Morte del museo?

14/09/2021

In tempi di dematerializzazione, di editoria e biblioteche digitali, un volume come quello con il quale Einaudi presenta in Italia il primo dei tre tomi della storia del museo di Krzysztof Pomian fa decisamente impressione. La collana è “Grandi opere”, e anche il titolo dell’opera è grande: Il museo. Una storia mondiale, di cui quella tradotta da Luca Bianco e Raffaela Valiani dall’originale francese, edito nel 2020 da Gallimard, è la parte iniziale che va Dal tesoro al museo, a cui seguiranno altri due volumi: L’affermazione europea, 1789-1850 e Alla conquista del mondo, 1850-2020. Si tratta, non c’è dubbio, di un lavoro ambizioso, esaustivo non tanto rispetto agli studi sulla storia del museo, oggi più che mai diffusi e sempre più dettagliati, talvolta microscopici, quanto riguardo ai risultati del lungo e fecondo percorso di ricerca condotto da Krzysztof Pomian, per decenni docente all’École des hautes études en sciences sociales di Parigi e riconosciuto riferimento nell’ambito degli studi sul collezionismo e, quindi, sul museo.

Già, perché la tesi che lo studioso, nato a Varsavia nel 1932, propone e sostiene nelle centinaia di pagine di quest’opera, pagine fitte di date e di dati eppure cordiali nella scrittura e trasparenti nello sviluppo, è proprio la continuità tra il fenomeno, più volte definito dallo stesso Pomian archetipale e universale, del collezionismo, e il museo, la cui tutto sommato giovane esistenza –“anno più anno meno, la sua storia inizia appena cinque secoli e mezzo or sono” – costituisce un passaggio cruciale nella storia, questa sì infinita, del collezionismo. Come dichiara l’autore nella breve introduzione all’opera, che in questo primo volume conduce il lettore dai tesori, raccolti prima nelle tombe, nei templi, nei palazzi antichi e poi nelle chiese cristiane (“l’oro e la grazia”), alle collezioni di antichità degli umanisti e alle Kunstkammern d’oltralpe per arrivare sulla soglia del museo moderno, nato con la rivoluzione francese (“con la ghigliottina”, aveva scritto sulfureo Bataille), l’intenzione che motiva l’intero lavoro è appunto quella di  “integrare la storia del museo come istituzione specifica […] nella storia globale delle collezioni, che si estende per millenni e della quale quella del museo costituisce solo la penultima tappa”. Sì, la penultima, perché l’ultima, scrive Pomian in una laconica e direi sintomatica nota a piè di pagina, è invece “costituita dall’insieme di riproduzioni di testi, immagini e suoni conservati nei server della rete informatica mondiale”. Così, una sbrigativa notazione al margine sembra aprire una crepa tanto sottile quanto insidiosa nel corpo compatto di una ricostruzione storica “in cantiere da trent’anni”,  insinuando la presenza di un elemento di instabilità in un’istituzione, il museo, che ha conosciuto negli ultimi decenni una crescita numerica persino esuberante (secondo le stime riportate da Pomian si è passati nel periodo 1960-2010 da 10.000 a 85.000 musei) e un ampliamento delle tipologie ancora più travolgente, tanto che in molti hanno parlato non senza ragione di una inquietante musealizzazione del mondo.

Martin Parr, Vatican Museums, 2015

Se l’apparente eclissi dell’oggetto a favore di opere e creazioni digitali non ha messo per niente in discussione il collezionismo – visto che, al tempo degli NFT (Non Fungible Token)  e della tecnologia delle blockchain che rendono unici e costosi gli infinitamente riproducibili contenuti digitali, si desiderano e si collezionano (anche) nuovi “semiofori”, nuovi elementi cioè in grado di mettere l’uomo in relazione con l’invisibile (questa la definizione data a suo tempo dallo stesso Pomian nella voce Collezione dell’Enciclopedia Einaudi) –, qualche incertezza in più ha invece riguardato il museo, che non ha potuto fare a meno di interrogarsi sul suo destino digitale. Il problema non è certo quello dell’utilizzo, ormai diffusissimo, delle nuove tecnologie per lo studio, la conservazione e la comunicazione delle collezioni museali; si tratta piuttosto di riflettere sulla musealizzazione delle opere digitali, per la quale si stanno adottando soluzioni ibride, che prevedono spazi ancora fisici per contenuti nati senza corpo: è proprio di questi giorni l’annuncio dell’apertura entro il 2026 del MAD-Museo dell’Arte Digitale a Milano, negli spazi dell’ex albergo diurno Venezia.

A essere in discussione, più radicalmente, è la definizione stessa di museo e quanto essa sia legata alla presenza di collezioni di oggetti, reperti, testimonianze materiali. La questione è tutt’altro che pacifica: il clamoroso rifiuto da parte di alcuni comitati nazionali (quello italiano, tra gli altri) della nuova definizione di museo, presentata all’interno dell’Assemblea generale dell’International Council Of Musems a Kyoto nel 2019, lo dimostra con chiarezza. La definizione rigettata, cui si era giunti già dopo molte mediazioni, comportava un netto spostamento d’interesse dalla tradizione del patrimonio culturale all’aspetto sociale e politico del museo, chiamato a essere innanzitutto motore di democrazia e di inclusione, segnando quindi un passaggio dalla tradizionale centralità dell’oggetto a quella delle comunità che animano il museo. Il dibattito, reso più urgente dal trauma pandemico, è tutt’ora aperto e anche lacerante. Eppure non credo che stia nella priorità accordata o meno alle collezioni il punto nodale della riflessione che interessa il museo e il suo ruolo (la sua sopravvivenza?) nel XXI secolo, un secolo che secondo alcuni è appena cominciato.

Le ragioni di sospettare che stiamo assistendo a una paradossale fine della storia del museo mi pare le suggerisca involontariamente lo stesso Pomian, in un altro passaggio della sua introduzione. Assodato che “tutte le collezioni mai formate sulla faccia della terra se non sono andate distrutte nel corso del tempo, […] finiscono in un museo, anche se talvolta per vie molto tortuose”, ciò secondo lo studioso è accaduto grazie all’epocale “transizione da una società passatista a una futurocentrica”. Ed è proprio questo il motivo per cui mi pare lecito sospettare che l’età del museo, inteso come istituzione vocata allo studio, all’esposizione e soprattutto alla conservazione per i posteri di una collezione, di oggetti o di idee poco importa, sia giunta al tramonto. La transizione alla quale Pomian attribuisce la nascita del museo non sembra infatti descrivere la condizione attuale, davvero poco proiettata in quel futuro al quale, Pomian ne è convinto, il museo deve guardare: “il museo è una collezione pubblica e profana orientata verso un futuro indefinitamente lontano”.

Martin Parr, Le Louvre, salle de La Joconde, 2012

Al di là dei consueti e generici richiami alla modernizzazione necessaria e al progresso – le “magnifiche sorti e progressive” – che non smettono di occupare la parte più estemporanea del dibattito pubblico, la condizione presente è segnata infatti da una drammatica riduzione degli orizzonti, da una mancanza di futuro (meglio, di un’idea di futuro) che François Hartog ha ampiamente analizzato nei suoi saggi identificando la nostra prospettiva storica con un presentismo più o meno consapevole ed esasperato, dove il passato è oggetto di nostalgia e non certo laboratorio del tempo a venire. In questa visione tutta schiacciata sull’oggi, sull’immediato, una visione resa ancora più sinistra dalla globale crisi sanitaria e climatica, il museo ha ancora ragion d’essere? La sua crescente diffusione sembrerebbe attestare la buona salute di questa istituzione eppure alcuni segnali dicono che le cose non stanno proprio così. O, almeno, suggeriscono che una forma di museo, quella di cui Pomian ci racconta la storia, è giunta alla sua fine.

Non credo sia un caso che sono sempre più frequenti i riferimenti, nell’arte, nelle esposizioni ed anche negli ordinamenti museali, alle Wunderkammern e che sempre nuove stanze delle meraviglie prendono il posto di quello che Nicholas Serota ha definito “il nastro trasportatori della storia”, sostituendo con percorsi tematici o comunque liberi dal “corset de la chronologie” (Dufrêne) i tradizionali ordinamenti storici, non più in grado di corrispondere alla visione del tempo e alle domande del presente. Lo stesso Pomian nella sua storia mondiale del museo ha posto l’attenzione sulla fortuna recente della parola Wunderkammer, utilizzata agli inizi del Novecento da Schlosser, autore della prima ricognizione su queste collezioni diffuse tra il XVI e il XVIII secolo soprattutto in ambito nord-europeo (Raccolte d’arte e di meraviglie del tardo Rinascimento. Contributo alla storia del collezionismo, 1908). È una parola che ha in realtà pochissime occorrenze nei secoli in cui era maggiormente diffusa questa tipologia di collezione basata su criteri analogici di rappresentazione del mondo, una modalità di organizzazione spaziale degli oggetti e del sapere universale (una delle definizioni più consuete della Wunderkammer è theatrum mundi) che Pomian preferisce chiamare Kunstkammer.

Così come è accaduto per la storia dell’arte, di cui nei primi anni Ottanta del secolo scorso Hans Belting aveva prima ipotizzato e poi stabilito la fine, precisando che l’arte non sarebbe scomparsa ma che si sarebbe collocata in un diverso orizzonte di senso dando vita ad altri approcci di studio (l’antropologia delle immagini è stata la sua proposta) e comunque mettendo termine ad una tradizione di storia dell’arte universale e unificata, oggi credo sia possibile ipotizzare un radicale cambio di paradigma per il museo, la chiusura di un ciclo per un’istituzione che già oggi non è più il luogo in cui si accumulano testimonianze di una storia da tramandare ai posteri ma è lo spazio dell’esperienza attuale di un passato e di un presente che si muovono ormai sullo stesso piano, che entrano in libera relazione e si confrontano suscitando meraviglia.

E proprio della meraviglia al museo e del valore delle Wunderkammer aveva già scritto, sempre negli anni Ottanta, Adalgisa Lugli, tra le maggiori studiose del museo del secondo Novecento. Grazie anche alla sua vicinanza con le ricerche dell’arte contemporanea, Lugli aveva saputo individuare nelle quasi dimenticate stanze della meraviglia un’occasione non soltanto di studio museologico ma anche uno stimolo per rileggere il rapporto, mai veramente interrotto, tra arte e scienza, un nesso talvolta sotterraneo messo alla prova in una mostra sulle Wunderkammern del passato e del presente curata dalla studiosa nell’ambito della Biennale di Venezia del 1986. Era una tesi e, soprattutto, un indirizzo di ricerca che lo stesso Pomian aveva apprezzato e discusso – sua l’introduzione al libro postumo della Lugli, Wunderkammer, Allemandi 1997–, ma che purtroppo non ha trovato pieno sviluppo a causa della scomparsa precoce della studiosa nel 1995. A mantenere viva la memoria della ricerca di Adalgisa Lugli è oggi soprattutto il saggio Museologia, voce di enciclopedia pubblicata nel 1992 da Jaka Book in un volumetto giunto nel marzo 2021 alla sua decima edizione, che sarebbe stato forse opportuno accompagnare con almeno una nota di aggiornamento per ricostruire, a distanza di tanto tempo dalla prima pubblicazione, la fortuna del libro e meglio situarne la lettura.

In poco più di cento paginette, Adalgisa Lugli mette a fuoco la natura e gli strumenti metodologici di una disciplina, la museologia, appunto, che alla fine del Novecento era ancora una rarità negli studi accademici essendo riservata essenzialmente alla formazione specialistica degli storici dell’arte, e che oggi occupa invece un ruolo importante nei percorsi formativi delle università e delle accademie di belle arti, intercettando interessi plurali al pari del museo che, scriveva nella prima pagina Lugli, “in un mondo che crede di aver visto tutto, è rimasto uno degli ultimi luoghi nei quali si va alla ricerca della meraviglia o del diverso”. Il museo è in fondo “un luogo di curiosità, tuttora, in cui si può trovare qualcosa che non è nel mondo di tutti i giorni”. Una definizione, questa proposta da Adalgisa Lugli, che a distanza di trent’anni mantiene la sua forza, suggerendoci, al di là della tradizione, un modo per riconoscere un ruolo e una ragione al museo – a un altro museo – anche in questo nostro opaco tempo, senza futuro e senza passato.

Il museo è morto, viva il museo!

Krzysztof Pomian
Il museo. Una storia mondiale
traduzione di Luca Bianco e Raffaella Valiani
Einaudi 2021, pp. XXX-486 ill. a col., € 85

Adalgisa Lugli
Museologia
Jaca Book 2021(10), pp. 107 ill., € 10

In copertina: Martin Parr, Vatican Museums, 2015

Stefania Zuliani

(1968) è docente di Teoria della critica d’arte e di Teoria del museo e delle esposizioni in età contemporanea all’Università di Salerno. Da sempre attenta al contributo che le scritture dei poeti e degli artisti offrono al dibattito critico contemporaneo, negli ultimi decenni ha orientato la sua riflessione all’analisi delle dinamiche che caratterizzano il Global Art World occupandosi in particolare delle relazioni che legano la produzione artistica e critica alla forma-museo e al sistema espositivo. Su questi temi ha pubblicato numerosi saggi e volumi e organizzato convegni e seminari internazionali. Giornalisti pubblicista e critico d’arte, ha curato mostre e cataloghi. Dal 2018 fa parte del comitato scientifico della Galleria Nazionale di Arte Moderna di Roma.

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