1968), o ipotetici confini (Time Line, 1968); si possono decorare prati, zolle, campi di grano; e poiché l’opera non è collocata in un luogo, ma “è quel luogo”, essa quasi sempre è di breve durata, temporanea, effimera; soltanto progetti, modellini, foto, carte geografiche o dichiarazioni scritte possono testimoniarne la storia. A volte un intervento può essere particolarmente ampio, maestoso. Nella realizzazione di una enorme apertura-fenditura nel deserto del Nevada. “Immensa, con le dimensioni tipiche delle opere architettoniche, la scultura crea l’oggetto e l’atmosfera”. Un’immane cicatrice orizzontale si staglia sull’orizzontalità della terra e la verticalità del cielo. La vertigine del vuoto che si contrappone al pieno. Lo sgomento come “uno stato d’animo paragonabile ad un’esperienza religiosa”. Il superare ogni limite per un’opera d’arte trascendente. Lo spazio, la terra, come la grande navata rovesciata di una cattedrale. Colonne, pareti di pietra e polvere; cuspidi azzurre: vastissime architravi del cielo. (Michael Heizer, Double negative, 1969-79, presenti in mostra alcune foto vintage di Gianfranco Gorgoni.) Il deserto come una immensa superficie in cui la coscienza rischia si smarrire la propria identità, il proprio orientamento. In mezzo ad esso, nel grande bacino dello Utah, quattro tubi di calcestruzzo con fori, del diametro di due metri e mezzo e della lunghezza di cinque metri e mezzo, vorrebbero mettere a fuoco una parte del nostro paesaggio: i quattro punti cardinali; lo scorrere del tempo; il sorgere ed il calare del sole. I fori all’interno di ciascun tubo che, con il filtro della luce, disegnano quattro costellazioni: Drago, Perseo, Colomba, Capricorno. (Nancy Holt, Sun tunnels, 1973-76.)

Così la terra si rivela essere il naturale testimone, il trampolino del cielo. Nel Nuovo Messico, in un’area di circa un chilometro quadrato, molto ricca di temporali, sono state piantate 400 barre d’acciaio (Walter De Maria, The lightning field, 1977). La vera opera d’arte è il fenomeno naturale: il fulmine, la scarica elettrica, quelle magiche, terribili fosforescenze bianche – forse i nervi, il sistema nervoso del nostro universo. Opera casuale, evento tra i più spettacolari e grandiosi ed effimeri che si possano vedere. Colossale fenomeno atmosferico che annulla, annienta, nella sua grandiosa spettacolarità, qualsiasi volontà o ambizione del piccolissimo uomo faber. La magia del cielo, l’energia del cosmo, il fascino dello spazio. Un cratere spento, il Roden crater, in Arizona, attraverso laboriosi e pazienti interventi interni, è diventato una sorta di enorme telescopio, finalizzato a “rendere malleabile il senso della volta celeste”. In un fitto percorso di spazi, stanze, gallerie, aperture, cunicoli, finestre, strutturati secondo il principio della camera oscura, per un’intensiva percezione della luce. La luce del sole, nei suoi svariati punti. La luce della luna, nelle sue comparse e scomparse. Il remoto, delicato e vicinissimo scintillio delle stelle. (James Turrell, Roden Crater, dal 1974, presente in mostra una foto del 2009.) La grande tela dell’universo visibile. Le forme della costellazione. Nebulose su nebulose; galassie che appaiono e sfumano, sovrapponendosi, in altre galassie. Infiniti punti luminosi che disegnano prospettive senza tempo. La vasta e profondissima tela del cielo: l’intarsio delle nuvole, le monumentali sculture dei cumuli; la levigata, uniforme superficie dell’azzurro dove un fantasioso aereo può tracciare effimeri vortici di azoto e luce. (Dennis Oppenheim, Whirpool-eye of the storm, 1973.)

Il fondamentale compito di saper vedere, di re-imparare ad osservare. Contro il pericoloso appiattimento dell’abitudine, della pigrizia, del gesto ovvio e scontato, il fare arte come recupero dello stupore, della capacità di meravigliarsi. Nascondere temporaneamente per far vedere veramente; modificare per un breve periodo un luogo, una valle, uno spazio, un monumento, per rimetterne a fuoco la presenza, il fascino, l’importanza. L’arte come rivelazione: qualcosa che si ri-vela, che appare e scompare, che temporaneamente si nasconde per poi riapparire con maggior forza. Il ricoprire con grandi teli un ponte, un famoso monumento, una parte di costa, per ridonargli la loro chiara evidenza. Il modificare temporaneamente luoghi e spazi in un gioco insieme monumentale e lirico, grandioso ed effimero. “È l’arte immortale? Può l’arte durare all’infinito? Gli oggetti fatti d’oro, d’argento e di pietre preziose saranno ricordati per sempre? È una forma di ingenuità e di arroganza credere che queste cose restino per sempre, per l’eternità. Probabilmente richiede maggior coraggio andare avanti che restare. Tutti questi progetti hanno una forte dimensione di mancanza, di auto-cancellazione, che continueranno sempre, come la nostra infanzia, la nostra vita. Essi creano una tremenda intensità quando hanno una durata di pochi giorni” (Christo).

Le grandi e ambiziose opere di Christo e Jeanne-Claude, le loro installazioni, i loro progetti, in parte nati ispirandosi a quella geniale opera del 1920 di Man Ray, L’enigme d’Isodore Ducasse – primo impacchettamento con una coperta ed uno spago di un oggetto qualunque (in questo caso una macchina da cucire) che la storia dell’arte ricordi – ci insegnano soprattutto a re-imparare a vedere, ci esortano a ri-scoprire, ad avere nuovi occhi. Nel greco antico una delle parole più importanti è mirabile, l’essere degno di meraviglia, il poter essere am-mirato. Il filosofo, colui che ama e ricerca la sapienza (sophia), è soprattutto un uomo che si meraviglia, una persona che prova stupore (thauma, thaumazein) anche come paura, vertigine, spaesamento. E guardare, osservare, significa capire. È bello considerare che ancora oggi, in inglese, capisco si esprime anche con I see (“lo vedo”). Le vaste installazioni e i variegati progetti di Christo e Jeanne-Claude – dall’Imballaggio d’aria di Documenta a Kassel (1968) alla Mastaba (da realizzare), da Valley Curtain (1970/72) a The floating Piers sul lago d’Iseo (2016), dalle Surrounded Island (1980/83) a Over the river (da realizzare), da The Umbrellas (1984/91) a The gates (2004/05) dal Running fence (1976) al Pont Neuf (1985) al Reichstag (1995) – sono stati concepiti soprattutto con l’intento di nascondere, completamente o parzialmente, o di variare e decorare un luogo, un vasto spazio, alfine di far vedere veramente, far intendere nuovamente. (Presenti in mostra alcuni significativi progetti: due Reichstag del 1978, un The Gates del 1999, e un The Umbrellas del 1988.)
Il punto più alto dell’incontro tra la linea orizzontale della bellezza e la linea verticale dell’originalità, dà vita alla grande arte, da sempre, in tutti i tempi. Se un’opera è solo bella, spesso appartiene al vastissimo mare del buon artigianato, che la storia inghiottirà presto in una semplice dimensione affettiva, domestica, famigliare; se un’opera è solo originale, sperimentale, provocatoria, senza la magica aura della bellezza, anch’essa presto verrà dimenticata nella contorta discarica del “ci abbiamo provato”. E il nostro benessere, ahimè, a fronte di molto tempo libero, ha prodotto un numero troppo alto di aspiranti e pseudo artisti… Una cosa credo sia oggettivamente vera: la grande accelerazione storica prodottasi a partire dalle avanguardie del primo Novecento, poi ampliatasi in maniera esponenziale con le straordinarie conquiste tecnologiche legate all’enorme industrializzazione del secondo Novecento, ha portato soprattutto la musica colta e in parte anche l’arte, a una sperimentazione e una cerebralità a volte eccessive. E, a causa di un oggettivo abbassamento delle capacità ricettive e di concentrazione – prodotto dalla straordinaria velocità e facilità della telecrazia e di internet – la musica classica contemporanea, come del resto la poesia, ha un’utenza minima, e sempre più esigua. In realtà, in questo disastro generale – in questo triste appiattimento del gusto, atrofizzatosi in una apatica e acritica ricezione passiva, che ha prodotto un orrendo sfasamento di valori, dove artisti mediocri vengono considerati dei geni, e i rarissimi geni non vengono considerati per nulla – l’arte moderna e contemporanea si salva: da una parte perché la memoria visiva è molto più semplice, forte e immediata – rispetto a quella uditiva; dall’altra, poiché, sotto la buona stella del “bene rifugio”, l’arte contemporanea è diventata anche un notevole segmento della finanza internazionale. Ma, a fronte di tutto questo, è bello pensare che le opere di Christo, molto originali e molte belle, insieme concrete e concettuali, sono opere che durano per poche settimane. E di queste rimangono soltanto i progetti, le maquettes, gli studi preparatori: tecniche miste: disegno, fotografia, a volte pittura.
In realtà, dunque, le opere di Christo sono effimere, brevi, vive e presenti, normalmente, solo per poco tempo. Un concetto, un’idea si sposa ad una forma, una struttura, un luogo, nascondendolo o mutandolo, solo per un limitato numero di giorni. La presenza, la realtà modificata, nel bene e nel male, deve tornare presto alla sua normalità. Così la vera opera d’arte è un progetto, una ipotesi, non costante e non definitiva. Si era mai vista un’opera intenzionalmente tanto breve e temporanea? Un’opera d’arte che dura molto poco nel tempo. In questo senso il lavoro di Christo sembra ribaltare la più antica e profonda ragione del fare arte: produrre una forma bella e originale, che possa sfidare la nostra inesorabile decadenza, il nostro essere mortale. Rimane una idea, un progetto mentale, inesauribile ed immortale nella sua concreta astrazione. Un apparire per scomparire, un esserci e non esserci, qualcosa che più di ogni altra rappresenta e testimonia la nostra tragica realtà.
Diceva Proust che il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuovi paesaggi, ma nell’avere nuovi occhi. Occultare o variare temporaneamente un luogo, uno spazio, per dare nuova luce, nuova vita e visione a ciò che appariva scontato. Coprire per un breve periodo di tempo un monumento, una forma, una presenza, per poi poterlo riassaporare nuovamente. La più alta etimologia di una parola eminentemente religiosa è rivelazione: il ri-velare: togliere e mettere un velo, un diaframma, una copertura. È indubbio che i due principali parametri che qualificano un’opera d’arte e la sua importanza storica sono la bellezza e l’originalità. Christo e Jeanne-Claude sono grandi nella bellezza e generosi nell’originalità.
Alla grandiosità, il titanismo americano, si contrappone la discrezione, la misura, l’intimità europea. Da una parte, il problema della percezione del mondo, della sua ricezione. Nell’olandese Jan Dibbets, il grande gioco tra materia e intelletto, realtà e astrazione: nel pensare e realizzare che la natura può incarnare un’astrazione addirittura “superiore a quella che hanno immaginato Cézanne e Mondrian”. Se Cézanne non poteva pensare senza la natura, così Mondrian non poteva pensare senza la verticale e l’orizzontale. In una certa prospettiva, all’uno e all’altro è mancato qualche cosa. “In Cézanne manca l’astrazione, in Mondrian manca la realtà. È possibile far coincidere i due: se si mette la realtà e l’astrazione non più in parallelo ma su di uno stesso piano, questo diventa possibile. Questo non è mai stato realizzato. Cézanne ha fatto della realtà un’astrazione, e Mondrian dell’astrazione una realtà. Essi hanno separato astrazione e realtà. C’è una soluzione superiore a queste, di Cézanne e di Mondrian: dimostrare che la realtà è un’astrazione” (Dibbets).

Dall’altra, quasi all’opposto, il diretto, semplice contatto con la natura. L’arte del camminare, liberata dai legami del fare-oggetto. La pratica del contemplare. Il paesaggio come luogo, culla, sovrano contenitore di silenzio. Il vasto spazio delle brughiere, delle montagne, delle valli, dei deserti, dei sentieri, dei boschi. Il silenzio della coscienza di fronte all’immenso prodigio della terra. Lontano dalle sterile accademie, o dal freddo elaborare degli sudi. La percezione che la creatività possa finalmente abbracciare tutto: l’acqua, l’erba, le pietre, il cielo, le nuvole, tutti i fenomeni naturali. Una mente, attraverso lo strumento del proprio corpo, con il semplice gesto del camminare, disegna una linea su di un prato. (Richard Long, A line made by walking, England, 1967, Una linea realizzata camminando). È tutto. Dai tempi delle metafisiche sospensioni di Malevič, non si era mai visto gesto tanto puro, semplice, essenziale. Solo un corpo e la sua coscienza di fronte alla superficie della terra. Linea, traccia, movimento, segno. Forse più degli americani, gli artisti della terra europei credono nella semplicità, nella profondità del paesaggio. La terra come spazio sacro. La natura come dono. Il riconoscimento della netta superiorità della Creazione su ogni volontà e desiderio e ambizione del progettare, del fare. La concentrazione; la meditazione. Avvicinandosi al pensiero orientale, il taoismo e l’esperienza Zen, questi uomini, questi artisti: Richard Long e Hamish Fulton, hanno il desiderio di annullare il proprio io, il proprio ego, la loro volontà creativa. Il padre del taoismo, Chuang-tzu, dice che il saggio lascia meno tracce possibili. “L’uomo perfetto è senza io, l’uomo ispirato è senza opera, l’uomo santo non lascia nome”. “Avete un grande albero e vi preoccupate della sua inutilità. Perché non lo piantate nel paese del nulla e dell’infinito? Tutti potranno passeggiare a piacere sotto la sua ombra e sdraiarvisi a proprio agio”. “Il soffio, che è il vuoto, può conformarsi agli oggetti esteriori. È sul vuoto che si modella il Tao. Il vuoto è l’astinenza dello spirito”.
Poiché gli abusi dell’intelligenza e dell’azione hanno perturbato il mondo, è bene mutare le cose il meno possibile. Il non agire è meglio dell’agire. Si può lasciare una testimonianza, ma modificando il meno possibile lo stato naturale delle cose. È bella, è nobile l’espressione della sensibilità, senza la prepotenza della tecnica. L’eccesso dell’intelligenza ha messo disordine nella radiosità del sole e della luna, ha sgretolato le montagne, intaccato e inquinato l’aria e i fiumi e i mari, turbato “il succedersi delle quattro stagioni”. “Chi raggiunge la propria virtù primitiva si identifica con l’origine dell’universo e, attraverso quella, con il vuoto. Il vuoto è grandezza”. “Non legatevi al vostro io, e le cose appariranno quali esse sono. Il vostro movimento sia simile a quello dell’acqua, la vostra immobilità simile a quella dello specchio, la vostra risposta simile all’eco; siate fuggitivi come il nulla che non c’è, sereni come l’acqua pura” (Zhuang-zi, Chuang-tzu).
La riscoperta di un incontro diretto con il mondo; il fascino di una lunga camminata nel cuore del paesaggio; la realtà e la visione del contatto concreto, non mediato con le primordiali presenze della terra. Il toccare le pietre, il sentire l’erba; l’elastico peso delle gambe che si compatta sul sentiero. Una bionda marmotta fruscia tra il velluto del muschio, una mano accarezza il bronzo vegetale di una corteccia. Dopo una impegnativa camminata che può durare anche molti giorni, avere la fortuna di vivere in alcuni tramonti che “sfilano grandiosi come mirabolanti navi slanciate”. L’allestimento di una piccola capanna, il gesto arcaico di accendere un fuoco; la preparazione del tè. Poi, al mattino, riemergere alla vita tra “gli architravi dell’alba”. In una lontana regione dello spazio e del tempo – insieme intima e remota, accogliente e lunare – in Scozia o nel Sud America, in Alaska o nel Tibet, con lo zaino in spalla, attraverso il ritmo di un passo regolare e sostenuto, la gioia di poter riflettere alla grandiosa libertà del come e dove l’arte può essere fatta e concepita. “Camminare nella distanza, oltre l’immaginazione” (Fulton). Camminare pensando di annullare completamente il proprio io creativo, alfine di poter essere interamente intrisi dalla magia delle montagne, dal suono dei ruscelli, dallo specchio delle cascate, dal murmure dell’erba e delle pietre, dal silenzio del cielo. Camminare come un antico saggio taoista, che mentre intravede in ogni gesto del fare e del costruire i molteplici limiti della storia e del progresso, si abbandona alla ricchezza dell’inutilità: alla visione del Vuoto, alla magia della Rinuncia. Camminare sognando di una magnifica scultura fatta direttamente con le nuvole, gli alberi, modellata con il vento, plasmata dalla luce!
“Una grande intelligenza, che ha abbracciato il lontano ed il vicino, non si sente umiliata dalla piccolezza né si inorgoglisce della grandezza, perché sa che ogni misura è infinita”. “L’uomo che raggiunge il Tao è ignorato dal mondo; l’uomo che possiede la virtù perfetta non ha successo; il grand’uomo è senza io. Questa è la suprema rinuncia”. “Chi si serve della sagoma, della corda, del compasso e della squadra per rettificare, offende la natura; chi fa uso della corda, dello spago, della colla e della lacca per consolidare le cose va contro le loro qualità. Chi piega gli uomini con il rito e li fiacca con la musica, chi li protegge con la bontà e li tiene uniti con la giustizia, questi corrompe la loro natura originaria. Lo stato di natura è ciò che è; la curva naturale non proviene da nessuna sagoma; la retta naturale da nessuna corda; il circolo naturale da nessuna squadra. Ciò che è naturalmente unito non richiede né colla né lacca; ciò che è naturalmente legato non esige né corda né nodi; tutti gli esseri nascono spontaneamente senza sapere perché nascono; hanno ricevuto queste o quelle qualità senza sapere come le hanno ricevute. In una parola, lo stato di natura è restato invariato dall’antichità ai nostri giorni senza che nulla manchi” (Zhuang-zi, Chuang-tzu, Adelphi, Milano 1982, p. 78).
Credo che i protagonisti della Land Art, e tra questi Richard Long ed Hamish Fulton, abbiano compiuto una “rivoluzione” artistica molto bella e molto grande, non inferiore a quella operata – più di cento anni fa – dagli artisti impressionisti. Rinunciando ai mezzi di rappresentazione tradizionali; allontanandosi dalle ombre dei luoghi chiusi, trascorrendo dalle esatte geometrie della mente alle felici fantasie dell’istinto. Avvicinandosi sempre di più alla realtà, la concretezza della natura – scavalcando tutte le mediazioni; immergendosi nell’en plein air, intrecciando i propri sensi al contatto diretto con la luce, la terra, l’acqua, l’aria, le infinite forme del vento. Dapprima un quadro che si trasforma da cosa che rappresenta a cosa che documenta una libera impressione, nell’emancipazione delle linee e dei colori: nell’esplosione del verde, del rosso, dell’azzurro, del giallo; ora il superamento stesso di quelle linee e quei colori, a favore dell’esperienza stessa che fonda qualsiasi manufatto. L’arte come l’essenza di una esperienza, non una rappresentazione di questa. Il gesto del camminare come fine e mezzo per focalizzare l’elemento tempo, il tempo di una vita – “in relazione al sole, alla luna e alle stelle”. Il poter vivere direttamente nel contatto con le presenze della natura, poiché “semplicemente essere è più difficile che fare”. L’aver superato ogni idea di superficie tradizionale, di manufatto storico, artigianale, per una diretta immersione nei luoghi del paesaggio.
La riscoperta del più semplice e autentico senso fisico, corporeo; il flusso delle influenze non dal sé alla natura, come in passato, ma dalla natura al sé. Al di là delle molte barriere che le tecnologie hanno formato tra noi e la terra, il rito della camminata come originaria presa di coscienza tra il nostro corpo e quello spazio, tra la nostra coscienza e quel tempo: “tempo uguale vita – Vita uguale arte – Arte uguale camminata – Camminata uguale tempo”. Il coinvolgimento fisico del camminare crea una ricettività al paesaggio. Cammino sulla terra per essere intrecciato alla natura” (Fulton: presenti in mostra alcuni suoi acrilici su carta con testo in inchiostro, del 2007, e un legno dipinto di blu, Ramoche Kora, sempre del 2007.)
Di fronte a questi gesti importanti e discreti; al confronto di questa nuova arte – insieme pragmatica e concettuale, mai così astratta, mai così concreta – non c’è disegno, non c’è dipinto, non c’è scultura che può donarci tanta natura, che può comunicarci un così alto, religioso mistero. L’avvicinarsi il più possibile alle forme della terra: l’erba, i legni, le pietre, il fango, l’acqua, giocando minimamente con esse (Long), o rinunciando a qualsiasi mutazione (Fulton). Il camminare come gesto, azione, coscienza, forma, pensiero; alla riscoperta primordiale della nostra identità più profonda e antica, semplice e arcaica. Lo spogliarsi di tutte le protesi tecnologiche, per il ritorno alla comunione col tutto. L’essere elementare, la primordialità, la purezza delle pietre. Il materiale più semplice utilizzato nella maniera più semplice. Il cerchio, l’ellisse, la linea. Il cerchio delle pietre, ispirato ad alcune costruzioni arcaiche, primitive, come simbolo di difesa e preghiera, centralità e liturgia. Una lunga camminata, anche di molti giorni, per re-incontrare la presenza della natura, per immergersi nell’elemento fondamentale che, in parte, abbiamo dimenticato. Il camminare come arte: corpo, fisicità, respiro, vita. L’uomo che passa, che trascorre da un luogo all’altro: ora con la volontà di non toccare, non modificare nessuna cosa (Fulton), annullando totalmente il proprio io creativo, il proprio ego; ora mutando il meno possibile, testimoniando soltanto con una linea, un’ellisse, un cerchio di pietre o di legni o di cenere, documentati da una fotografia e, quasi sempre, subito dopo risistemati nella loro posizione originaria (Long: presenti in mostra alcuni sui fanghi, su carta e su legno, e il Cerchio in ardesia rosso-blu, del 1985).

Arte come svuotamento dell’ambizione del fare. La realtà, il simbolo di un’esperienza come cancellazione dell’hybris (vanità) creativa. Un’arte che ci rivela, direttamente, l’immenso fascino della natura. Il ritorno a un ideale stato di pre-coscienza. Un altro inglese, Andy Goldsworthy, lavorando direttamente con gli elementi naturali: l’acqua, il ghiaccio, la neve; le pietre, i rami, le foglie, con le sole mani, senza l’aiuto di nessuna attrezzatura particolare, dà vita a sculture e forme per lo più effimere, che appaiono e scompaiono, che sono e non sono: come le nuvole, la musica, le stelle. Con un grande rispetto per le cose del creato. Con un grande amore per le infinite forme naturali; piccoli gesti fatti di attenzione, gioco, liturgia; minimi interventi sulla superficie della terra, con lo stupore di un bambino, “sulla soglia che conduce all’altro mondo, il mondo in cui le cose non si scompongono più nello spazio e nel tempo” (Gustav Mahler). Presenti in mostra alcuni suoi lavori su carta del 1989. Una mostra che ha voluto ampliare un poco i suoi orizzonti, includendo alcune foto di Olafur Eliasson: paesaggi ricolmi di solitudine e di silenzio; e un monocromo di Alfonso Fratteggiani Bianchi, puro pigmento in polvere applicato direttamente sulla pietra serena.

Si potrebbe concludere con una ipotetica, possibile immagine: il gesto dell’arte di Long e Fulton equivale alla metamorfosi di una celebre metamorfosi: una olimpica, inedita figura di Apollo – ancora più luminoso – che rinunciando all’inseguimento di Dafne, rinuncia alla caccia, alla corsa, alla possibile e sognata conquista; rinuncia alla stessa speculazione, a favore della pura, assoluta contemplazione – e lo stormire delle foglie del lauro si fa ancora più chiaro e musicale. Infine, secondo le bellissime parole di Albert Einstein, quel sacro sentire come “dietro qualsiasi cosa che può essere sperimentata c’è qualcosa che la nostra mente non può cogliere del tutto e la cui bellezza e sublimità ci raggiunge solo indirettamente, come un debole riflesso” (The world as I see it, Citadel, London 2006, p. 58). Il religioso riflesso dei boschi, delle brughiere, delle pietre, delle valli, delle montagne. Il religioso mistero del sacro tempio della natura.
In copertina: Robert Smithson, Spiral Jetty, 1970