In occasione della mostra Venere. Natura, ombra e bellezza, curata da Claudia Cieri Via, che apre il 12 settembre e prosegue sino al 12 dicembre a Palazzo Te a Mantova, l’editore Tre Lune pubblica il volume Venere a Palazzo Te, con saggi della stessa Cieri Via e di Stefano Baia Curioni a introdurre una guida puntuale alle “epifanie” di Venere nei cicli iconografici del Palazzo (120 pp. ill col., € 14). Per la cortesia di autrice ed editore proponiamo il testo di Claudia Cieri Via, sull’iconografia secolare di Venere sino a giungere ai trionfi di Palazzo Te.
Venere è una divinità romana identificata con l’Afrodite greca. Nell’Inno a Venere Lucrezio la descrive come forza generatrice della natura nei diversi aspetti che il poeta esprime nei suoi versi dando corpo alla sua immagine:
Madre degli Eneadi, voluttà degli uomini e degli dei,
alma Venere, che sotto gli astri vaganti del cielo
popoli il mare solcato da navi e la terra feconda
di frutti, poiché per tuo mezzo ogni specie vivente si forma,
e una volta sbocciata può vedere la luce del sole:
te, o dea, te fuggono i venti, te e il tuo primo apparire
le nubi del cielo, per te la terra industriosa
suscita i fiori soavi, per te ridono le distese del mare,
e il cielo placato risplende di luce diffusa.
Non appena si svela il volto primaverile dei giorni,
e libero prende vigore il soffio del fecondo Zeffiro,
per primi gli uccelli dell’aria annunziano te, nostra dea,
e il tuo arrivo, turbati i cuori dalla tua forza vitale.
Plinio nella Naturalis Historia racconta come Apelle avesse dipinto il volto della bella Campaspe, l’amante di Alessandro Magno, della quale l’artista si era innamorato ritraendola nuda nelle vesti di una Venere Anadiomene, la Venere che esce dall’acqua. La rappresentazione della bellezza femminile è dunque metafora della pittura. In opere come l’Aphrodite Anadiomene, la modella ritratta da Apelle è necessariamente assente, perché è l’arte della pittura che il pittore desidera possedere.
La bellezza di Venere dunque è stata rappresentata dai grandi artisti proprio in quelle forme che nell’alludere richiamano lo sguardo: l’Afrodite Cnidia di Prassitele (IV secolo a.C.) cerca di sottrarre allo sguardo dell’osservatore le pudenda con un gesto della mano destra, mentre nella Venere de’ Medici (Firenze, Le Gallerie degli Uffizi, I secolo a.C.) e nella Venere Capitolina (Roma, Musei Capitolini, I-II secolo d.C.) Venere si copre il seno con la mano destra, nella definizione della Venere pudica. Infine la Venere Callipigia (Napoli, Museo Archeologico, I-II secolo d.C.), svela le sue forme richiamando l’osservatore con il suo sguardo che si volge all’indietro ruotando il corpo e mostrando “pudicamente” le sue belle natiche.
La duplice natura di Venere casta e sensuale si rintraccia nelle sue origini. Afrodite, secondo Esiodo, nasce dalla spuma del mare, da αφρóς, da cui deriva il suo nome, in seguito alla castrazione di Urano (Ouranos), invece secondo la tradizione omerica la dea nasce da Zeus e Dione. Platone oppone all’Aphrodite Ourania, la dea dell’amore casto e puro, l’Aphrodite Pandemos protettrice dell’amore naturale, della fecondità, delle nascite ma anche dei matrimoni, immagini sopravvissute e immortalate da Botticelli nei due dipinti degli Uffizi. Pausania aggiunge una terza forma di amore, che fa riferimento all’amore impuro, l’Aphrodite Epistrophia dea della lussuria, che si identifica anche con le cortigiane e le prostitute. Ma la duplice natura di Venere come unione dei contrari permette anche una sua identificazione con Diana, come Venus Virgo, ma anche come Venus Victrix, la Venere vincitrice con l’elmo di Minerva, la lancia in mano e lo scudo con la testa della Gorgone (Wittkower 1987). Venere, consacrata dea della bellezza dal Giudizio di Paride, esprime dunque i valori più profondi: dalla fecondità propria della Venus Genitrix, fino alla sublimazione nella Venere Ourania.

La presenza di Venere come protagonista delle decorazioni di Palazzo Te, già definito il «sacrario di Venere», esprime il carattere archetipico di questa divinità dell’Olimpo greco, attraverso i suoi aspetti anche contraddittori che si manifestano nelle diverse rappresentazioni della sua figura: dalla Venere pudica alla Venere velata, dalla Venere marina alla Venere vincitrice, alle favole mitologiche che la vedono coinvolta nel matrimonio con l’anziano Vulcano, in una passione erotica con Marte, in un coinvolgimento amoroso fino alla morte con Adone.
Venere trova la sua più naturale collocazione a Palazzo Te, una dimora immersa nella Natura dell’isola del Tejeto ai margini di Mantova, un luogo di otia, come è chiaramente dichiarato nell’iscrizione dedicatoria al committente Federico II Gonzaga sul cornicione della camera di Amore e Psiche, fra gli ambienti più decorati del Palazzo da Giulio Romano e i suoi allievi:
FEDERICUS GONZAGA II… CAPITANEVS GENERALIS HONESTO OCIO POST LABORES AD REPARANDAM VIRT[UTEM] QVIETI CONSTRVI MANDAVIT.
Palazzo Te fu espressione di un’intesa fra il marchese Federico Gonzaga, Baldassarre Castiglione e Giulio Romano. Quest’ultimo, condotto da Roma a Mantova nel 1524 per intercessione dello stesso Castiglione, fu il più brillante fra gli allievi di Raffaello, come scriverà più tardi Giorgio Vasari nella Vita dell’artista: «più fondato, fiero, sicuro, capriccioso, vario, abondante et universale; per non dire al presente che egli fu dolcissimo nella conversazione, ioviale, affabile, grazioso e tutto pieno d’ottimi costumi» (Vasari 1966-1987, p. 324).
Tali caratteristiche si riflettono nelle decorazioni di Palazzo Te che, come ha colto più tardi Pietro Aretino in una lettera a Giulio Romano del 1543, è la summa di quello spirito «anticamente moderno e modernamente antico». L’origine romana dell’artista che amava firmarsi Julius Romanus e la sua formazione nella piena fioritura dell’arte a Roma presso la bottega di Raffaello furono decisivi per cogliere il ruolo della pittura e della scultura in anni di piena esplosione della scoperta dell’arte antica.
A partire dalla fine del Quattrocento infatti, attraverso gli scavi archeologici, furono portati alla luce gli affreschi della Domus Aurea, opere come l’Apollo del Belvedere, l’Arianna addormentata, fino al gruppo scultoreo del Laocoonte. Su questa scultura Aby Warburg, lo storico dell’arte tedesco che dedicò i suoi studi in particolare all’arte antica e alla sopravvivenza dei modelli classici nell’arte del Rinascimento italiano, affermò: «… il gruppo dei dolori di Laocoonte, il Rinascimento, se non l’avesse scoperto, avrebbe dovuto inventarlo, proprio per la sua sconvolgente eloquenza patetica» (Warburg 2004). L’impronta vitalistica delle decorazioni di Palazzo Te si esprime infatti attraverso la sperimentazione artistica di Giulio e dei suoi allievi informando l’architettura del palazzo e le pitture dalle variate tecniche artistiche.
La ricchezza delle decorazioni, quasi al limite dell’horror vacui, genera un coinvolgimento del visitatore che è invitato a entrare nei grandi impianti decorativi, a cercare e osservare con attenzione e divertimento le dettagliate figurazioni e ornamentazioni che riempiono ogni spazio delle pareti e dei soffitti delle camere, animando ogni rilievo sui soffitti e anche sulle facciate esterne dell’architettura. La meraviglia che questo palazzo ci trasmette oggi non è dissimile da quella che si trova espressa nelle parole di Ludovico X di Baviera in una lettera scritta nel 1536 al fratello Guglielmo IV in occasione di una visita a Mantova: «Una cosa simile non si potrebbe trovare per stanze meravigliose, per l’architettura e anche per le pitture, su che si sarebbe molto da scrivere e da dire».
Nel 1537 lo stesso Ludovico X fece edificare la Residenza di Landshut sulle linee architettoniche del Palazzo Te. Il percorso che ci conduce, attraverso le camere del palazzo, alla ricerca di Venere è articolato e vario, non si coglie sempre un programma iconografico strutturato con precisi riferimenti a fonti testuali, non sono stati trovati documenti che possano attestare una specifica consulenza da parte di un umanista alla corte del marchese Federico II Gonzaga. La presenza di Venere nelle decorazioni di Palazzo Te è più spesso allusa nelle sue caratteristiche che risalgono al pensiero filosofico dell’antichità e agli autori greci e latini, da Omero a Esiodo, Lucrezio, Virgilio, Ovidio, Luciano, prendendo forma nelle sculture e nei rilievi antichi, trasmessi attraverso esemplari sopravvissuti nel tempo o replicati nelle medaglie e nelle monete presenti in collezioni d’antichità e in quanto tali già assunti nelle decorazioni dei primi due decenni del Cinquecento a Roma a opera di Raffaello e la sua scuola.
La riproposta di tale uso repertoriale del collezionismo antiquariale da parte di Giulio Romano a Mantova trova infatti una precisa continuità con i modelli antichi transitati nei cantieri della villa di Agostino Chigi alla Lungara, della stufetta del cardinale Bibbiena e delle Logge Vaticane. Questi troveranno una loro affermazione ed elaborazione nel linguaggio formale di Giulio Romano e dei suoi allievi fissando quei modelli antichi non solo tramite le repliche antiquariali ma nella loro rivitalizzazione nelle immagini e nella loro portata espressiva, ora giocosa ora drammatica che si manifesta negli affreschi di Palazzo Te.
Venere inaugura il percorso all’interno del palazzo a partire dalla camera di Ovidio nell’affresco con il Giudizio di Paride che conferisce alla dea la palma della bellezza, nei suoi aspetti di Venere terrestre e di Venere celeste secondo il pensiero platonico, attivando il tema della contrapposizione fra Bacco e Apollo, fra l’eros del dissonante mondo bacchico e l’armonia della musica di Orfeo e di Apollo (Panofsky 1975; Wind 1985). Venere assume dunque il significato di concetti astratti: la bellezza, l’amore, l’eros, la Natura, la Primavera, la fecondità, la musica, spesso prendendo forma anche attraverso travestimenti nei personaggi delle favole antiche, come Arianna, Olimpiade, Psiche, Antiope e tutte le numerose ninfe dei boschi e le nereidi tramandate dall’immaginario del mondo antico. Le Veneri di Palazzo Te presentano spesso le caratteristiche della Venere marina, probabilmente in rapporto alla posizione della dimora dei Gonzaga sul Mincio. La Venere Anadiomene, legata alla sua origine dal mare, era stata celebrata nel più antico e splendido rilievo del Trono Ludovisi del V secolo a.C., dove una Venere vibrante emerge dalle acque.

La Venere Anadiomene, spesso accompagnata da Eros-Cupido, suo figlio, presenta come attributo un delfino. Altre volte Venere è raffigurata insieme a tritoni e nereidi, in una contaminazione con la figura di Galatea, rappresentata da Raffaello nel celeberrimo affresco della villa di Agostino Chigi a Roma.
Anche Venere, come Galatea, è posta su un carro trainato da leoni marini o da grossi delfini e naviga trionfalmente sulla superficie del mare; in altri casi solca i flutti in piedi su una conchiglia, come nell’affresco di Raffaello nella stufetta del cardinale Bibbiena. Ma il suo regno può essere anche l’aria che attraversa con un carro guidato da cigni o da colombe, suoi attributi, come nell’immagine del primo episodio che illustra la favola di Apuleio nella camera di Amore e Psiche. Qui Venere entra fra i protagonisti della favola di Amore e Psiche dove si intrecciano le storie dei suoi amori con Marte e Adone. La morte di quest’ultimo è appena allusa negli affreschi sulla parete della camera e in particolare nel bellissimo dettaglio del Cupido che mostra allo spettatore una rosa rossa, simbolo del rituale della tintura delle rose e della stagionale rinascita di Adone. Un tema che risale all’opera di un autore tardoantico, Aftonio (Progymnasmata) e che si diffonderà anche tramite il romanzo di Francesco Colonna, l’Hypnerotomachia Poliphili, stampato a Venezia nel 1499. L’episodio della morte di Adone sarà raffigurato spesso nella pittura dei secoli XVI e XVII come espressione del lamento funebre, declinato attraverso le favole antiche e i poemi cavallereschi del XVI secolo con riferimento al valore universale del mistero della morte di Cristo, come si evince dal confronto fra i due celeberrimi dipinti di Nicolas Poussin.


Venere si accompagna spesso a Cupido, il suo attributo più eloquente ma anche interlocutorio nell’educazione d’amore impartita dalla stessa Venere, fra i possibili soggetti dello splendido dipinto di Tiziano alla Galleria Borghese. L’educazione d’amore è presente nelle piccole figurazioni delle decorazioni di Palazzo Te a testimoniare la diffusione di alcuni aspetti dei miti antichi legati a Venere, ma anche la loro sopravvivenza nella cultura rinascimentale, come ad esempio lo sdoppiamento di Cupido in Eros e Anteros, nel significato di amore reciproco secondo la tradizione classica oppure come contrapposizione moralistica fra il Cupido bendato e il Cupido veggente che appartiene alla cultura medievale e trova continuità nel Quattrocento e nel Cinquecento (Panofsky 1975).
La presenza di questi temi, nascosti tra le decorazioni di Palazzo Te, rivela la sofisticata cultura della corte di Federico II Gonzaga che si può permettere, con una certa sprezzatura, di alludere ai temi che venivano alla luce e si dibattevano nei testi degli umanisti e degli antiquari del tempo, da Mario Equicola a Celio Calcagnini ad Andrea Alciati.
Alla toeletta di Venere è dedicato il camerino di Venere fra i piccoli ambienti che concludono il percorso nel palazzo, prima dell’appartamento della grotta e della loggia del Giardino segreto. L’esaltazione della bellezza di Venere si manifesta nella Venere allo specchio, un genere che si afferma nella pittura veneziana del tempo in particolare nei dipinti di Tiziano. Ma lo specchio in rapporto alla bellezza femminile esprime anche gli aspetti di erotismo, di svelamento e dunque di verità, e infine di temporalità cui si lega la vanitas della bellezza femminile (Cieri Via 2021). Ma a Palazzo Te la bellezza di Venere assume anche le sembianze di altre figure femminili, non solo del mondo mitologico. La decorazione di Palazzo Te, per lo più dedicata all’immaginario mitologico, riserva piccola parte a soggetti storici e dell’Antico Testamento. In proposito è di un certo interesse la Loggia di David dedicata appunto al re d’Israele; questi è raffigurato nelle due lunette mentre suona la tradizionale cetra e nell’episodio dell’uccisione del gigante Golia, che segna la sua virtù eroica. Sulla volta della loggia nei tre ottagoni sono invece rappresentati gli aspetti cruciali dell’innamoramento di David per Betsabea e la violenta morte del marito, Uria, ucciso in battaglia con il contributo dello stesso David. Betsabea al bagno è osservata da David, colpito dalla sua bellezza. Bellezza celebrata anche nell’ottagono dove Betsabea con lo specchio in mano, attorniata dalle ancelle che accudiscono alla sua toeletta, assume il ruolo di Venere, dea della bellezza.

Nella decorazione della loggia dedicata a un episodio personale del re David si è voluto vedere un riferimento al rapporto di Federico II con Isabella Boschetti, metaforicamente presente in Palazzo Te, dimora progettata anche come luogo del loro amore, nobilitato dalla identificazione di Federico come David, la cui immagine con la cetra è incisa sul verso della medaglia con il suo ritratto, eseguita da Giovan Battista Cavalli, e di Isabella nelle sembianze di Betsabea con lo specchio in mano, come nuova Venere, immagine della bellezza all’interno del tempio dell’arte. Infatti lo specchio, peraltro attributo della bellezza di Venere, è anche una metafora della pittura (Farinella 2015).

I molteplici aspetti di Venere, immergendosi nel contesto della corte di Federico II, sono stati depositati da Giulio Romano nel magnifico disegno di Chatsworth, progetto per un arazzo tessuto dall’arazziere fiammingo Nicolas Karcher intorno al 1540 e commissionato da Federico II Gonzaga.

Una ninfa, seduta in un rigoglioso giardino, attorniata da putti che giocano, è spiata da un satiro. Il carattere di fecondità e di prosperità che regna in questo luogo ripropone la tradizione dei giardini d’amore del Trecento e del Quattrocento che a loro volta riprendevano il modello dell’hortus conclusus in quanto spazio riservato, metafora della castità della Vergine, ma anche luogo di rigenerazione naturale. La nudità della ninfa spiata da un satiro invita a una ricezione erotica dell’arazzo, ma la presenza di puttini alati abbracciati alla divinità in attesa di essere allattati ne evidenzia l’aspetto nutrizionale assimilandola alla Venere naturale. La rappresentazione dei putti che giocano in un giardino si basa sull’opera di Filostrato, le Εἰκόνες (II secolo d.C.), ed evoca anche l’iconografia della Carità, interpretazione già proposta da Nello Forti Grazzini, supportata anche dalla presenza di tralci di uva che si annodano alle piante di rose a indicare una sorta di simbolismo fra sacro e profano (Delmarcel-Brown 1988; Forti Grazzini 1990). Il gioco dei putti è un tema che si era sviluppato a Roma, come dimostrano i disegni di Tommaso Vincidor, e aveva trovato particolare fortuna proprio alla corte dei Medici. Infatti papa Leone X aveva commissionato venti arazzi con giochi di putti nel 1521 da collocare in occasioni ufficiali nella sala di Costantino in Vaticano.
Più tardi il cardinale Giulio de’ Medici, eletto pontefice nel 1523 con il nome di Clemente VII, fece completare la decorazione di Villa Madama dove il gioco dei putti è presente nel fregio della camera del Sole e della Luna, eseguito da Giulio Romano e dai suoi aiuti. I rilievi in stucco sono qui arricchiti dalla presenza di tralci di vite che per il loro significato eucaristico attribuiscono una declinazione cristiana alla decorazione (Cieri Via 2004). La presenza fra i tralci di vite nella bordura dell’arazzo mantovano dei due stemmi araldici di Federico II Gonzaga, il monte Olimpo e la salamandra, nel sottolineare la sua committenza, contribuisce all’intenzionalità celebrativa dell’arazzo come espressione di un’età dell’oro che si riflette nel buon governo del primo duca di Mantova.

Cieri Via 2004 = Cieri Via, Claudia, Villa Madama: una residenza “solare” per i Medici a Roma, in Roma nella svolta tra Quattro e Cinquecento, Atti del Convegno Internazionale di Studi (Roma, 28-31 ottobre 1996), a cura di Stefano Colonna, De Luca, Roma 2004, pp. 349-374.
Cieri Via 2021 = Cieri Via, Claudia, Visualizzare il tempo. Idee e immagini dall’antichità all’età barocca, in La forma del Tempo, catalogo della mostra (Milano, Museo Poldi Pezzoli 2021), a cura di Lavinia Galli, Skira, Milano 2021, pp. 39-52.
Delmarcel-Brown 1988 = Delmarcel, Guy e Brown, Clifford M., Les Jeux d’Enfants, tapisseries italiennes et flamandes pour les Gonzague, «Racar», XV, 2, 1988, pp. 109-121.
Farinella 2015 = Farinella, Vincenzo, Vizi privati e pubbliche virtù: Federico II Gonzaga a Palazzo Te, in Il principe inVisibile. La rappresentazione e lariflessione sul potere tra Medioevo e Rinascimento, a cura di Lucia Bertolini, Arturo Calzona, Glauco Maria Canterella e Stefano Caroti, Atti del Convegno Internazionale di Studi (Mantova, 27-30 novembre 2013), Turnhout, Brepols 2015, pp. 225-244, fig. 11.
Forti Grazzini 1990 = Forti Grazzini, Nello, Disegni di Giulio Romano per gli arazzi estensi (1537-1543), «Arte Tessile», 1, febbraio 1990, pp. 9-21.
Panofsky 1975 = Panofsky, Erwin, Studi di iconologia. I temi umanistici nell’arte del Rinascimento, Einaudi, Torino 1975, pp. 134-183.
Vasari 1966-1987 = Vasari, Giorgio, Le vite de’ più eccellenti pittori scultori e architettori nelle redazioni del 1550 e 1568, testo a cura di Rosanna Bettarini, commento secolare a cura di Paola Barocchi, 6 voll., Sansoni, Firenze 1966-1987.
Warburg 2004 = Warburg, Aby, Opere I. La rinascita del paganesimo antico e altri scritti (1889-1914), a cura di Maurizio Ghelardi, Aragno, Torino 2004.
Wind 1985 = Wind, Edgar, Misteri pagani nel Rinascimento, Adelphi, Milano 1985.
Wittkower 1987 = Wittkower, Rudolf, Allegoria e migrazione dei simboli, Einaudi, Torino 1987, pp. 250-273.
Immagine di copertina:Raffaello Sanzio, Galatea, dettaglio del Trionfo di Galatea, 1512 ca., affresco –Roma, Villa Farnesina, Loggia di Galatea