Mercoledì 15 settembre alla Fondazione Querini Stampalia di Venezia si terrà l’incontro Tra cielo e terra, tra preistoria e futuro, in occasione della mostra Un’evidenza fantascientifica. Luigi Ghirri, Andrea Zanzotto, Giuseppe Caccavale, a cura di Chiara Bertola e Andrea Cortellessa e aperta sino al 17 ottobre (interverranno, oltre ai curatori, Silvana Tamiozzo Goldmann, Matteo Giancotti, Camilla Miglio, Riccardo Venturi, Valérie Da Costa e Giuseppe Caccavale). Il titolo Un’evidenza fantascientifica viene da uno scritto pubblicato da Zanzotto del 2006, Sarà (stata) natura? (raccolto da Matteo Giancotti in Luoghi e paesaggi, Bompiani 2013): «ciò cui oggi si dà il nome di benessere, coincide con l’infierire contro la madre terra e i paesaggi in cui essa si era costituita lungo i milioni di anni: paesaggi in cui essa aveva accettato e accarezzato la presenza umana, scaglionandola lentamente in armonie progressivamente integrate. | Si è verificata una damnatio di questa memoria territoriale millenaria, o, meglio, una banalizzazione della storia in toto, che ha comportato un violento rovesciamento dei rapporti temporali; e l’antichissima realtà naturale, da sempre fondante la stessa idea di “essere umano”, si dà oggi come miraggio ecologico, proiettato verso un futuro estremamente avanzato: non verso “ciò che sarà”, ma verso “ciò che sarà stato”. Gli stessi sfondi paesaggistici dei nostri Giorgione e Tiziano, non trovando più una corrispondenza nella realtà geografica che siamo costretti ad abitare, hanno assunto un’evidenza fantascientifica».
Con lo stesso titolo esce in questi giorni il terzo numero dei «Quaderni del Fondo Luigi Ghirri» (Corraini, pp. , € ), dal quale per la cortesia di autrice ed editore proponiamo il saggio di Chiara Bertola.
Il paesaggio che attraversiamo in occasione del terzo appuntamento del Fondo Ghirri è quello tracciato e denunciato da un poeta come Andrea Zanzotto, inseguito e tradotto da un artista visivo come Giuseppe Caccavale, dislocato e aperto da un fotografo come Luigi Ghirri. Nessuno di questi tre artisti invitati si è di fatto riferito al paesaggio pensandolo come uno scenario fermo, acquisito e immutabile, su cui – come un fondale – trascorre la vita quotidiana. Anzi, seguendo i percorsi tracciati, non si può non avvertire, in ognuno di loro, l’instabilità, la reazione sensibile ai cambiamenti inferti dalle nuove forme di consumo della società. La mostra si configura dunque come un paesaggio linguistico dove i diversi segni artistici si compongono in scenari che, perduti nella realtà, vivono comunque nella memoria.
Giuseppe Caccavale ha trasformato il Portego della Biblioteca in un ambiente luminoso di acqua e colore. Con grandi acquerelli dipinti su carta da spolvero, ha foderato le intere pareti della grande sala seguendo il ritmo dell’architettura delle tante porte e finestre che storicamente si affacciano su quella sala. Trasforma e ritma lo spazio con la leggerezza dell’acquerello e lo ripensa con l’immaginazione del disegno: il luogo dei libri diventa il luogo dei pensieri e forse anche quello dei sogni. Il risultato è un inedito paesaggio intriso delle cromie attinte dalla tavolozza di Cima da Conegliano (artista caro a Zanzotto) sul quale si animano le figure di adolescenti e bambini: una classe che si prepara ad ascoltare la lezione allestita sui sei tavoli di legno al centro della sala, che accolgono i materiali degli altri maestri, Luigi Ghirri e Andrea Zanzotto. Così, dentro la pittura, germogliano la fotografia e la poesia. I tre linguaggi danno forma a un paesaggio, ciascuno con il suo alfabeto che fa risuonare gli elementi in modo diverso. Ghirri e Zanzotto sono infatti maestri del paesaggio: le loro vedute in scatti e in versi mostrano un che di metafisico, enigmi che vanno oltre quello che il nostro occhio percepisce, pur raccontando un territorio e le possibilità che l’uomo ha di abitarlo. Ghirri ritrae la marginalità della provincia padana e svela la grazia inconsapevole del quotidiano; Zanzotto canta le sue colline venete e l’amore antico per una terra che è povertà e fatica, ma anche legame per le comunità contadine; Giuseppe, perché esule e sempre in viaggio, ritrova il proprio territorio portando alla luce e traducendo i segni e il sapere dei maestri del passato.
Al centro della sala, su grandi tavoli – esattamente come quelli nelle sale della biblioteca adiacente – come un’isola di documenti e immagini, si compone un montaggio di materiali eterogenei e segretamente solidali: fotografie, manoscritti, testi, disegni preparatori, acquerelli. Un insieme corale di segni, immagini e versi è stato chiamato a ricordare visioni e parole che avevamo dimenticato; una lezione che oggi diventa ancora più necessaria per “guardare” il presente e che vorremmo riproporre come lectio magistrale per gli allievi che dai muri di carta guardano con sguardi stupiti e ancora ingenui. Quello è lo sguardo che questi autori auspicano per riformulare un mondo che è sparito nella realtà, che non corrisponde più, ma che continua a risuonare nel ricordo.

Nei dieci giorni intensi e continui dell’allestimento nella sala della biblioteca, ho assistito Giuseppe nel suo “fare”. Dipinge su un grande tavolo improvvisato, dove sono stesi gli smisurati fogli di carta da spolvero, due ciotole di acqua e i tubetti degli acquerelli Senellier. I più luminosi, come mi fa notare Giuseppe. L’osservo mentre dipinge, ma piuttosto dovrei dire mentre scrive, perché, come molte volte mi ha ripetuto, il suo lavoro è quello di uno scriba: un lavoro di traduzione. Per arrivare a maneggiare così serenamente l’acquerello, tecnica difficile, velocissima e sfuggente, questo artista ha praticato per anni il pastello, il disegno, l’incisione su vetro, su muro; anni di affreschi e di spolveri. Questo gli permette di usare l’acquerello alla maniera di un calligrafo giapponese. Le figure sono luminose e nonostante la trasparenza paiono solide e stabili, quasi scolpite nella pietra. Di fatto sono come degli affreschi – la tecnica dell’acquerello è in effetti la più prossima all’affresco, anch’essa fatta di acqua e pigmento. Non ho mai visto acquerelli così grandi, ma non c’è nessuna fatica nel loro segno perché non sono perfetti ed è proprio in questo che sta la bellezza: all’origine c’è la mano di un artista che sa e che può permettersi di fare le cose come se fosse sovrappensiero, quasi distratto; dietro l’apparente leggerezza esiste un lavoro di anni e anni, esercizio, preparazione e studio.
In fondo anche Ghirri per aderire alla natura delle cose che riprende, ricorre agli strumenti del passato e molto spesso adotta una prospettiva frontale di tipo rinascimentale. Sfruttando la luce naturale il più possibile, si rifiuta d’impiegare filtri o lenti in grado di deformare l’immagine. Lo conferma lui stesso quando dichiara che «Uno degli elementi che mi affascinava nelle ricerche concettuali […] era l’irruzione della possibilità di una sorpresa all’interno del quotidiano anche riferito all’arte. Ma al di là di questo, credo di aver appreso dall’arte concettuale la possibilità di partire dalle cose più semplici, dall’ovvio, per rivederle sotto un’altra luce»[1].Lo aveva già scritto Quintavalle nel 1992 sottolineando che Ghirri sceglie gli spazi dell’arte rinascimentale dove «non c’è epos né storia, non dunque Masaccio ma Beato Angelico, non Donatello ma Filippo Lippi, non Neroccio ma Sassetta»[2].

Ghirri inizialmente sperimenta e rappresenta il paesaggio delle cose restituendole magiche e fuori tempo e offre una possibilità alternativa agli scenari familiari della sua terra emiliana. Insomma, rincorre la possibilità di una rieducazione visiva, per “decongestionare” lo sguardo e vedere in maniera nuova un mondo che non si sa più guardare. Con questo obiettivo troviamo la maggior parte dei suoi progetti degli anni Settanta; tuttavia già il 1979 segna un cambiamento nella sua poetica, perché sposta l’attenzione verso il paesaggio italiano e il luogo della sua origine. Si tratta di restituirne un’immagine nuova e inedita, fuori dal cliché turistico del Bel Paese. Nei primi anni Ottanta Ghirri intensifica il lavoro sul paesaggio attraverso una serie di collaborazioni e progetti di ricerca, tra cui il più famoso Viaggio in Italia del 1984. Un progetto che ha un ruolo fondamentale nell’avviare il dibattito sul rinnovamento della fotografia italiana degli ultimi vent’anni, e, come sottolinea Roberta Valtorta, «per aver instaurato un dialogo tra la fotografia e le altre arti – architettura, cinema, e letteratura – dando vita a una nuova attenzione al paesaggio»[3]. Le immagini che Ghirri vede per questa nuova Italia si concentrano su spazi ai margini di una tradizione riconosciuta; il suo sguardo è rivolto a luoghi che ai più appaiono sconosciuti. È attento ai dettagli minimi e inosservati, ma sui quali trasferisce quel sentimento affettivo dei luoghi quotidiani, restituendo un senso di pace e armonia. Walker Evans è un maestro per Ghirri: da lui l’artista impara un senso di meraviglia e di stupore, come di chi vede la realtà per la prima volta. Quello stesso sguardo lo cerca anche Giuseppe Caccavale, portando il suo lavoro a farsi con nulla, a svuotarsi fino a diventare pigmento o polvere. La sua opera emerge dal “togliere”: è scavata nella storia e nello studio. Non ci sono scorciatoie per arrivare a un’immagine che deve risultare semplice e profonda; un’immagine di fronte alla quale tornare a meravigliarsi. Dietro l’opera di questo artista c’è sicuramente il valore del tempo che ha tessuto e sostanziato le figure della nuova visione. Un tempo lungo e necessario per arrivare alla veduta finale, che porta dentro, silenziosamente, i numerosi disciplinati passaggi delle diverse fasi di lavoro. Il caso è escluso e ogni dettaglio è posto sotto controllo.
Ognuno di questi autori è consapevole che il paesaggio vive e si trasforma nel tempo con il mutare delle forme di vita e soprattutto dei modi di produrre e crescere di una società. Eppure, nessuno di loro riesce a tacere ciò che è accaduto al paesaggio italiano nei decenni trascorsi. Per Luigi Ghirri la denuncia è nella deviazione dello sguardo dalla devastazione, nell’immaginazione del paesaggio attraverso la nebbia. Anche Andrea Zanzotto lascia aperto il giudizio su un pericoloso «progresso» che, sappiamo, può diventare «scorsoio»: «laddove un tempo il paesaggio si configurava attraverso interventi esperti e secolari che esprimevano per intero una cultura, quello dell’Italia d’oggi sembra il risultato di interventi caotici, incoerenti, improvvisati, espressione di una società priva di disegni ideali, trascinata solo dalle regole del gioco economico e delle sue scenografie consumistiche»[4]. Il paesaggio reale, quello che si modifica velocemente sotto i nostri occhi, è un paesaggio che non ci piace, in cui non ci riconosciamo e che non vorremmo vedere; per questo motivo Andrea Zanzotto conia un tempo verbale diverso, che ci permette di rimanere un passo indietro rispetto a questo presente: «diciamo il “presente remoto” … Lo chiamo così perché rispetto a un passato anche abbastanza recente, e che si allontana vorticosamente, a folate, percepiamo il presente che abbiamo “qui” e in cui ci ritroviamo, come un lacerante specchio sempre più remoto dal nostro vero essere. Per parlarne c’è bisogno di una categorizzazione grammaticale diversa: è un quid che va vissuto come presente e, nello stesso tempo, come remoto»[5]. Perché se gli alberi scompaiono, scompare «la fede nella loro crescita e nessuno osa sperare che i bambini sosteranno nella loro ombra». Al posto degli alberi sono comparsi i lampioni che illuminano a giorno anche la notte, «portabandiera di un’evoluzione che tende a sostituire ogni morbida evoluzione organica, a misura d’uomo, con la durezza dell’inorganico. Quasi sempre ciò preannuncia un’ondata distruttiva, che inizia con l’abbattimento di tutti gli alberi e si conclude con la dissoluzione di ogni ordine e struttura»[6].

Tuttavia, non ci si arrende allo scempio. A Ghirri, che suggerisce di partire per ogni racconto dell’esistenza e a esso ritornare, per non perdersi nel disfacimento dell’esistenza, fa eco Andrea Zanzotto quando scrive «Per capire i luoghi non abbiamo bisogno di radicarci, ma di eradicarci, addentrandoci così profondamente in loro da riuscire a bucarli per arrivare altrove, rivedendoli nuovi, forse soltanto allora “nostri”»[7]. Forse quello che intendeva Ghirri quando diceva che bisogna «Dislocare lo sguardo per aprire il paesaggio…»[8]. Per Giuseppe Caccavale si tratta invece di compiere ogni volta una traduzione. E non si tratta di rispolverare le tecniche antiche, ma di reinventarle sperimentandole di nuovo per trovare un nuovo slancio interpretativo. Il fine del suo tradurre e di riportare alla luce è un altro: «far sì che le parole e le cose trovino una nuova e più fondata corrispondenza»[9].
Ognuno dei tre autori invitati alla Querini ha esplorato all’interno della propria opera quello «spazio senza grammatica» – per usare un’espressione di Giuseppe Caccavale – che lascia le apparenze al margine per vedere nella pienezza le cose. Credo si tratti dello spazio lasciato vuoto dopo un urlo o aperto dopo uno strappo. Perché quando si vede qualcosa di prossimo al vero si ha la necessità di reinventare parole, immagini e cose. Per l’artista visivo è stato fondamentale potersi mettere davanti all’arte dei maestri e sprofondare nella poesia: «un luogo che non dà reddito», mi scrive Giuseppe Caccavale, «perché qui si può ricreare e studiare». Ricordo una metafora che Giuseppe mi aveva donato e che ho utilizzato molte volte nel mio lavoro di curatrice, soprattutto quando ho dovuto spiegare in Querini l’importanza dell’invito agli artisti contemporanei a lavorare nel museo antico della Fondazione: l’immagine di un pallone sott’acqua che viene fuori con forza dopo che è stato immerso. Allude a un’immagine intrisa di sedimenti, che viene fuori con lo slancio impresso dagli artisti, i quali fanno fare un balzo in avanti all’arte. Le fotografie di Ghirri sono esposte sui vecchi tavoli non tutte nello stesso verso perché è importante rompere l’abitudine dello sguardo e aprire nuove prospettive di visione: le fotografie presentate in orizzontale invece che in verticale suggeriscono inaspettate geometrie e variazioni di colore.
La mostra, definita da Giuseppe Caccavale un cantiere visivo, ci conduce in un luogo senza coordinate geografiche, fuori dal tempo e dallo spazio dove però la realtà è ancora più autentica e la natura ancora più vicina. Un mondo ideale, come è quello dipinto dai pittori veneti – Tiziano, Giorgione, Cima da Conegliano – tanto amati da Zanzotto che, angosciato dall’avanzata di un «progresso scorsoio», che strangola la natura, vede nei loro paesaggi la promessa di un’armonia che salverà l’essere umano. Un desiderio di felicità così attuale e struggente da sembrare irrealizzabile: un’evidenza fantascientifica.
[1] Luigi Ghirri, Niente di antico sotto il sole. Scritti e interviste, Quodlibet, Macerata 2021, p. 312.
[2] Cfr. Arturo C. Quintavalle, Lo sguardo di Ghirri, «Ottagono», 102, marzo 1992, cit. in Luigi Ghirri. Vista con camera. 200 fotografie in Emilia Romagna, Motta, Milano, 1992, pp. 199-203.
[3] Roberta Valtorta, Stupore del paesaggio. In Racconti dal paesaggio 1984-2004. A vent’anni da Viaggio in Italia, Lupetti, Milano 2004, p. 11
[4] Francesco Vallerani, Introduzione, in Eugenio Turri, Semiologia del paesaggio italiano, Marsilio, Venezia 2014.
[5] Andrea Zanzotto, atti del convegno Fondamenta / Venezia città dei lettori, 3/6 giugno 1999, Marsilio, Venezia 1999, p. 122.
[6] Johann Kraftner, L’albero e l’architettura, in “Lotus International”, 31, Electa, Milano 1981, pp. 26-7.
[7] Matteo Giancotti, Radici, eradicazioni, introduzione ad Andrea Zanzotto, Luoghi e paesaggi, Bompiani, Milano 2013, p. 5 (che riprende l’incipit di Venezia, forse).
[8] Vanni Codeluppi, Vita di Luigi Ghirri. Fotografia, arte, letteratura e musica, Carocci, Roma 2020.
[9] Laura Cherubini, Immagine d’aria. La forza degli occhi, in Poesie d’amore di Alfonso Gatto graffite da Giuseppe Caccavale,Electa, Milano 2010, p. 18.
In copertina: Luigi Ghirri, Angiari, Argine dell’Adige (1989-1990), Fondo Luigi Ghirri, Fondazione Querini Stampalia