In occasione di Cucire il tempo. L’arte come tessitura del quotidiano (a Mantova, alle Pescherie di Giulio Romano, da domani al 7 novembre), progetto di Stefano Baia Curioni e Melina Mulas con opere di Sonia Costantini e Maria Lai (sino al 27 settembre), Marta Allegri e Irene Lanza (dal 28 settembre al 17 ottobre), Rosanna Bianchi Piccoli e Antonella Zazzera (dal 19 ottobre al 7 novembre), allo Spazio Te di Palazzo Te si terrà domani alle 18 una conferenza su Maria Lai di Elena Pontiggia e Maria Sofia Pisu (prenotazione a spaziote@fondazionepalazzote.it), nel corso della quale verrà anche proiettato il video di Tonino Casula su Legarsi alla montagna. Proponiamo qui l’intervento di Pontiggia.
Maria Lai ha avviato in Italia l’arte relazionale, cioè un’arte che non nasce dall’io dell’artista, ma da una azione corale. Ora mi spiego meglio, ma prima vorrei fare una premessa, ricordando le parole di Baudelaire e di Gadda. “La modernità è la metà dell’arte: l’altra metà è la sua eternità”, ha scritto il primo nel Pittore della vita moderna. “Se un’idea è più moderna di un’altra è segno che non sono immortali né l’una né l’altra”, ha scritto il secondo nella Cognizione del dolore. In questo senso l’arte relazionale non va intesa in senso evoluzionistico, come se fosse un’arte “più moderna” di altre, ma piuttosto va considerata una possibilità espressiva che può aggiungersi ad altre possibilità, allo stesso modo in cui l’invenzione del cinema non ha certo cancellato il teatro.
L’opera relazionale di Maria Lai (Ulassai 1919-Cardedu 2013), Legarsi alla montagna, ha luogo nel 1981 nel suo paese natale e si riallaccia al cuore della sua poetica, perché l’artista già negli anni Settanta aveva abbandonato la pittura, sostituendola con tele cucite o libri di tessuto che erano più dipinti. Erano appunto cuciti, disegnati col filo. C’era già in quelle opere, al di là dei loro tanti significati, un’idea di collegamento e di relazione. Cucire significava legare e unire.
Veniamo però a Legarsi alla montagna. Ulassai è un borgo di un migliaio di anime nel cuore dell’Ogliastra, in Sardegna, impressionante per l’imponenza selvaggia delle montagne e insieme attraente per la sua bellezza, la sua trama di grotte. In un luogo non distante ventisei anni prima, nel 1955, avevano ucciso il fratello minore di Maria e l’artista era stata lontana a lungo da Ulassai. Tra l’altro non viveva più in Sardegna, ma a Roma, dove si era trasferita nel 1956. “Io avevo un problema col mio paese” ricorda.
Quando però il sindaco di Ulassai, intorno al 1979-1980, le affida l’incarico di realizzare un monumento, e ottiene il permesso di non eseguire un’opera tradizionale, l’artista, superando l’angoscia dei suoi ricordi, inizia a concepire l’evento di cui parliamo. Prima di tutto interroga la gente del paese sulle leggende che ancora circolavano tra loro. La più conosciuta era La grotta degli antichi. Sentiamola nella versione raccontata da Maria:
Una bambina viene mandata sulla montagna a portare del pane ai pastori. Giunta sul luogo, sente il brontolio del tuono: sta per scoppiare un temporale. La bambina si rifugia, allora, in una grande grotta e proprio qui trova tutte le greggi e i pastori che si riparano, aspettando la fine della bufera. All’improvviso, fuori dal rifugio, si vede svolazzare un nastro celeste portato dal vento. I pastori lo notano, ma non gli danno importanza, lo giudicano una frivolezza. Ma la bambina, capace di stupore, non mette freno al suo istinto, corre dietro al nastro, incurante nella pioggia. In quel momento la grotta frana e inghiotte dentro di sé greggi e pastori.
L’inutile, insegna la leggenda, è indispensabile. Non c’è cosa più necessaria del superfluo. Muovendo da questa consapevolezza, e ispirandosi al nastro celeste di cui parla la leggenda, Maria pensa a un’azione che coinvolga tutto il paese e sia compiuta dagli abitanti stessi di Ulassai. L’idea è quella di legare tutte le case tra loro con un nastro, che poi verrà ancorato alla montagna sovrastante, come simbolo di un rapporto di complicità tra gli uomini e di una relazione con la natura e il trascendente, con le proprie radici e la propria terra, con una “montagna sacra” che rimanda a una dimensione più grande dell’uomo. Additando un ideale positivo si può sperare di stigmatizzare il male: ogni male, ma specialmente la violenza che ci minaccia costantemente.
Parlando con tutta la gente di Ulassai, non lesinando tempo e fatica per incontrare, spiegare, ascoltare una per una le famiglie del luogo, l’artista arriva insieme a loro a una decisione: ci saranno segni diversi a seconda del rapporto che corre tra casa e casa. Se c’è un vincolo di parentela e di affetto si aggiungerà al nastro un pane della festa, una di quelle forme incise e decorate come ricami di cui in Sardegna c’è una tradizione millenaria; se esistono solo legami di amicizia si aggiungerà appena un nodo; se invece, come spesso capita, ci sono motivi di rancore e d’odio basterà solo il nastro, senza nessun altro segno.

In realtà quello che l’artista sta progettando insieme a un intero paese non è un’azione divertente, un esperimento di poche ore, un passatempo da fiera o da Luna Park. È un’azione comunitaria, un’opera relazionale (la prima in Italia) che troverà posto nella storia dell’arte. La performance collettiva di Ulassai si inserisce infatti in una ricerca che anima la scena artistica del periodo e anticipa alcune poetiche degli anni Novanta di cui dà una declinazione suggestiva e convincente. Legarsi alla montagna si potrebbe avvicinare per alcuni aspetti all’happening e a Fluxus, per altri alla Land Art, alla Public Art, a certi esiti all’Arte Povera e del Teatro Povero, ma in realtà è qualcosa di diverso e di nuovo.
Dopo i primi momenti di rifiuto e di sospetto i cittadini di Ulassai, a cominciare dalle donne, si lasciano convincere a partecipare a quello strano teatro. Quanto al nastro, viene messo a disposizione dall’unico commerciante del posto che vendeva tele di jeans e che ne dona all’artista diversi rotoli. Il primo atto di Legarsi alla montagna è appunto la preparazione del nastro: uomini, donne e ragazzi si radunano nella spianata del paese dove un tempo si teneva il mercato e svolgono i rotoli, ricavandone ben ventisei chilometri di strisce azzurre. Il gesto, in sé soltanto strumentale, rivisto nel video dell’evento (girato per l’occasione da Tonino Casula) acquista una particolare suggestione. Sembra di assistere a un sacrificio incruento, alla spartizione di un Vello d’oro, anzi celeste. I grandi rotoli si trasformano in un intreccio di lunghe bende, in un filo d’Arianna che per l’occasione è diventato una fascia di jeans.
Nelle fotografie rimaste (tutte in bianco e nero, su cui successivamente Maria interviene con un pennarello colorando di azzurro il nastro) quel segno celeste si staglia tra le immagini di case e persone, assumendo un accento un po’ magico. Tutto però sembra anche un gioco: lo dimostra la nidiata di bambini che corrono per le strade tenendo in mano la striscia di tessuto, come farebbero per il tiro alla fune o il salto alla corda.

A queste cadenze ludiche si contrappongono quelle più ieratiche. Due ragazzi reggono fra le braccia le matasse dei nastri, come farebbero con una corona di fiori. Una adolescente stringe l’ingombro delle strisce come se fosse un neonato in fasce e guarda in tralice con un’espressione tra pudica ed eloquente che ricorda l’Annunciata di Antonello da Messina. Ma le figure più indimenticabili sono le donne anziane col manto nero e il fazzoletto annodato al collo, secondo la consuetudine del luogo. Sembrano personaggi della mitologia, Moire, Parche, filatrici del destino degli uomini. Sembrano, anche, Madonne addolorate, di quelle che i pittori quattro-cinquecenteschi dipingevano coi capelli raccolti nel contorno del soggolo e del manto. E sono bellissime, così cariche d’anni, così concentrate e silenziose, con la trama di rughe che si incide sul loro volto e gli occhi profondi, neri come il vestito e lo scialle ricamato.
Tutto il paese comunque partecipa all’azione, non solo anziani e bambini. A un segnale convenuto tutti si mettono in moto. Giovani dinamici si arrampicano su una scala per sistemare e legare il nastro; donne nel fiore degli anni si sporgono da una finestra per stringere i lembi della benda; uomini di mezza età lanciano la striscia azzurra per assicurarla a un balcone. Alla fine tutta Ulassai è un lavoro di telaio: case, stalle, architetture di ogni genere sono legate tra loro come in un arazzo.
Il risultato è dunque raggiunto, anche se non manca qualche stecca nel coro della festa e qualche critica nell’insieme delle adesioni. Ciò che importa però non è certo l’effetto estetico, sia pure suggestivo, di un paese “infiocchettato”. Il senso dell’azione, al di là dei significati simbolici del legare e del collegare è che uomini, donne, bambini, tutt’altro che assidui ai meccanismi dell’arte, sono spinti forse per la prima volta nella loro vita a un gesto che non ha un valore utilitario, come può essere lavorare, guardare i campi e il bestiame, pulire la casa, accudire i figli, ma che ha un fine esclusivamente filosofico e estetico. Persone che avevano conosciuto ben pochi libri e musei (come succede alla maggioranza delle persone, non solo a Ulassai, superata la stagione della scuola) si accostano alla pratica dell’arte e ai suoi percorsi espressivi. Legarsi alla montagna diventa così un atto di quella sorta di apostolato laico che Maria Lai svolgerà da questo momento, tentando di avvicinare adulti e bambini, per quanto è possibile, alla dimensione estetica.
L’artista, si intende, vedeva nitidamente i limiti della sua azione. Non si illudeva che muovendo da un gesto, fosse pure da quella sua innovativa azione relazionale, tutti arrivassero a interessarsi all’arte o a diventare artisti nel senso proprio del termine. Era però convinta che tutti potessero sviluppare qualche forma di creatività. “L’indifferenza è contagiosa, ma lo è anche la creatività quando si è partecipi della stessa emozione”, diceva. Coinvolgere le persone in un’azione artistica può avvicinare all’arte: niente di più, ma niente di meno. Certo, bisogna guardarsi da uno sprovveduto pedagogismo, da quei progetti ottimisti di estetizzazione universale che producono solo fallimenti. “Ho tentato di far fare l’opera alla gente, la gente l’ha fatta, si è divertita ma non l’ha capita”, confessava realisticamente Maria. Tuttavia attraverso meccanismi di coinvolgimento e di comunicazione elementare come il gioco e la fiaba si possono ottenere esiti inaspettati.

Riprendiamo però a seguire lo svolgimento di Legarsi alla montagna. Al termine della giornata, quando ormai i nodi sono stretti e i nastri sistemati, l’evento artistico si mescola alla processione che ogni anno si compie in paese l’8 settembre, festa della Natività della Beata Vergine Maria. La gente si incolonna nel corteo diretto alla chiesa e le lunghe bende che avevano collegato le case si allacciano al manto azzurro della Madonna. Qualcuno all’epoca criticò quel finale religioso come un’aggiunta indebita, per non dire bigotta. In realtà un’azione come Legarsi alla montagna che voleva coinvolgere la gente comune, offrire a tutti la possibilità di essere almeno per un momento artisti, non poteva eludere un rito popolare come la festa della Madre di Dio. Maria Lai non ha voluto scegliere un giorno diverso per la sua azione collettiva perché è sempre stata interessata alle manifestazioni della religiosità tradizionale e non ha mai trasformato la laicità in un dogma o in un culto.
L’8 settembre, d’altra parte, è anche una data storica fra le più tragiche della recente storia d’Italia. L’artista non ha mai accennato a una tale coincidenza, ma non si vede come potesse ignorarla, visto che quell’8 settembre non era più una bambina (nel 1943 aveva ventiquattro anni). Probabilmente non le dispiaceva che un’azione come la sua, impostata su una concordia discors, su un tentativo di allacciare legami interrotti e gettare ponti fra realtà non comunicanti, si svolgesse in una data che ricordava la guerra, e la guerra intestina.
L’azione comunque continua anche il giorno dopo, il 9 settembre. Angelo Persichelli, concertista dell’Orchestra Nazionale di Santa Cecilia a Roma, passa per le strade del paese suonando il flauto, come una sorta di benefico pifferaio magico. Sei esperti scalatori venuti da Cagliari, infine, completano l’evento. Si arrampicano sul monte Gedili, sopra Ulassai, e assicurano il nastro alla roccia. “È un’attesa silenziosa, col fiato sospeso per circa due ore. Quando il nastro si solleva ad arco, dalla montagna ai tetti delle case, sembra un getto d’acqua”, ricorda Maria.
Con il gesto degli scalatori l’evento si conclude, lasciando intorno a sé un alone di stupore. L’artista stessa, che non è mai stata indulgente con le sue opere, definirà l’azione “un miracolo”, alludendo al fatto che “proprio un paese lontano dalla cultura abbia dato al mondo un’immagine diversa di come può essere l’arte”. E più volte ripeterà che se di tutte le opere che aveva creato fosse rimasto solo Legarsi alla montagna le sarebbe bastato.
Quando il 9 settembre l’azione ha termine Ulassai riprende la vita di sempre, lontana dalle performance comunitarie e dalle questioni artistiche. L’opera collettiva sembrava destinata a essere dimenticata e invece accade il contrario. L’evento, che quando si svolge riscuote poca attenzione e suscita ancor meno commenti, viene riscoperto dieci, venti, trent’anni dopo, con un crescendo rossiniano che culmina nel 2017 con la presenza di Maria, ormai scomparsa, alla Biennale di Venezia (caso singolare per una rassegna dedicata soltanto agli artisti viventi, anzi teoricamente ai più vivaci di loro) e a Documenta di Kassel. A partire infatti dagli anni Novanta il concetto di arte relazionale, cioè di un’arte che mette le persone in rapporto fra loro, ispira l’opera di molti giovani in Europa e in America e riceve una sistemazione teorica da un critico francese altrettanto giovane, Nicolas Bourriaud, in Estetique relationelle, 1998. Anche da noi allora, alla luce di quelle argomentazioni, si inizia a ripensare a Legarsi alla montagna perché l’evento, come scrive Alessandra Pioselli, anticipa “pratiche di lavoro che, in Italia, emergeranno all’incirca oltre un decennio dopo”.