L’apertura di Casa Balla pone per la prima volta attenzione su uno spazio trasformato dall’artista a propria immagine e somiglianza: e per questo è a pieno titolo (lo spazio del gusto personale, l’estroflessione mentale dei propri procedimenti linguistici e delle proprie piccole ossessioni) uno strumento indispensabile per penetrare i misteri, le umbratilità, le curiosità di una figura che si è sporta oltre la balaustra del tempo.
A differenza di molti personaggi illustri dell’arte che hanno sempre riservato una certa privatezza al loro ambiente domestico (trasformato spesse volte in torrione armato contro ogni eventuale indiscrezione), sin dalla sua casa-convento di via Parioli 6 (oggi via Paisiello), all’angolo tra le attuali via Giacomo Carissimi e via Nicolò Porpora dove si era trasferito grazie a un piccolo aiuto del sindaco di Roma Ernesto Nathan nell’estate del 1904 insieme alla moglie Elisa (sorella del pedagogista Alessandro Marcucci), Giacomo Balla – questo bisogna dirlo e puntualizzarlo – era solito organizzare degli incontri, aprire al pubblico il privato, presentare la totalità del suo mondo che non si fermava al territorio della tela ma si estendeva generosamente a ogni contrada dell’arte e della vita, quasi a cancellarne l’eventuale separazione. «Villa Borghese comincia a essere per mio padre il luogo più caro dove può godere la natura nell’armonia dei grandi alberi e dei prati silenziosi», ha scritto la figlia Luce in uno dei suoi tanti ricordi pubblicati nel 1981.
Questo primo universo domestico plasmato da Balla negli anni 1904-1926 dove aveva accolto anche i suoi allievi a partire da Boccioni e Severini, dopo la morte del suo proprietario, l’ingegnere Adolfo Sebastiani, è stato ceduto per forza di cose al piano di espansione edilizia periferica per far nascere dei villini destinati alle classi sociali più agiate: e dunque «addio care finestre aperte al sole del tramonto, addio vasto orizzonte di Villa Borghese».
In seguito allo choc di ritrovarsi sfrattati, la famiglia Balla è ospite per qualche tempo dagli amici Ambron a Villa Villegas Tavazzi (selvaggiamente demolita negli anni Cinquanta del secolo scorso) e poi sempre grazie agli Ambron in un’altra villetta a Valle Giulia – sistemazione provvisoria di qualche mese – prima di spostarsi a Prati, in un appartamento dell’Istituto Autonomo Case Popolari accordato con un affitto modestissimo e per giunta con la possibilità di riscatto. «Andremo in una nuova casa nel Quartiere Prati; là si costruiscono case popolari; quel quartiere non era molto apprezzato dai romani, dicevano che era umido e malsano, infatti si trova nella valle del Tevere, e noi eravamo abituati sui colli dei Parioli presso Villa Borghese, ma in quel momento null’altro si poteva trovare, poi la casa era esposta a mezzogiorno, aveva molto sole e un terrazzo abbastanza grande; avremmo avuto vicini gli amici Biancale e Giovanni Prini che abitava proprio a due passi dalla nostra futura casa».

Nel marzo 1929 infatti Giacomo Balla, con la sua famiglia, si sposta al civico 39b di via Oslavia, in un modesto appartamento, in un limitato perimetro d’azione dove tuttavia, senza perdersi d’animo, rimodula la progettualità di una vita, ricalibra l’infinito, ripensa a ogni possibile breccia geometrica e a ogni via di fuga dalle tenaglie dei reparti a tenuta stagna della creatività. È qui che Balla, ormai lontano dall’ansia dell’essere senza fissa dimora, concepisce una straordinaria casa-studio-abitazione futurista che appaga il sogno della Ricostruzione futurista dell’universo, quel manifesto firmato assieme all’amico Depero (stampato l’11 marzo 1915) in cui si spinge lo sguardo verso la fusione, l’assoluta totalità. «Noi futuristi, Balla e Depero, vogliamo realizzare questa fusione totale per ricostruire l’universo rallegrandolo, cioè ricreandolo integralmente».
Casa Balla. Dalla casa all’universo è, insieme a Casa Balla, via Oslavia, il doppio imperdibile disegno esclusivo del MAXXI curato da Bartolomeo Pietromarchi e Domitilla Dardi che pone al centro dell’attenzione oggi questo lungo racconto di FuturBalla per puntare su una nuova possibile visione della storia dell’arte, su una via ancora poco battuta dove centrale diventa dunque anche lo spazio privato dell’artista, non più soltanto i suoi scritti o le sue lettere che leggiamo e rileggiamo con lo scopo di cogliere alcuni versanti della sua complessa personalità, ma anche il suo quotidiano.

Accanto a un nucleo di importanti lavori impaginati nella galleria 5 del museo (dove troviamo opere d’arredamento, interior design ante litteram, bozzetti di moda, la sala verde, la porta dello studio rosso o le linee andamentali del 1929) in dialogo con alcuni artisti – Ila Bêka & Louise Lemoine, Alex Cecchetti, Space Popular, Emiliano Maggi, Leonardo Sonnoli, Carlo Benvenuto, Cassina con Patricia Urquiola e Jim Lambie (imperdibile il suo intervento nell’ascensore) – che si confrontano e interpretano o assorbono le ampie contrade creative di un uomo originale, questa narrazione visiva si sposta dunque nell’ultima dimora dell’artista che, dopo anni di silenziosa e meticolosa attenzione nella cura di ogni singolo ambiente e di ogni oggetto da parte di Luce e Elica, le due devote figlie dell’artista (i cui nomi rappresentano tra l’altro il sogno corpuscolare del divisionismo e l’aspirazione futurista verso il futuro), viene aperta al pubblico per mostrare un mondo di emozioni segrete e insieme un laboratorio di esperimenti totali, portati avanti irrinunciabilmente anche dalle stesse sorelle Balla, come si deduce ad esempio dal nome dato alla ironica stansa dei rumori costanti (su un cartoncino applicato all’altezza dell’epistilio si legge esattamente stansa con la «s»), intrappolata dietro una porta a vetro. Negli anni Ottanta, dopo aver costruito un palazzo adiacente alla cucina e aver maldestramente otturato una finestra, è stata data alla famiglia (come risarcimento per il danno) una stanza priva di sbocchi, e per giunta rumorosa (perturbata dal gorgogliare delle varie tubature di acque chiare o di scarico), che è stata così battezzata dalle due eredi con vivace intraprendenza e spirito d’immaginazione.
«Il legame tra l’uomo e le cose è molto più stretto e misterioso di quanto si creda», ha suggerito Milena Jesenská in un corsivo del 1921. Questo perché gli oggetti che ci accompagnano, e che ricerchiamo con cura per farci compagnia, diventano via via mute presenze d’affezione, entità legate al ricordo e alla sfera personale passionale pulsionale di una persona, alla sua intimità, alle sue confidenze, ai suoi segreti. Leggere ad esempio le lettere di un personaggio importante vuol dire seguire alcune riflessioni o confidenze offerte in prima persona a uno dei suoi tanti interlocutori; entrare nella sua dimora significa spingersi oltre, questo è quello che offre oggi l’apertura di Casa Balla (a centocinquant’anni dalla nascita dell’artista), in un luogo dove non cerchiamo più soltanto l’arte, ma anche l’elemento umano. Del resto, per dirla col Victor Hugo dei miserabili, «dalla conchiglia si può capire il mollusco, dalla casa l’inquilino».
Casa Balla. Dalla casa all’universo e ritorno
a cura di Bartolomeo Pietromarchi e Domitilla Dardi
Roma, MAXXI, galleria 5; Via Oslavia 39B (solo visite guidate con prenotazione), dal 17 giugno al 28 novembre
In copertina: Casa Balla. Via Oslavia (Soggiorno), photo M3Studio, courtesy Fondazione MAXXI